Maria Rosa Giacon è una studiosa di Letteratura italiana, autrice di pregevoli saggi che ha collaborato con varie Università; si è occupata in particolare di d’Annunzio e, in un mio saggio sul romanzo L’Innocente, apparso in un volume universitario collettaneo ̶ a cura di Maria Cerullo: Proses fin de (XIX) siècle, Il Torcoliere, 2011 ̶ mi servii ampiamente della magistrale edizione da lei curata pubblicata da Mondadori nel 1996 e poi da Bur nel 2012. Partendo dallo scrittore pescarese, Giacon ha scritto tre opere creative, dove il documento storico o filologico che ne sta alla base è sempre interpretato in modo verosimile se non fedele. La prima è un romanzo epistolare, Il suo nome è Gabriele. Le vere lettere di Barbara Leoni (Janieri, 2013), costruito su lettere che Barbara Leoni, all’anagrafe Elvira Natalia Fraternali, rivolge alla sorella Teresa, confidando la sua distruttiva passione per d’Annunzio. Lettere false o di libera invenzione ̶ quelle vere essendo quasi tutte perdute ̶ ma suggerite dall’epistolario, questo sì esistente, dello stesso d’Annunzio. La seconda, Recitare? Che brutta parola!, è una “intervista ultraterrena” alla celebre attrice amata da d’Annunzio, Eleonora Duse (Venezia, 2013), che nell’invenzione dialogizza i principali dati biografici e critici sulla divina. La terza, di cui mi occupo in questa sede, è un romanzo storico ambientato tra Italia, Fiume e Spagna nel periodo che dalla Grande Guerra giunge all’avvento del Fascismo e ai prodromi del secondo conflitto mondiale. A partire dall’epistolario d’una fervida ammiratrice di d’Annunzio, Ada Colantuoni, e di seguito col sostegno di numerose fonti sulla guerra civile spagnola, la narrazione s’incentra sulle vicende vissute da una giovane maestra trentina, figlia illegittima, disprezzata in famiglia e cresciuta con i nonni, di nome Aurora.
Con una mossa ardita, che richiama il Fu Mattia Pascal di Pirandello, in cui il protagonista bibliotecario scrive le sue memorie da uno spazio di morte, cioè la biblioteca in cui si è relegato appunto da morto-vivente, Aurora racconterà le sue avventure post mortem, ossia da un al di là da cui però rimane una porta aperta sull’al di qua, dove si colloca lo spazio del lettore che raccoglie le sue «memorie». Da notare che Aurora stessa sarà, in una parte della sua vita, bibliotecaria per poi lasciare l’incarico, poiché per mantenerlo avrebbe dovuto dimostrare fedeltà al fascismo da lei invece avversato. L’ideale primario di Aurora è infatti la libertà, il desiderio d’una vita piena, assoluta, senza compromessi. Nomen omen, dal momento che Aurora richiama l’alba del secondo conflitto, alle cui soglie il romanzo si interrompe, e soprattutto l’indole del personaggio, sempre alla ricerca dei puri ideali, della verità e di una «vita nuova» (il titolo, dantesco, del capitolo 11 è appunto: La mia vita nuova) senza compromissioni con il potere, con le dittature che opprimono l’individuo. Ed è leggendo proprio i romanzi di d’Annunzio che Aurora si infervora di passione, raggiunge Venezia per chiedere allo scrittore di prendere parte ad una spedizione aerea da lui capeggiata con l’intento di trovarvi una morte eroica, ma il Vate la esorta a consacrare la sua bellezza all’amore, non alla morte. Dopo questa prima delusione, Aurora, che ha seguito quel consiglio ed è rimasta incinta di Giacomo, giovane sottufficiale degli Arditi, ricercherà ancora d’Annunzio nei primi mesi del 1920 durante l’occupazione di Fiume, attratta dagli ideali libertari e anche nella speranza di ottenere un impiego per sé e per Giacomo. Rimarrà nuovamente delusa: d’Annunzio vedrà in lei soltanto un oggetto erotico. Alla vergogna per il cedimento, si associa la paura di perdere l’amore del padre di suo figlio; ma la realtà rivela ancora il suo lato duro a contrasto con i fervidi ideali di Aurora. Giacomo ora non potrà e non vorrà sposare la giovane, dovendo già provvedere al mantenimento dei suoi genitori. La donna allora, fingendosi vedova, si reca in un paese del Trentino divenendone la bibliotecaria. Giacomo invece diventa un fanatico fascista e partecipa alla marcia su Roma nel ’22. Divenuto un quadro di rilievo della Milizia mussoliniana, chiederà, dopo averla rintracciata, la mano di Aurora, che però rifiuta, inorridita dalla feroce metamorfosi dell’amato. Ferito nell’orgoglio, l’uomo la ricatta imponendole un’educazione fascistissima per il loro figlio, Franco, minacciando di toglierlo alla madre se lei non seguirà alla lettera la “diseducazione” di regime…
Sono belle le parti del romanzo in cui Aurora, per contrasto, trasmette a suo figlio, che è entrato nei Balilla e partecipa alle adunate fasciste, gli ideali di libertà attraverso lo studio dei classici della letteratura italiana:
A casa, tuttavia, io non gli lasciavo requie: gli parafrasavo certi versi dell’Inferno che la sua viva intelligenza coglieva con ammirazione, e, con la scusa che Leopardi aveva composto una canzone in lode all’ardimento fisico, gli andavo rendendo familiare anche il mirabile poeta, benché di quei tempi egli fosse caduto in disgrazia per via del suo “pessimismo disfattista”.
Anche il suo amore per l’opera di d’Annunzio va inquadrato nella diversità del difensore degli irridenti rispetto al regime, se a p. 47 leggiamo che Aurora riteneva sbagliato considerare d’Annunzio «tra i padri del Fascismo»: il suo «antico Maestro» era «troppo intelligente per riconoscersi nella rozzezza di quel pensiero, se di pensiero mai si poteva parlare». A questa saggia e libera educazione familiare, fondata sull’assunto chiave del libro che compare come titolo nel capitolo 8, Non v’è carcere al pensiero, si contrappone la tetra e folle “educazione” della scuola di regime. Aurora inorridisce sentendo ripetere da suo figlio l’assurda “Preghiera del Balilla” (1927) ̶ confesso che non la ricordavo, pur avendo letto molto sul fascismo, o l’avevo semplicemente rimossa:
Io credo nel sommo Duce, creatore delle camicie nere, e in Gesù Cristo suo unico protettore… Discese a Roma, il terzo giorno ristabilì lo Stato. Salì all’alto ufficio. Siede alla destra del nostro Sovrano. Di là ha da venire a giudicare il bolscevismo. Credo nelle savie leggi… La resurrezione dell’Italia, la forza eterna, così sia.
Da una ricerca in internet ho appreso che la “preghiera” fu pubblicata sulla Tribuna di Roma il 25 luglio del 1927, quindi prima dei Patti Lateranensi, poi ristampata effettivamente in libri per la scuola. Nel ritrovarla, mi sono chiesto come la Chiesa avesse potuto accettare questa folle parodia del Credo, di cattivo gusto, assolutamente oscena. Inorridisco anche io al pensiero di cosa era divenuta la scuola allora, alla mercé dell’Opera Nazionale Balilla (1926). D’altra parte in un libro di terza elementare si potevano trovare inviti del genere: «pronti, come i vostri padri ed i vostri avi, se la Patria chiamasse, a balzare alle armi, ed a cadere serenamente, se la sua salvezza e la sua grandezza esigesse da voi il sacrificio supremo.» Per inciso, seguo grazie ad una traduttrice ciò che viene propinato nelle scuole russe di oggi: come in ogni dittatura, al di là del colore (oggi va di moda il rossobruno…), gli appelli ai ragazzi, nati da una ideologia di violenza e di imperialismo, sono sempre vergognosamente gli stessi.
Tornando al romanzo, il desiderio di libertà di Aurora porta, la nostra bibliotecaria, richiamata dal suo direttore ad una più stretta osservanza fascista, ad assumere, pirandellianamente, una nuova, seconda identità. Aurora legge sul «Secolo Fascista» della caduta in Spagna del dittatore Miguel Primo de Rivera e di un governo provvisorio istituito per instaurare la Repubblica. Lascerà dunque l’Italia e si stabilirà a Barcellona, la città antimonarchica, dove, temendo d’essere rintracciata dall’OVRA, si finge francese: Géraldine Constant, vedova d’Hubert, madre di François, di professione sarta. Trova accoglienza presso l’alberghetto di una coppia di socialisti, Joan e Coral, che difendono l’autonomia catalana. A Barcellona oltre all’amicizia conoscerà anche l’amore autentico con Jordi, un intellettuale comunista, ma molto critico verso il PCUS e gli orrori stalinisti, così come verso le atrocità del partito comunista spagnolo ai danni dei dissidenti anarchici (è anche raccontata la paranoia comunista dei generali Walter e Líster con le loro feroci repressioni militari). Quello che mi è piaciuto molto di questo libro è appunto lo spirito critico e la passione per la libertà contro le dittature di qualunque colore: spirito e passione rappresentati non solo dalla protagonista, Aurora, ma anche dai narratori di secondo grado, il cui confronto ideologico, che diventa racconto corale, permette al lettore di ricostruire minutamente tutte le vicende della terribile guerra civile spagnola. Aurora, fuggita da Mussolini, ritrova in Spagna nazismo e fascismo che senza alcuna pietà bombardano, in aiuto al dittatore Franco, anche i civili. Aurora non riesce, per il troppo orrore, a narrare nelle sue «memorie» la distruzione di Guernica ̶ immortalata poi da Picasso ̶ , ma parla della precedente mattanza di Durango colpita dal bombardamento degli aerei nazisti e soprattutto dei Savoia-Marchetti italiani. I campioni testuali seguenti possono dare un’idea anche dello stile di questo romanzo, sempre sostenuto ed elegante ma anche attento al registro socio-culturale dei diversi personaggi, che riesce a tenere in equilibrio la mole dei dati raccolti sulla guerra civile e le esigenze del racconto. Un romanzo-saggio, insomma:
Durango: diecimila anime in tutto, senza presenza militare alcuna. E mi causò una pena indicibile venir a conoscere che proprio l’Aviazione Legionaria italiana era stata autrice di un orribile bombardamento a tappeto. Certo sarebbero intervenuti anche i Condor, ma i Savoia-Marchetti dell’Aeronautica Regia furono i principali responsabili di quel misfatto. E quale luogo per primo avevano colpito i criminali? La chiesa di Santa Maria dov’erano radunati i civili […].
Ma ecco un passaggio anche su Stalin tratto dal dialogo di due personaggi, dove si noti la ricercata mimesi linguistica nell’uso d’uno stile “basso” (Joan e Lluis sono degli operai):
“Certo che Stalin ci ha mandato un sacco di armi, aerei, autocarri e carri armati, che fa sfigurare Hitler e Mussolini messi insieme. Ma non è stato un avaraccio a volere che lo pagavamo subito? – sbottò una sera Joan – 578 milioni di dollari! La Banca di Spagna ha quasi svuotato le riserve dell’oro, così pubblicheremo carta straccia, pubblicheremo!”. “Io la vedo anche in un altro modo – osservò Lluís – Insieme alle armi, sono arrivati in Spagna un sacco di russi: non solo piloti e carristi, ma anche militari esperti e alti funzionari del Partito come consiglieri speciali del Governo”. “Così s’impicceranno delle nostre cose! – tuonò Joan – E magari ci imporranno il loro modo di combattere. E noi faremo quello che dicono loro… Non mi sta mica bene, sapete, non mi sta bene per niente! Aiuti sì, ma tutti a casa sua!”
Trovo molto attuali nel contesto contemporaneo di oggi questi passaggi, nel nostro orizzonte ancora una volta dominato da guerre orribili in cui i bombardamenti sui civili si ripetono e il nazionalismo, l’imperialismo non danno pace a «quest’atomo opaco del male», per dirla con Pascoli.
La protagonista morirà mentre fugge dalla Spagna verso la Francia a seguito d’una malattia cardiaca aggravata dalle preoccupazioni della guerra ̶ il compagno Jordi e il figlio, che Franco avevano combattuto pericolosamente in difesa della Repubblica spagnola ̶ dopo d’aver saputo che Franco, fatto prigioniero, è stato salvato dal padre che presta servizio in Spagna, ma che si riabilita davanti al figlio pentendosi del mostro che è diventato. Il gruppo di fuggitivi è accolto con generosità dal proprietario di una fattoria, favorevole alla Repubblica, in una stalla che richiama la «mangiatoia» del Vangelo di Luca:
C’era della bella paglia, profumata e soffice e i buoi e le vacche ci avrebbero riscaldati meglio di quella volta di Gesù Bambino!». Davanti a questa accoglienza, subito prima di morire Aurora pensa che «Il mondo non è poi così brutto […]. Infine si trova sempre un po’ di bontà:
Ma fu a tal punto che avvenne. Quando Jordi si fece innanzi per sostenermi, io gli caddi riversa tra le braccia e sentii il suo grido angosciato venirmi di lontano: “Aurora! Aurora! Che ti succede, amor mio?”. E come per una nebbia scorsi i miei cari tutti chini su di me. “Morte migliore non avrei potuto avere”, riuscii ancora a pensare. Ma non ebbi il tempo di dirlo.
A questo punto, come il personaggio de Il fu Mattia Pascal, ma con qualche variante, la protagonista può assumere la terza identità con cui si ribattezza. Essa si riappropria del suo stesso nome di nascita per raccontare con superiore consapevolezza, da uno spazio di morte – per quanto di morte vera e non da morta che cammina portando fiori alla sua tomba –, le sue «memorie». L’explicit si ricongiunge all’incipit nella circolarità di questo romanzo, iscritto tra le coordinate di due grandi maestri tra loro in contrasto, d’Annunzio e Pirandello:
Il mio nome è… No! Con queste memorie, ben lo si sappia, intendo reclamare alla storia la vita che m’appartiene – nessuno scartafaccio anagrafico reca traccia della mia persona –, ma il mio nome non posso scriverlo così com’è veramente. Chiamarmi in qualche modo dovrò pur farlo e però la scelta non è facile. Dalla distanza in cui mi trovo – scomparsa quale io sono nello scorso millennio – di nomi ho potuto trarre un’amplissima lista, ma, lo devo proprio ammettere, nessun altro ho avvertito calzarmi bene come quello che mi fu dato al momento della nascita e nel quale, passando per esperienze diverse e dolorose, infine mi sarei riconosciuta. Anzi, a petto della sofferenza che vi s’incarnava, di esso mi sarei appropriata e l’avrei indossato come un vestito rilucente una volta acquistata coscienza del mio valore. In breve, per non tradire del tutto la mia natura, che fu esuberante quant’altre mai, qui mi ribattezzerò Aurora […] (p. 9).
L’articolo La nuova vita di Aurora proviene da ytali..