La cosiddetta «grana della voce» [R. Barthes, La grana della voce, Einaudi, 1986] è intessuta da molteplici fattori, sia fisici che psichici. Se da un lato si modella sotto l’influenza della costituzione fisica, ossia gli organi di fonazione, la postura, il sistema osseo, la capacità uditiva e respiratoria, dall’altro viene foggiata dagli afflati, dai presagi, dalla fondazione emozionale e sentimentale, dalle catene ossessive e paranoidi che caratterizzano ognuno.
Che cosa manca alle voci dell’educazione, oggi, per diventare Voci che si impegnano attraverso parole che consentono a educatrici e educatori, a studentesse e studenti, di rispondere “Sì” alla domanda: “Tra dieci anni, mi ricorderò di questa voce?”. Mi chiedevo nel contributo precedente a questo [Esegesi del sé e inquietudine conoscitiva: la testimonianza educativa].
Ritengo sia indispensabile approfondire la questione.
In ambito educativo, il valore della voce umana si manifesta non solo attraverso ciò che viene detto esplicitamente, ma anche tramite le sfumature implicite, allusive, che emergono in un delicato equilibrio tra ciò che è espresso e ciò che rimane sottinteso. Questo gioco tra detto e non detto è cruciale nel processo di formazione, poiché permette di costruire riferimenti e orientamenti che, pur garantendo una certa stabilità, restano aperti all’incertezza, all’imprevisto e alla possibilità di ristrutturazioni profonde del proprio pensiero. La crescita formativa, infatti, assomiglia all’esplorazione di un territorio sconosciuto, in cui si traccia il cammino cercando appoggi che permettano di spingersi verso l’ignoto, di accogliere il nuovo e l’inatteso. Un’eccessiva stabilità porta alla rigidità e alla ripetizione sterile del “già detto”, soffocando la creatività e generando noia e stagnazione. Al contrario, la mancanza di riferimenti genera disorientamento, mobilità caotica e una sensazione di inadeguatezza che impedisce la riflessione critica.
La voce non può continuare a limitarsi ad essere soltanto un veicolo per il significato razionale, perché ha la forza di incorporare ed esprimere la storia, l’identità e l’esperienza di chi parla (e non solo), rendendo viva la testimonianza educativa. La grana della voce, rappresenta un elemento irriducibile al solo contenuto verbale, perché testimonia un vissuto autentico che non si può ridurre a una semplice trasmissione di informazioni. Questa dimensione incarnata della voce diventa oggi più che mai essenziale, in un contesto in cui spesso mancano voci che abbiano veramente assimilato ciò che insegnano, integrando sapere e vita.
Anche John Dewey [Arte, Educazione, Creatività, Feltrinelli, 2023], riflettendo sul rapporto tra esperienza, creatività e arte, evidenzia la tensione tra contrasto e armonia, tra gli aspetti imperfetti e quelli ricchi di significato della realtà. Per Dewey, la creatività emerge da “combinazioni inaspettate” che rivelano possibilità nuove, prima ignorate. Questo dinamismo, che unisce quiete e stimolo, si ritrova nel pensiero educativo quando riesce a tenere insieme l’ascolto attivo e la proposta, accogliendo la pluralità dei significati senza tradire i propri valori e visioni. In questo senso va la lezione di Italo Calvino [Lezioni americane, Garzanti, 1988] che descriveva questa complessità come una «leggerezza della pensosità», una «gravità senza peso» che riflette una modulazione lirica ed esistenziale capace di diventare uno stile di vita.
È un pensiero che richiede coraggio e determinazione: non solo nel valorizzare le proprie convinzioni, ma anche nel saper ascoltare davvero l’altro, spostando il proprio punto di vista per trovare un terreno comune. Tale processo non è in contraddizione con una visione pluralistica della realtà; al contrario, permette di gestire la diversità e costruire convergenze significative, affinando la capacità di distinguere, valutare e integrare prospettive diverse.
In un tempo in cui spesso prevalgono voci disincarnate e prive di radicamento, educare e testimoniare non significa semplicemente trasmettere concetti, ma incarnare quei valori e quelle esperienze che rendono autentici e significativi i propri discorsi. Solo attraverso una voce viva, capace di far emergere la propria grana, possiamo sperare di educare ed auto-educarci integralmente, avendo cura di sé e della collettività a cui partecipiamo.
Il problema diventa allora coltivare una voce che sappia mantenere la libertà della propria originalità e dell’inattualità (Bertin docet), accettando i paradossi senza trasformarli in strategie rigide e controllate. La voce umana, ogni voce umana, con la sua grana unica e irriducibile, non deve ridursi a un semplice strumento tecnico o accademico, perché ciò tradirebbe il carattere autentico e creativo dell’insegnamento. Espressioni paradossali come l’umorismo, l’ironia e quella «leggerezza pensosa» che si accompagna all’inquietudine conoscitiva devono rimanere vive, evitando di cristallizzarsi in esercizi formali che soffocherebbero la vitalità del processo educativo. Serve quindi un equilibrio delicato tra consapevolezza e abbandono, dove la voce, con la sua naturale tensione tra controllo e spontaneità, esprime una tension without intention (R. Albarea, Tenersi nell’instabile, ETS, 2017], mantenendo la relazione educativa in uno stato continuamente rigoroso ed appassionato, risolutivo ed enigmatico.
Questo atteggiamento, attento a mantenere viva la voce non solo di sé ma anche e soprattutto dell’altro, convocato nella relazione, è un atteggiamento imprescindibile per non far assopire la conoscenza che è dentro ognuno. In nessuna fase della vita l’essere umano coincide con una tabula rasa. Con le parole di Ugo Morelli [Per un’educazione planetaria. Epistemologia, metodo, qualità istituzionale]:
La questione iniziale è la mappatura delle conoscenze e dei saperi spontanei sul fenomeno in oggetto. Questo vale per conoscere una margherita, il teorema di Pitagora o la relatività generale. Approntare una mappa sul fenomeno vuol dire creare le condizioni per l’apprendimento dall’esperienza e ogni apprendimento è soprattutto apprendimento dall’esperienza. Il corpo-cervello-mente sollecitato dall’intersoggettività e dalla relazione educativa, si attiva in quanto forma vitale e si muove verso l’attrazione della domanda, esprimendo conoscenze spontanee il cui valore sta soprattutto nell’attivazione attentiva e nelle motivazioni a cooperare più che nella validità scientifica.
Questo, però, è possibile se la relazione educativa non viene ostacolata da eccessive dissimmetrie. I rapporti di cura, come ad esempio fra genitori e figli, docenti e discenti, così come rileva Alfonso Maurizio Iacono [Apprendere con la coda dell’occhio],
sono relazioni di potere basate su gerarchie e dissimmetrie, ma diventano stati di dominio quando non si modificano, quando cioè la comunicazione simbolica è in una parte decisiva utilizzata per il mantenimento e la conservazione dei rapporti così come sono.
Attraverso una generalizzazione, per quanto non eccessivamente azzardata, ci si può chiedere: quante sono le voci dell’educazione che vengono utilizzate per imporre uno status personale? E quante, invece, hanno come obiettivo l’autonomia delle altre voci e la liberazione, favorendo la condivisione della conoscenza?
Le voci vive che insegnano sono voci che vanno oltre la contingenza, che cercano, ogni giorno, di rimediare alle crisi delle narrazioni che stiamo vivendo, e che caratterizzano la seconda modernità. In questo senso, non sono solo voci, ma anche luci, che indicano una direzione. Infatti, le voci che mantengono una loro grana originale e coltivano l’unicità che le differenzia, sono voci che raccontano, non si limitano a trasmettere. E le voci che raccontano avvincono e avvicendano, attirano a sé e inseriscono in un motore narrativo quanto accade nella relazione educativa. Non si esauriscono con l’ultima lezione dell’anno accademico, non passano da una contingenza all’altra, né trasformano la relazione in una catena di effetti che si risolve e si chiude al termine dell’ora. Fanno molto di più: sono voci, luci, che tracciano una direzione che si alimenta settimana dopo settimana, ed è per questo che quella voce diventa rituale, cioè parte integrante del quotidiano di altri, sia in aula che, più semplicemente, nel ricordo. In questo senso, alcune voci, per chi avrà la fortuna di incontrarle, saranno voci di orientamento, per tutta la vita.
Da ottobre 2023 a giugno 2024, guidati dal prof. Lino Rossi, abbiamo condotto una ricerca insieme a una classe quinta del Liceo Canossa di Reggio Emilia. L’obiettivo era studiare l’interazione tra bambini e un robot sociale in una scuola elementare della provincia [Evaluating Inclusion through Educational Robotics and Animated Reading: a Research-Action, ISYDE 2024].
Una delle venticinque ragazze del Canossa, durante le prime settimane di conoscenza, aveva condiviso con me e con le altre colleghe dottorande che, attraverso i racconti di un professore (voce che si fa propulsione all’avvenire), aveva capito cosa desiderasse fare da grande: la maestra nella scuola primaria. Durante la nostra ricerca, ha avuto l’opportunità di entrare in una scuola primaria e, per alcuni incontri, progettare e svolgere attività con i bambini nell’interazione con un robot sociale. Ma non è questo il punto centrale. Il punto è che, al termine della ricerca, durante un focus group di fine anno scolastico, una compagna di questa ragazza, alla domanda: “Qual è stato un momento centrale avvenuto durante la ricerca?”, ha risposto: “Ascoltare la voce di Giorgia mentre racconta una storia ai bambini, e cioè averla vista in relazione con il suo futuro”.
Immagine di copertina: James Tissot, Reading a story, 1878
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