Rebecca Cheptegei era una maratoneta ugandese, aveva trentatré anni ed è stata bruciata viva dal fidanzato. Si è spenta così, lo scorso 5 settembre, la vita di una campionessa che era arrivata quarantaquattresima nella maratona olimpica di Parigi. Un femminicidio in piena regola, dunque, l’ennesimo dramma giunto all’attenzione delle cronache, un orrore al quale non possiamo e non dobbiamo in alcun modo rassegnarci. Eppure accadrà, specie se continueremo a dare notizie del genere in maniera così distratta, dedicando loro al massimo una breve in cronaca, come se non ci riguardassero, come se tutto fosse normale, come la vita di una donna, per giunta africana, anche se non avremo mai il coraggio di ammetterlo, per noi valesse meno.
Sarebbe stato opportuno, ad esempio, che le fosse stato dedicato almeno un minuto di silenzio in tutti gli stadi europei. Sarebbe stato bello se qualche federazione nazionale avesse deposto una corona di fiori di fronte all’ambasciata ugandese. Sarebbe stato utile se la vicenda avesse innescato un dibattito politico adeguato, anziché, al massimo, qualche presa di posizione individuale. Insomma, sarebbe stato il caso che l’Occidente si fosse ricordato di dover essere tale non solo quando si tratta di difendere o esportare la democrazia a dritta e a manca ma anche quando è necessario sostenere concretamente i valori di cui pretende di essere portatore.
Rebecca era una di noi, una ragazza piena di sogni, un’atleta di qualità e, sicuramente, una splendida persona. Credeva nell’importanza dello sport e nel suo ruolo di emancipazione sociale, ci metteva passione e, ancor più del risultato, le interessava esserci. Incarnava, quindi, tutto ciò per cui le Olimpiadi erano nate, tutto ciò che dovrebbero essere e tutto ciò che la società nel suo insieme dovrebbe preservare con cura. Di lei ci resta solo la cenere, spazzata via dal vento della nostra indifferenza.
L’articolo Non voltiamo le spalle a Rebecca proviene da ytali..