La Federal Reserve degli Usa (Fed) ha deciso un taglio di mezzo punto del costo del denaro da essa praticato al sistema bancario. Per il Financial Times con ciò l’Autorità Monetaria oltreoceano “annuncia l’arrivo di un periodo di alleggerimenti quantitativi” in ambito creditizio. È senza dubbio fattualmente vero: il taglio c’è. Inoltre per molti analisti è stato un jumbo taglio rispetto alle loro aspettative (lo prevedevano al 25%). Nondimeno le parole del Presidente di Fed Powell pronunciate nella conferenza stampa seguente l’annuncio paiono più prudenti. Nel senso che per il Fed Chair più che un nuovo modello di politica monetaria l’obiettivo dell’Autorità statunitense è “di mantenere in buona forma l’economia e in particolare il mercato del lavoro”. Va però aggiunto il tema dei rapporti Fed e sistema politico.
Ovviamente la decisione dell’Autorità Monetaria degli States ha impattato sul sistema politico degli Stati Uniti. Il contesto è quello di una difficile e ardua campagna elettorale. Kamala Harris, candidata democratica alla Presidenza, l’ha commentata come l’arrivo di una buona notizia. D’altronde oggi la Casa Bianca è dei democratici; l’idea quindi è che l’allentamento dei tassi può essere uno stimolo all’economia. La speranza del partito dell’asinello è che questa possa essere una scelta di buon auspicio. Vale a dire che, magari influendo in prospettiva sul costo dei mutui, possa produrre consenso alla candidatura di Harris. Viceversa Trump, con logica speculare, accusa la Fed di fare politica (contro di lui). Per i repubblicani, inoltre, questa decisione di alleggerimento del costo del denaro significa che sotto la Presidenze democratiche le cose in realtà stiano andando peggio di quanto si voglia riconoscere nelle stanze del potere. Insomma la Fed, forse per dovere istituzionale o forse per malizia politica pro democratici (teme Trump), avrebbe modificato la politica monetaria perché la situazione è meno rosea di quanto si dica alla Casa Bianca. Nel senso che l’economia degli Usa è vicina alla recessione.
In altre parole, i democratici sarebbero in fallo e la Fed li aiuta a mascherarlo. Va però notato che anche i repubblicani apprezzano. Ma, appunto, temono che la tempistica giochi contro di loro in relazione alle presidenziali di novembre. In realtà la Fed così favorisce entrambe le parti in campo essendo tutte due orientate a politiche di deficit spending. Il fatto è che repubblicani e democratici esprimono un ceto politico debitorio. Di conseguenza attento al costo del medesimo. Guardando agli Usa, ma non solo, ciò significa un forte condizionamento della politica sulle Autorità Monetarie. Dalla crisi dei subprime al SARS-COV2 l’emergenza ha obbligato queste ultime a gigantesche iniezioni di liquidità che nel tempo funzionano un po’ come le sabbie mobili. È arduo uscirne. Molto per la reazione dei mercati politici dei debiti pubblici. Difatti se i tassi crescono essi diventano più difficili da finanziare (con oneri di consenso). Le parole di Trump e Harris lo confermano.
La narrativa che vede il Banchiere Centrale come l’unico Signore del denaro è del passato. Certo, le Autorità Monetarie (di cui la Fed è regina) sono ancora operatori di politiche pubbliche d’ultima istanza in materia di offerta di liquidità. Che sparisce quando cade la fiducia reciproca delle istituzioni finanziarie con conseguente fuga dai mercati e vendita di titoli sempre più difficili da liquidare in cambio di moneta. Quando capita le fonti di mercato della liquidità si seccano (si veda il 2007 e il fallimento di Lehman Brothers). Solo le Banche Centrali (BC) possono evitarlo avendo il monopolio legale della creazione di moneta/liquidità. In particolare lo hanno fatto, oltre che coi mercati, sostenendo i debiti pubblici.Tuttavia questa è una terapia (i bassi tassi) le cui conseguenze, cioè la finanziarizzazione, ne diminuiscono il potere. Perché la montagna di debito creatasi è instabile e sensibile ai tassi. La domanda politica di loro taglio è ardua da eludere.
Tutto ciò limita il potere (inteso come discrezionalità d’intervento) delle BC. La qualcosa è evidente, per tornare al momento politico statunitense, sia nelle pressioni politiche e nelle posizioni di Trump come della Harris. Perché, come detto, ambedue sono politici da deficit spending. Detto brutalmente: se in Usa i prezzi al netto di energia e deperibili restano sul 4% significa che la politica per finanziare la spesa pubblica riesce ad imporre alla Fed un tasso d’inflazione maggiore del desiderato. L’apparizione post SARS-COV2 dell’inflazione era parso restituire potere alle BC: cioè il controllo dei prezzi come “missione principale” libera da condizionamenti. Però il ritorno sempre più evidente del ruolo delle BC come garanti della stabilità ne cambia profilo e modelli d’intervento.
La qualcosa le rende più facilmente catturabili da mercati e politica portandole ad anteporre la stabilità sistemica (cioè bassi tassi) alla lotta all’inflazione. Il Make America Great Again (MEGA) nella versione repubblicana e repubblicana – salvo ricorso alla pressione fiscale – richiede inflazione. La Fed ha accontentato la politica. Solo che Trump, nell’ipotesi di sua vittoria, avrebbe preferito che la decisione fosse stata rimandata alla prossima riunione di Fed: ovvero due giorni dopo le elezioni presidenziali. Se gli anni ’80 del Novecento (con le ondate di grande inflazione) furono gli anni della spinta delle BC come policy maker indipendenti dal sistema politico oggi, viceversa, i tempi paiono mutati. La Fed questo ci dice con la sua recente decisione.
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