Vecchi e giovani vecchi
Abbiamo già parlato (qui) di come questa sia stata la Mostra degli over cinquanta. Il numero di star più esperte che hanno calcato il tappeto rosso in questi dieci giorni di festival è stato di gran lunga maggiore rispetto a quello dei giovani interpreti. Trend opposti, invece, a TIFF (Toronto International Film Festival) iniziato da pochi giorni e che già sta regalando delle sensazioni completamente diverse da quelle di Venezia.
Barry Keoghan, Jacob Elordi, Florence Pugh, Andrew Garfield, Sydney Sweeney, sono solo alcune delle giovani stelle apparse sul red carpet del festival più pop del Nord America. Toronto è sempre stato un grosso nemico per la Mostra. Si svolge quasi in contemporanea, non necessita di prime mondiali (il che vuol dire che può ospitare titoli di richiamo presentati anche a Cannes o altre manifestazioni), ha uno stile più informale e “giovanile”, ma soprattutto viene svolto in Canada. Per le piccole produzioni indipendenti il costo di un soggiorno a Toronto è molto più abbordabile rispetto a uno in Europa. Questa tendenza si nota paragonando i due programmi, a Venezia abbiamo visto solo grandi produzioni di registi e produttori affermati e di successo, la kermesse canadese ospita soprattutto piccole realtà costellate di interpreti più giovani, con la volontà di esplorare il cinema indie e mettersi in gioco. Non propriamente un segnale incoraggiante, perchè è vero che la Mostra è stata un successo, ma la decisione di selezionare da America e Europa solo grossi film dimostra come il festival stia venendo meno alla sua funzione principale, vale a dire scovare nuovi autori.
Detto ciò vero è anche il fatto che, laddove le star più amate sono più âgée, i registi in competizione erano in gran parte molto giovani. Almodóvar, Amelio, Wang Bing sono stati affiancati da quasi novellini come Corbet, Siew Hua Yeo, Steigerwalt, Ortega, Kulumbegashvili, le sorelle Coulin, Delpero, i fratelli Boukherma e da autori con più esperienza ma non ancora in età avanzata come Guadagnino, Phillips, Kurzel, Tsangari, Salles, Larraín. Insomma la tendenza senile che traspariva dal tappeto rosso non è poi così preminente nei registi di quegli stessi film, creando un buon mix tra grandi maestri, nomi affermati e giovani sorprese.
Tuttavia la senilità di un festival o di un’opera non è data solo dall’età dell’autore che la realizza, ma anche dal contenuto o dall’approccio che questi applica. La gran parte dei film presenta un punto di vista, un coinvolgimento emotivo e uno stile tecnico che poco fanno pensare a novità e avanguardia. Mai così tanto l’espressione “film classico” è stata usata per descrivere i lavori in competizione. I francesi, gli italiani, poi The order, Youth: homecoming, Ainda estou aqui, Love, The room net door e persino The brutalist sono massimi esponenti dello stile cinematografico classico della loro nazione.
Ma non ci si ferma qui, lo stesso The brutalist, realizzato da un trentaseienne al suo terzo film, dovrebbe muovere una critica potente e arrabbiata dalla società americana, ma di rabbia non c’è traccia. Come si può pensare di analizzare e distruggere, in negativo, la propria nazione con un’opera da cui non traspare alcun tipo di emozione, ma si limita a raccontare una storia, molto bene per carità, ma in modo oggettivo e distaccato? Sembra più una storia raccontata dal nonno che la volontà di un giovane di disfare tutto e fare politica. Banalmente, dunque, un Queer, un Joker: folie à deux e un Maria (tutti firmati da autori over quarantacinque) appaiono d’un tratto molto più trasgressivi, nei loro tentativi, riusciti o meno, di fare qualcosa di diverso, di raccontare in modo diverso anche il meno inedito dei racconti. L’unico, nel concorso, ad apparire davvero folle e potenzialmente d’avanguardia è El jockey di Luis Ortega. Stralunato ritratto di un fantino che muta sesso e stato fisico più volte.
I vincitori
Anche la consegna dei premi ha favorito i lavori più conservatori. Cominciamo con Venice Immersive, la sezione dedicata alle opere in realtà aumentata che vengono presentate nella cornice dell’isola del Lazzaretto. Ad aggiudicarsi il Gran Premio Venice Immersive è Oto’s Meikyū di Boris Labbé. La giuria di studenti di cinema di Venezia Classici ha, invece, assegnato il premio per miglior film restaurato a Ecce Bombo di Nanni Moretti. Il pubblico ha votato Shahed (La testimone) di Nader Saeivar come miglior film della sezione Orizzonti Extra, che solitamente regala ottime perse indie dagli Stati Uniti e altrettante sorprese da tutto il mondo, ma che quest’anno è parsa una selezione un po’ sottotono, con pochi nomi di richiamo. Proseguiamo con opera prima, prima di addentrarci nelle due sezioni competitive. Il Leone del Futuro Luigi de Laurentis è andato a Familiar Touch di Sarah Friedland.
Eccoci dunque a Orizzonti, sezione dedicata a film meno pop e, quindi, più difficili da trovare nelle sale. L’obiettivo principale resta quello di scoprire nuovi talenti che possano, grazie al palcoscenico della Mostra, sperare in una distribuzione internazionale o di farsi conoscere ad un pubblico più vasto. Il già citato Familiar touch si aggiudica anche il premio alla miglior attrice, Kathleen Chalfant, e quello alla miglior regia, sempre alla Friedland. Miglior attore va a Francesco Gheghi, fattosi conoscere proprio a Venezia con Padrenostro. Ma il premio più ambito se lo porta a casa L’anno nuovo che non venne mai di Bogdan Muresanu.
Arriviamo al Concorso. Premio Mastroianni (miglior giovane attore emergente) a Paul Kircher per Leurs enfants après eux, film che dovrebbe raccontare il coming of age di due adolescenti lungo otto anni della loro vita, che però racconta ben poco. I personaggi restano fissi come li abbiamo conosciuti all’inizio, non c’è neppure una vera e propria trama, ma semplicemente i protagonisti che a intervalli regolari si ritrovano, ogni volta con un taglio di capelli differente. Questo è il secondo ruolo da protagonista dell’anno per Kircher, dopo Il regno animale, film nettamente superiore dove la sua recitazione inquieta ma dal volto impassibile funzionava alla perfezione. Qui, invece risulta un po’ fuori posto, come se l’attore non sapesse bene cosa fare.
Ai due titoli più politici del concorso vanno Premio speciale della giuria (una sorta di riconoscimento per l’impegno nel sociale) e Premio per la miglior sceneggiatura, rispettivamente a April di Dea Kulumbegashvili e Ainda estou aqui di Walter Salles. Il primo è la risposta georgiana al Leone d’oro L’événement della Diwan, che però risulta infinitamente meno disturbante di quel piccolo capolavoro. La regista ha deciso di adottare una regia molto lenta e di inserire elementi fantastici che tolgono forza al film. Nonostante alcune scene di indubbia crudezza visiva, April resta un po’ un’occasione persa. L’opposto, invece, per il film di Salles, decisamente il migliore della competizione. Nel 2022 Santiago Mitre portava a Venezia una commedia drammatica come Argentina, 1985, che raccontava la storia degli avvocati argentini alle prese con il processo di alcuni dei più importanti comandanti della dittatura. Un’opera che proprio per il suo tono politicamente impegnato, ma anche sorridente, aveva conquistato tutti. Salles fa due cambiamenti: il primo è quello di eliminare del tutto il lato comico e quindi intraprendere la strada del dramma puro, una scelta comprensibile ma che rende il film un po’ troppo pesante. La seconda il ribaltamento di prospettiva, non siamo più in una corte di tribunale ma tra le mura di una casa. La casa di una famiglia, di una moglie, che si è vista portare via il marito dalle forze del regime brasiliano. Tutto il racconto, dunque, è narrato dal punto di vista di Eunice Paiva, interpretata da una Fernanda Torres in stato di grazia, derubata della Coppa Volpi.
Il riconoscimento alla miglior regia va al già citato Brady Corbet, che qui aveva vinto il De Laurentis con la sua opera prima e poi era tornato in concorso con il terribile Vox Lux. Mentre il Leone d’argento viene consegnato, a sorpresa, nelle mani di Maura Delpero, per il suo Vermiglio. Un ottimo film d’autore italiano, che presta molta cura a ogni dettaglio, dalle facce degli interpreti, ai costumi, al dialetto, ma perde la possibilità di essere un film molto più esportabile. La storia di una famiglia di montagna fatta dal padre maestro e dai figli che crescono e nascono, poteva, se fatto con un po’ più di umiltà verso il cinema pop, diventare una sorta di Piccole donne italiano. Vermiglio resta comunque un ottimo film, anche se non facile da distribuire.
Veniamo quindi alle Coppe Volpi, premio che più di tutti, assieme al Leone d’oro, incarna l’essere di un festival indirizzato verso un cinema e un approccio vecchio, fatto da vecchi.
Le Coppe volpi e il Leone d’oro c’hanno na certa
Il premio maschile lo riceve Vincent Lindon, grandissimo attore francese, tornato alla ribalta negli ultimi anni dopo il successo del provocatorio Titane. Lindon ci regala e ci regalerà sempre delle grandi interpretazioni e il ruolo in Jouer avec le feu non fa eccezione. Un film che racconta di un padre vedovo di sinistra alle prese con due figli ventenni. Uno è il ragazzo perfetto, appassionato di calcio e pronto ad entrare alla Sorbona, l’altro è un giovane debole, che fin da piccolo ha sempre sentito il peso di dover rispondere ai successi del fratello minore. Ora, sopraffatto dall’ambiente domestico oppressivo, si unisce ad un gruppo neofascista. Quest’ultimo è interpretato da quello che potrebbe diventare il successore di Lindon (o di Vincent Cassel come dice il critico Francesco Alò), Benjamin Voisin. Un attore dal fascino penetrante, capace di rivestire ruoli complessi e sfaccettati, come il suo collega più grande ha fatto per tutta la vita. Una Coppa volpi data più come premio alla carriera che per l’interpretazione singola. Nonostante il film sia rispettabile, resta un’opera più adatta alle proiezioni scolastiche di terza media che a vincere premi ai festival. Considerando che alla vittoria concorreva, oltre al solito alieno Joaquin Phoenix, anche un inedito Daniel Craig, resta un premio che lascia un po’ l’amaro in bocca.
Stessa cosa in ambito femminile. Il successo della Torres sembrava, ormai, più che scontato, ma la giuria ha preferito un’altra attrice di lungo corso, Nicole Kidman. Quantomeno l’interprete australiana si mette in gioco, interpretando una donna di successo di mezza età, spinta dal desiderio sessuale e non solo di una “relazione” più emozionante, rispetto a quella con l’affascinate ma fin troppo buono compagno. Indubbio il coraggio che Kidman ha avuto nel mettersi a nudo, non solo nel senso di levarsi i vestiti, ma soprattutto nel mostrarsi “brutta”. Per una diva che ha costruito il suo successo sulla sua bellezza, che continua a rincorrere con interventi chirurgici di dubbio risultato, non è scontato vedere dei primi piani in cui il suo viso appare distorto dall’età e dalla chirurgia. Peccato, però che il film sia pessimo e la sua interpretazione piatta.
L’emblema della senilità resta, però, The room next door. In questo Almodóvar, non c’è più niente di quello degli anni Ottanta. Primo film in lingua inglese che perde completamente l’elemento sognante e comico che hanno reso il regista spagnolo famoso in tutto il mondo. Almodóvar è stato uno dei primi registi a portare sullo schermo temi come la sessualità, il desiderio, il senso di colpa, l’omosessualità, ma in modo sempre, apparentemente, scanzonato, incarnato perfettamente nei personaggi di Rossy de Palma. Quello di The room next door è un regista vecchio, stanco, che fa fatica persino a camminare, ovviamente lucido intellettualmente ma che sembra aver perso il tocco magico e la voglia di disfare il mondo dall’interno che aveva in gioventù. Il film tratta di un tema importante, la libertà umana, “l’uomo deve essere libero” dice il maestro nel suo discorso in Sala Grande. Una malata terminale decide di effettuare l’eutanasia, ma ha bisogno d’aiuto. Importante non è solo il sostegno dato dal personaggio di Julianne Moore, ma anche, appunto, il desiderio di quello di Tilda Swinton, che preferisce porre fine alle sue sofferenze in pace, prima di ridursi a un vegetale. Il problema è che uno stile come quello dello spagnolo, volutamente artefatto e quasi da telenovela, funziona solo se accompagnato da ironia, in questo caso, risulta invece troppo lento, troppo noioso, troppo pesante. Un film che è stato amato da critici più anziani proprio per il tema e la sua inesorabile flemma, che invece ha dato sui nervi a qualche giovane. Dopotutto in una giuria presieduta da un’attrice rivoluzionaria, oggi di settantun anni, era ovvio che un’opera del genere non avrebbe faticato a conquistare consensi.
Un’edizione, dunque, che ha lasciato sì spazio ad autori giovani, ma caratterizzata da una tendenza vetusta, lenta, sonnecchiante, poco cattiva e arrabbiata, però volenterosa di dimostrarsi intellettuale, dimostrandosi invece non al livello dei maestri del passato.
L’articolo Una Mostra senile proviene da ytali..