Gigi Malaroda è il Vice Presidente del Circolo Maurice GLBTQ e attivista dagli anni Settanta.
Grazie, Gigi, di questa intervista. Vuoi raccontare la storia del Circolo Maurice GLBTQ, a partire dalla sua fondazione nel 1985, e qualcosa sul tuo impegno all’interno di questa?Innanzitutto, due parole su di me per spiegare chi sono.
Sono Gigi Malaroda, ho 68 anni, sono nato nel 1956 e ho fatto prima attivismo di altro tipo e dal 1977 ho iniziato il mio impegno politico nel movimento, che allora chiamavo semplicemente “omosessuale.” Prima del Circolo Maurice GLBTQ, ho fatto attivismo per otto anni all’interno dei collettivi. Per quanto riguarda il Maurice, sono attualmente Vice Presidente; da qualche settimana sono stato finalmente sostituito nella carica di Presidente dopo quattro anni. Faccio parte del Circolo dalla sua nascita nel 1985, quando è nato come circolo locale di Arcigay.
Arcigay era nata allora a livello nazionale con una prima fase nel 1980 a Palermo, poi nel 1985 ha assunto una nuova forma, e ho partecipato personalmente alla fondazione della nuova Arcigay. Il Circolo Maurice ha fatto parte di Arcigay dalla sua costituzione nel 1985 fino al 1996. Sono stati anni di trasformazione: prima, per quattro anni, siamo stati ospiti – parlo al maschile perché in quel momento eravamo solamente tutti uomini gay – di Casa Gramsci, un bellissimo palazzo di Piazza Carlina a Torino che si chiama così perché ha ospitato per qualche tempo Antonio Gramsci ed era la sede della UISP (Unione Italiana Sport Per Tutti) e dell’Arci Regionale. Nel 1989 decidemmo di prendere invece una sede nostra, affittando un ex negozio di parrucchiere e in quel momento assumemmo anche la denominazione specifica di “Maurice”. Dal 1985 al 1989 siamo siamo semplicemente stati Arcigay Torino, dal 1989 siamo stati Arcigay Maurice Torino e nel corso del tempo abbiamo seguito tutte le trasformazioni dell’Associazione Nazionale e siamo diventate intanto Arcigay e Arcilesbica perché è cresciuta anche una presenza lesbica all’interno e a partire dagli anni Novanta anche una presenza transgender, transessuale. Abbiamo cambiato sede, nel 1994 abbiamo avuto per la prima volta una sede in affitto dal Comune: questo per noi è un concetto importante che forse per un pubblico statunitense potrebbe essere utile chiarire. Per noi era fondamentale l’obiettivo che un’istituzione pubblica ci desse una sede, con la convinzione che noi non facessimo soltanto qualcosa per noi stessi, ma che le nostre battaglie civili riguardassero tutta la cittadinanza, perciò il fatto di avere una sede del patrimonio comunale era una rivendicazione politica, come un riconoscimento della funzione che noi svolgevamo e svolgiamo a livello civico.
Dal 1993 avevamo questa sede, fisicamente l’occupiamo dal 1994 e a tutt’oggi siamo in uno stabile comunale, anche in una sede più ampia, paghiamo un affitto ma al contrario di quello che credo (non so se mi sbaglio) sia più comune negli Stati Uniti dove le associazioni LGBTQIA+ si autofinanziano e contano in buona parte sulle risorse interne, in Italia non c’è tanto questa cultura, un po’ perché veramente siamo più poveri e un po’ perché è proprio una questione politica quella che poniamo. Il Circolo, che nel 2025 compie quarant’anni, è cresciuto sia fisicamente come spazi che come soggettività, si è arricchito prima di una soggettività lesbica, di una transgender, e in seguito, all’interno di un’assemblea, qualcuno ha rivendicato la soggettività bisessuale: abbiamo quindi inserito anche la B nel nostro acronimo, e infine all’inizio degli anni 2000 abbiamo inserito anche la Q come adesione alle teorie e alle pratiche queer.
Attualmente quindi il Circolo Maurice GLBTQ è la più longeva associazione presente a Torino, che è è la quarta città d’Italia come numero di abitanti ma con una storia un po’ particolare nel movimento perché appunto si può dire che il movimento degli anni Settanta è nato qui. La situazione torinese è particolare per tante altre caratteristiche che sarebbe troppo lungo spiegare. Una di queste però la voglio citare: c’è un coordinamento che si chiama “Torino Pride” che gestisce non soltanto il Pride come luogo politico importante del movimento ma raggruppa le principali associazioni LGBTQ del territorio. Il Circolo ha come caratteristica una grande biblioteca, la seconda per importanza in Italia dopo quella del Cassero LGBTQIA+ Center (Centro Documentazione Flavia Madaschi), un archivio, anche questo corposo, e abbiamo molte presentazioni di libri. La biblioteca, però, per spiegare un po’ sempre la logica che noi seguiamo, è all’interno del circuito delle biblioteche civiche torinesi, perché per noi è importante che, per esempio, il nostro catalogo stia all’interno di un altro catalogo in cui chiunque cerca dei libri possa trovarli. Molto spesso, siamo l’unica libreria del circuito che ha queste pubblicazioni. Viene gestita da volontarie e volontari, ma comunque è all’interno di questo circuito pubblico. Abbiamo degli sportelli in particolare verso le soggettività più fragili, che noi individuiamo nelle persone transgender (termine ombrello con il quale si comprendono tutte le persone non binary che si riconoscono in diverse soggettività) e nei migranti, persone che vengono da paesi in cui sono perseguitate per il loro orientamento sessuale o l’identità di genere e noi li assistiamo per chiedere il permesso di soggiorno. Oltre a questo ci sono attività che riguardano un po’ più in generale l’attivismo politico come l’organizzazione dei Pride e tante altre iniziative.
In quale direzione sta andando il Circolo Maurice GLBTQ e quali sono gli obiettivi?
A partire dall’inizio del millennio, nel momento in cui abbiamo anche fatto nostro il termine “queer” come teoria e pratica, abbiamo pensato che fosse importante sottolineare le diverse soggettività presenti. Anche per questo usiamo un acronimo diverso da quello che è mainstream. In genere anche in Italia si usa il LGBTQ+. E noi abbiamo mantenuto invece la successione di soggettività che si sono aggregate, perciò rimane GLBTQ e possono anche aggiungersi altre soggettività ma sarà un percorso in cui ci sono delle soggettività interne non per riconoscimento formale.
Noi abbiamo teorizzato proprio la pratica di mixité cioè di uno scambio di soggettività che, affermando pure la loro specificità, vogliono fare un percorso politico e umano insieme, quindi non abbiamo mai approvato il separatismo lesbico ma abbiamo riconosciuto per esempio l’importanza di spazi separati per le donne all’interno del Circolo. Anche per le altre soggettività ci sono degli spazi di riunione distinti ma il Circolo è gestito da un insieme di persone che provengono da queste diverse soggettività. Gli obiettivi sono in questo momento di resistere, considerando la situazione italiana con un governo neofascista che attacca tutte le tematiche LGBTQ+, nonché le donne, come anche tutte le conquiste degli anni ‘70 a partire dall’aborto, visto che sono governi, nazionale e regionali, che vogliono mettere le associazioni pro-vita dentro i consultori, per esempio.
Questo governo che è sessuofobo e omo-lesbo-bi-trans-fobico, sicuramente, con questa pratica di questa cultura di destra, sicuramente ha conquistato molto spazio in Italia, ci preoccupa e quindi per noi è importante difendere le soggettività più direttamente colpite, molto spesso quella transgender e quella dei migranti ma in generale affermare l’importanza della difesa di tutti gli spazi di diritti conquistati negli anni passati, per conquistarne altri.
Per fare un esempio, in generale tra di noi ci sono anche posizioni diverse. Molte di noi non sono così interessate al matrimonio egualitario, mentre abbiamo condiviso pienamente la questione delle unioni civili come momento di battaglia civile. Il matrimonio, ad alcuni di noi all’interno del Circolo, sembra una pratica e un rischio di omologazione, quindi d’accordissimo che tutti devono avere gli stessi diritti, ma mantenendo dei momenti di distinzione e di valorizzazione delle differenze. Sicuramente siamo per battaglie intersezionali, per questo anche per noi è importante la presenza dei migranti, ma anche la vicinanza alle battaglie femministe e sociali e politiche come circolo condiviso. Per esempio, in questi ultimi mesi abbiamo condiviso anche l’impegno a sostegno del diritto della popolazione palestinese a vivere contro le aggressioni israeliane a Gaza. Questi temi ci sembrano importanti e non c’è mai sembrato che si trattasse di difendere gli interessi di una minoranza, piuttosto di fare delle battaglie di libertà e di diritti che però riguardano tutte le soggettività che non li vedono riconosciuti.
Puoi raccontare lo sviluppo e la storia dell’attivismo LGBT in Italia? Quali sono stati i movimenti principali? Quali vuoi ricordare?Diciamo che io mi considero storico come formazione e anche il fatto di aver lavorato sempre molto volentieri nell’archivio, nella memoria, fa un po’ parte di questa mia visione. Il mio attivismo una volta lo chiamavo “militanza,” ma non mi piace più questo termine perché mi sembra un po’ militaresco appunto e preferisco “attivismo”.
L’attivismo l’ho iniziato negli anni Settanta dopo aver concluso cinque anni di attivismo politico in una realtà della sinistra rivoluzionaria italiana quindi è stato proprio un passaggio da quell’attivismo politico generale che era in Lotta Continua poi ai primi collettivi gay. I collettivi gay sono nati appunto nella seconda metà degli anni Settanta e hanno rappresentato un’alternativa politica e una divisione anche del movimento rispetto al Fuori!. Il Fuori! era nato nel 1971 ed è stata l’unica associazione nazionale per tanti anni. A partire dal 1974, nel momento in cui si è avvicinato al Partito Radicale, ha fatto una scelta di posizionamento che per noi era liberale e rispettabile, ma abbandonava l’obiettivo di un cambiamento radicale.
Chi sarebbe “noi”?
Noi siamo quella parte di movimento che si riconosceva nei collettivi, che erano sorti in molte città italiane.
Cosa erano i collettivi?
Abbiamo allora preso questo nome anche dalla pratica collettiva, informale. Per esempio noi eravamo ospiti di realtà politiche, di un comitato di quartiere spontaneo. Non avremmo pensato tanto a gestire una sede, dei servizi, a formalizzarci con un statuto. Per noi che in quegli anni Settanta avevamo ancora una prospettiva di cambio radicale rivoluzionario, il collettivo era l’espressione di un divenire che si trasformava anche nel tempo. Quei collettivi sono in genere stati più maschili. Il collettivo torinese, il COSR, Collettivo Omosessuale della Sinistra Rivoluzionaria, era l’unico che avesse una forte presenza lesbica, le Brigate Saffo, e per me questo è sempre stato un grande privilegio. I collettivi avevano un coordinamento nazionale che si è un po’ progressivamente riconosciuto in Lambda, che era una rivista che era nata nel Fuori! ma dopo se ne era allontanata, e di fatto però i collettivi sono quasi tutti finiti con l’inizio degli anni Ottanta, secondo me proprio anche per il cambiamento del clima politico intorno a noi, cioè noi vivevamo in osmosi con una situazione politica e culturale tipica degli anni Settanta, in cui si pensava di trovarsi in una dimensione di imprescindibile e totale trasformazione. Non è caso che il movimento del 1977, quello dei “Non Garantiti” o degli “Indiani Metropolitani” (è stato chiamato in diversi modi), sia anche stato quello in cui forse ci siamo riconosciuti con maggiore immediatezza.
Con l’inizio degli anni ‘80 la situazione generale è totalmente cambiata e non a caso sono morti quasi tutti i collettivi. Solo due collettivi sono sopravvissuti: uno è il Collettivo Narciso, di Roma, da cui è nato il Circolo Mario Mieli, che anche ora oggi è molto attivo, e il Collettivo Frocialista, il Circolo 28 Giugno, che è diventato il nucleo della nuova Arcigay a partire dal 1985.
In mezzo c’è stato l’arrivo dell’AIDS, che sicuramente a partire dalla prima metà degli anni ’80, progressivamente, un po’ dopo negli Stati Uniti, però almeno dal 1982-1983, ha cominciato a comparire anche in Italia e credo che abbia motivato molti di noi all’esigenza di riorganizzare. L’Arcigay nazionale si era costituita nel 1980, ma nel 1985 è stata ripresa a livello nazionale, e da allora, Arcigay (per un periodo Arcigay e Arcilesbica, poi c’è stata una separazione) è diventata la principale associazione nazionale. Noi abbiamo scelto per esempio a un certo punto nel 1996 di uscirne perché non condividevamo una pratica politica che ci sembra un po’ egemonica e poco rispettosa delle soggettività: ci sembrava importante mantenere una soggettività plurale, LGBTQ+, e ci sentivamo più liberi di avere una pratica politica autonoma e quindi da allora non abbiamo più aderito a nessuna associazione nazionale LGBTQ, anche se aderiamo all’Arci, ma questo perché ci dà una “casa comune” nella sinistra culturale e altri vantaggi.
VS: Nel panorama di queste associazioni, circoli e collettivi LGBT, come si colloca il Circolo Maurice LGBTQ?
Sicuramente noi ora facciamo parte di quella galassia che si vuole dare una struttura, perché ci sono anche dei collettivi informali che sono nati negli ultimi dieci anni, anche a Torino per esempio. Noi riconosciamo invece il valore di una strutturazione, per esempio quella che ci permette di avere dei servizi, dei tirocinanti universitari o persone in servizio civile, di avere una rete pubblica. Contemporaneamente, abbiamo sempre giocato un ruolo di autonomia rispetto anche alle manovre di collocazione fra le grandi associazioni nazionali che in realtà sono Arcigay (per un periodo era anche Arcilesbica, però ha perso molto molto molto peso con le posizioni TERF (Trans-Exclusionary Radical Feminist)), l’A.GE.DO. (Associazione di genitori, parenti, amiche e amici di persone lesbiche, gay, bisessuali, trans*, + ), Famiglia Arcobaleno: sono associazioni nazionali con cui noi abbiamo anche buoni rapporti a livello locale, però non ci interessa tanto di stare dentro un gioco di equilibri di associazioni nazionali. Anche qui a Torino c’è un’associazione che fa parte di A.GE.DO. con cui noi collaboriamo. Abbiamo un’identità di frontiera, cioè non troppo formalizzata ma comunque che riconosce il valore di alcuni punti fermi e anche di alcuni strumenti che sono formali, però sempre con grande attenzione alla cultura, per esempio. Il fatto [è] di avere un archivio, una biblioteca, un bando studi con il quale si premiano gli studi su tematiche LGBT attraverso la pubblicazione con la casa editrice Mimesis.
Per noi la cultura è sempre stata importante ma insieme anche il lavoro sociale e sicuramente il Circolo è in piena trasformazione, continua: per esempio, l’ultimo direttivo vede una presenza straordinaria di persone transgender. Senza voler attaccare etichette, però, cinque delle nove persone che fanno parte del direttivo si riconoscerebbero probabilmente in una identità transgender, mentre anni fa questo non sarebbe stato tanto pensabile. Di questo processo è espression anche il gruppo T, il gruppo transgender del giovedì che vede una presenza sempre maggiore di giovani, giovanissimi, di persone che probabilmente si ritrovano più in una dimensione non identitaria e neanche più tanto queer quanto non binary. Io guardo con attenzione, nel senso che sono cose che non mi appartengono, ma che riconosco e guardo con curiosità.
Vuoi raccontare la tua storia di attivismo LGBT? Quali sono i momenti più importati del tuo attivismo?Innanzitutto io non ho iniziato l’attivismo omosessuale dal nulla, avevo una pratica politica già da molti anni come movimento studentesco e poi all’interno di Lotta Continua. Avevo lavorato su diversi piani, per esempio ho organizzato occupazioni di case, ho fatto lavoro davanti alle fabbriche, ho organizzato mercatini rossi nei quartieri, cose che negli anni ‘70 avevano una significazione sociale molto forte. A un certo punto però io mi sono detto, ma ha senso che io faccia politica sugli altri? Io non ho un lavoro e vado davanti alla fabbrica, non ho una casa e organizzo l’occupazione delle case per gli altri; va bene ed è giusto, però forse dovrei partire un pochino più da me. Da questo punto di vista il femminismo mi ha insegnato molto.
Il femminismo, che ha un po’ rotto alcuni schemi della militanza, perché allora così era, della sinistra rivoluzionaria negli anni ‘70, è una lezione a cui io sento di dovere molto anche soggettivamente. Quindi a un certo punto ho detto, no, forse comincio a occuparmi di me. E quindi questo collettivo che si è formato nel 1977 e di cui ho fatto parte fino al 1980, fino a quando si è sciolto, è stata la prima esperienza di attivismo omosessuale. E lì, al di là del fatto che ricordo questa importante compresenza lesbica, per me è sempre stato molto importante non fare politica solo con maschi. Mi sembrerebbe uno svilimento, una diminuzione di senso.
Per esempio in un momento molto importante è stata una pratica che non molti credo abbiano fatto, un anno e mezzo di una pratica di autocoscienza mista con quattro donne: eravamo quattro frocie e quattro donne di un collettivo femminista che gestiva un consultorio nello stesso spazio in cui noi eravamo.
Per spiegare l’utilizzo del termine “frocie,” ovviamente, nel momento in cui una persona etero usasse in senso dispregiativo questo termine, non l’accetterei e ribatterei. Nel movimento, già negli anni Settanta per esempio uno slogan era “Tremate, tremate, le frocie son tornate,” riprendendo lo slogan femminista “Le streghe sono tornate,” perché il nominarsi, prendere un termine che era dispregiativo ma assumerlo e rigettarlo provocatoriamente all’esterno è una pratica di movimento. Del resto anche per il termine “queer,” la traduzione letterale potrebbe essere checca o diverso, invece assunto e rivendicato assume un significato performativo ed anche “eversivo”; lo stesso vale, per esempio, per lo Schwules Museum di Berlino: letteralmente sarebbe appunto il Museo delle Checche, termine usato in senso spregiativo; ma se ad usarlo è una realtà di movimento, assume un significato volutamente di provocazione positiva, cioè di rivendicazione della diversità identitaria. Per un anno e mezzo con cadenza più o meno settimanale abbiamo fatto questa autocoscienza che mi ha insegnato sicuramente molto.
Dal 1985, quando è iniziato il periodo del nuovo attivismo, per me sicuramente è stato importantissimo: è vero che è un elemento fondante della mia persona e della mia personalità. Voglio solo dire che io non mi riconosco esclusivamente nell’attivismo LGBTQ: per esempio, ho fatto l’attivista sindacale a scuola, come rappresentante dei miei colleghi e mi è sempre molto piaciuto fare anche politica sindacale. Ho fatto battaglie ecologiste, aderendo ai social forum. Non ho mai pensato che nessun attivismo possa essere così separatista che possa riferirsi soltanto a un momento. Quindi, per esempio la condivisione transfemminista, adesso, o le mobilitazioni in solidarietà del popolo palestinese mi appartengono. Avevo fatto anche un campo di solidarietà internazionalista in Nicaragua, un campo di lavoro durante il periodo sandinista, mi è sempre interessata la prospettiva internazionalista.
Ho amato moltissimo il mio lavoro, ho insegnato da quando facevo il secondo anno di università, ho iniziato a fare supplenze e ho finito dopo 40 anni, dopo il periodo messicano di nove anni, quando ho insegnato all’università in Messico come lettore. Per il resto appunto l’attivismo è sempre stata una costante, molto presente, molto motivante e direi che le cose che però mi hanno conquistato di più sono state due: la formazione e le attività culturali. La formazione unisce la passione per l’insegnamento con la sensazione che sia importantissimo modificare la mentalità delle persone già dalle giovani generazioni, quindi aprire le menti dai primi anni di coscienza e di crescita. Quando, a partire dagli anni Novanta, è stato possibile fare i primi corsi di formazione per gli insegnanti, assemblee nelle scuole, corsi di formazione per il personale amministrativo della comune o altro, la formazione mi ha sempre interessato e coinvolto molto. In comune con questo c’è l’attività culturale che è appunto sempre la convinzione che le battaglie giuridiche, le battaglie politiche sono fondamentali, ma cambiare una legge conta fino a un certo punto, quello che conta davvero è cambiare la mentalità e dare occasioni alle persone per confrontarsi con il valore della differenza e quindi dare testimonianza attraverso l’archivio, i libri, presentazioni, seminari, gruppi di lettura: mi sembra che siano sempre stimoli che intanto mi ridanno qualcosa e che contribuiscono un poco anche al cambiamento.
Come dici “Ciao a tutti” quando entri in una stanza visto che “tutti” non è considerato “inclusivo”?
Non suonerebbe appropriato. Ma sai, ho sempre insegnato italiano per molti anni. Però, a un certo punto ho sentito che l’universale maschile non mi rappresentava. Nello scritto, uso l’asterisco. Utilizzo anche una formula che forse ho usato poco oggi, però, che è un simil barese. Per cui io dico, per esempio, “tutt quell come noi,” cioè vocalizzando una specie di gutturale che sospende e impedisce di riconoscere la dimensione di genere. So che ci sono altre pratiche, la “u” per esempio, come “tuttu”; importante è contestare anche linguisticamente l’universale maschile. Ho imparato anche gli ultimi anni a fare questo nella scuola, anche se con difficoltà, ma penso che sia necessario.
Immagine di copertina: Gigi Malaroda al Torino Pride, 2014
Crediti fotografici © Per gentile concessione di Gigi Malaroda
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