Quest’intervista fa parte di una serie di sette interviste sul Fuori! (inclusa questa, e poi quelle con Angelo Pezzana, fondatore del Fuori!, Maurizio Gelatti, Vice Presidente dell’Associazione Angelo Pezzana-Fuori!, Maurizio Cagliuso, archivista e bibliotecario della Fondazione Angelo Pezzana-Fuori!, e gli attivisti del Fuori!, Enzo Cucco, Anna Cuculo e Riccardo Rosso), realizzate durante l’estate 2024 grazie a uno Scholarship Catalyst Program grant della Texas Tech University e sono da considerarsi dedicate a Angelo Pezzana.
Vera Fraboni, architetto, è stata attivista del Fuori! a partire dal 1971.
Grazie di questa intervista, Vera. Vuoi raccontare i tuoi anni di attivismo nel Fuori!? Come e a quali manifestazioni hai partecipato?
Innanzitutto è importante dire che sono nata nel 1954 in un paesino della provincia di Ancona nelle Marche e già da ragazzino ero consapevole che la mia sessualità era orientata e attratta verso il genere maschile. Agli inizi degli anni ‘70, non ricordo esattamente da chi, ma penso da un ragazzo del paese, sentii parlare del Fuori! a Roma, nella sede del Partito Radicale in Via Torre Argentina 18, e in particolare di Mariasilvia Spolato, un’attivista sempre alle prese con il ciclostile, quindi sporca di inchiostro.
Ricordo che dal giornalaio della stazione delle Ferrovie di Senigallia vidi il numero zero della rivista Fuori!. Tra tante riluttanze, paure e indecisioni, lo comperai. Leggere questa rivista mi ha scioccata, perché fino a quel momento noi – dico noi omosessuali, la parola gay non c’era ancora – vivevamo nascosti, ci si incontrava nelle latrine, nel buio delle ultime file dei cinema, nei parcheggi. Il Fuori!, invece, ci invitava ad uscire allo scoperto, a dichiararci, e questo mi faceva estremamente paura, però contemporaneamente sentivo che era qualcosa di molto importante che stava nascendo.
La mia partecipazione al Fuori! si concretizzava nel 1976 quando il Partito Radicale prese parte alle prime elezioni nazionali e nelle liste, oltre a tanti candidati omosessuali, c’ero anch’io. Questa era una presa d’atto, pur sempre in una posizione tra il detto e il non detto; però, ho iniziato a frequentare il Partito Radicale e naturalmente il Fuori! e i suoi membri. Nel 1974 ho partecipato al Congresso Radicale al Teatro Pier Lombardo a Milano e lì la mia consapevolezza ha incominciato a consolidarsi. Sapevo che Angelo Pezzana era stato a manifestare sulla Piazza Rossa a Mosca ed Enzo Francone a Teheran.
Nel 1977 stavo studiando architettura all’Università di Venezia e, tramite il Fuori! veneziano, mi fu chiesto di partecipare a una manifestazione in Piazza San Marco in occasione della Biennale del Dissenso, diretta da Carlo Ripa di Meana. Alla Sala del Cinema al Lido era stato proiettato un film di Sergej Paradžanov, un regista russo e omosessuale a cui il regime sovietico aveva vietato la presenza di persona a Venezia. Facemmo una manifestazione simbolica con delle catene ai polsi. Era presente il settimanale L’Espresso, che fece uscire un articolo molto esauriente.
Negli stessi anni stava nascendo, sempre in grembo al Partito Radicale, il MIT (Movimento per l’Identità Transessuale) che io guardavo con grande interesse senza spiegarmi il perché. Ho continuato a frequentare vari membri del Fuori!, da Angelo Pezzana, Enzo Cucco, Enzo Francone e Marco Silombria di Torino a Italo Corai di Pordenone. I rapporti non si sono mai interrotti, è rimasto sempre un filo rosso.
Nel 1976, Angelo è stato eletto deputato supplente da subentrare nella seconda parte della legislatura, quindi un riconoscimento a livello istituzionale.
Nel collocare l’esperienza del Fuori! nella mia vita, questo movimento è stato la mia presa d’atto sociale e mi è servito a comprendere che la mia attrazione verso il genere maschile non era qualcosa che apparteneva solo a me, ma era una cosa molto più diffusa. Quindi, mi è servito a non cadere nel ghetto dell’isolamento. C’era un referente, un partito che si era preso carico delle nostre istanze.
Per me è stato l’aggancio per non sentirmi solo in una realtà di paese che mi bullizzava per i miei modi femminei. In quel periodo, sapevo di omosessuali che erano visti come delle macchiette di paese. Chiaramente io non volevo essere una macchietta. Il Fuori! mi ha fatto comprendere che la mia omosessualità era qualcosa di sociale, di politico e che avevo il diritto a viverla in pieno, non nell’oscurità. Questa è l’importanza che per me ha avuto il Fuori!: il non farmi sentire emarginato e ghettizzato.
Certo, dovevo andare al Partito Radicale di Roma, a Torino, ai congressi. Presi anche contatti con il Partito Radicale delle Marche e lì ho conosciuto Monica Galdino Giansanti che è stato il primo travestito perlomeno in questa regione che ha rivendicato attraverso articoli sul Fuori! il suo diritto ad essere uomo, ma anche di essere Monica quando voleva.
Nel darti una risposta a questa prima domanda sono dovuta andare a ripescare nel mio archivio mentale. Oggi, sono molto concentrata sul mio presente e sto lavorando a mettere le basi per un futuro felice e sereno.
I congressi del Partito Radicale, che si tenevano sempre i primi di novembre, erano occasione per conoscere altri membri del Fuori! e partecipare alle decisioni politiche e congressuali.
Trovare una comunità è importante.
Certamente, lo scopo del Fuori! era di affermare: “Uscite dalla clandestinità, dichiaratevi perché non siete più soli”. Questo è stato il senso del movimento, non ancora esistente negli anni della contestazione a Sanremo di Angelo e di altri al congresso di psichiatria. Fino a quel momento l’omosessuale era considerato un ammalato psichico.
Ricordo che a Senigallia c’era Ninni, un insegnante d’inglese al liceo, persona coltissima e molto eccentrica dalla quale andavo a ripetizione. Lo guardavo con gli occhi ammirati: Ninni era deriso però era rispettato perché professore liceale, dotto in musica e in letteratura francese, tra le sue varie competenze. Quando ho detto a mia madre che mi trovavo bene solo con persone come lui, lei mi ha chiesto perché e ho risposto, “Perché mi sento come lui”. Commentò, “Ma tu non sei come lui”. Quindi, mi ha proposto di andare da un medico nostro amico di famiglia che mi ha chiesto se mi piacessero gli uomini. Lì ho capito che iniziava la mia vera battaglia. Gli ho detto di no perché non intendevo essere medicalizzato e mi sono detto che d’ora in poi avrei dovuto farcela da solo. Ho preso atto che da quel momento iniziava la mia lotta, la mia vita e successivamente il Fuori! è stato parte determinante.
Fino a questo punto hai già rilasciato diverse interviste e realizzato video interviste. Volevo chiederti quali aspetti della tua vita vuoi condividere.
Ci tengo a condividere e raccontare tutta la mia vita.
Con il Partito Radicale e il Fuori! ho sempre lottato per i diritti delle persone. E proprio io che lottavo per i diritti altrui, ho impiegato 43 anni per concedermi la possibilità di mettere in correlazione armonica psiche e corpo. Sentivo sempre dentro di me un’insoddisfazione e solo dopo un incontro occasionale, ho capito perché non stavo bene. Era molto semplice: io desideravo rapportarmi al genere maschile, non da uomo, bensì da donna, quindi questo creava in me una irrequietudine. Non avevo mai una gratificazione completa, ero sempre alla ricerca affannosa di sesso, fin quando mi sono concessa il diritto alla mia vera identità. Fabrizio ha vissuto come Fabrizio l’architetto, ha avuto successi, tutto quello che vuoi. Però, Fabrizio era una donna e a 43 anni è nata Vera. Da subito ho avuto la dimostrazione che avevo intrapreso la strada giusta per la mia vita. Infatti, nel giro di qualche settimana sono guarita da tutte le malattie psicosomatiche, psoriasi, dermatiti, herpes.
Ho avuto la fortuna di essere presentata al Cocoricò da Daria Bignardi che mi ha invitata alla trasmissione televisiva Tempi moderni sul canale Italia 1. Ero sul palco, vestita con un tubino verde acido di Prada, e mentre Daria mi presentava come Vera Fraboni, architetto di Senigallia, sul mega screen scorrevano le mie foto in giacca e cravatta. Questo è stato il mio outing in tempi molto brevi e quasi senza rendermene conto. Infatti, sono tornata a casa in aereo alla sera e la mattina sono uscita al maschile. Uscendo di casa, ho fatto mente locale che poche ore prima avevo fatto il mio outing televisivo, sono rientrata e sono uscita di nuovo al femminile, ricevendo il plauso del fotografo Mario Giacomelli al bar davanti a una tazza di caffé.
Perché ho impiegato 43 anni a concedermi il diritto di mettere in armonia un’indole con un corpo e vivere al femminile? Il perché era molto semplice, me lo sono chiesta in psicoterapia più volte. Il problema era quello di non dispiacere mia madre. Questi outing sono un problema per i genitori anche oggi, figuriamoci allora per una donna che veniva dalla guerra e teneva in grande considerazione il giudizio della gente, di cui mi sono totalmente fregata. Le persone che mi volevano bene mi sono state vicine; le altre se ne sono andate. Quindi è stato proprio un lavoro di ripulitura delle frequentazioni.
Con la nascita di Vera, sono diventata una persona meno problematica, che parla di sé tranquillamente, perché le cose le ha ben chiare sia in testa sia nell’essere fisico. Ne parlo volentieri, non perché io debba insegnare qualcosa. Io dico sempre, questa è la mia esperienza di vita, parte cinquant’anni fa, con il Fuori!, importantissimo. Anche se per motivi geografici non ho vissuto appieno la militanza con il Fuori!, sono comunque riuscito a comperare quel numero zero della rivista e rimanere scioccato da quello che ci veniva chiesto, come ad esempio di “uscire” allo scoperto. Lì per lì mi sono detto, non ce la posso fare, però la mia appartenenza al Fuori! è stata una grande scuola di vita e ancora oggi me la ricordo con emozione.
Le vite professionali vanno in parallelo con le questioni identitarie. Tu lavori nelle arti visive: vuoi parlare della tua formazione di architetto e di quali tipi di architettura unisci nel tuo lavoro?
Ci tengo molto a dire che sono nata anche con una grande passione per l’Arte, che si è manifestata fin da bambino nel disegno. Inoltre, ho avuto uno zio che mi ha fatto conoscere I Maestri del Colore della serie di Fabbri Editore, e mi spiegava e raccontava i movimenti della storia dell’arte. I miei genitori, anche su indicazioni degli insegnanti, mi hanno agevolata verso un percorso di studi che fosse artistico anche se ancora non era chiaro che si trattasse dell’architettura. Perciò, dopo le medie sono andata a studiare ad Urbino alla scuola d’arte dove è maturata la mia decisione di proseguire gli studi alla Facoltà di Architettura di Venezia. I miei mi hanno sempre supportata, alle volte anche oltre le loro possibilità economiche.
A Venezia si è accentuata la mia passione per l’architettura, la scultura, la danza, compreso il cinema, il teatro e la moda. Cosa che invece non si è nutrita è la mia preparazione architettonica perché negli anni post-1968 progettare era considerato borghese e non rivoluzionario. Quindi, gli esami di storia dell’arte erano sostituiti con esami di sociologia, tutti con un taglio politico che non condividevo. Per fortuna, sono riuscito ad inserirmi nel corso di progettazione del Maestro Carlo Scarpa e mi sono sentito rinascere. Avevo deciso di chiedergli la tesi, ma Carlo Scarpa ci ha lasciati, scivolando mortalmente in un negozio in Giappone e qui ho capito che dovevo prendere la prima tesi utile per uscire perché poi avrei studiato e approfondito dopo, e così è stato.
Nel 1981, mi sono ritrovata a laurearmi e all’esame di Stato, e a novembre ho avuto la partita IVA, l’iscrizione all’Ordine degli Architetti e da lì ho iniziato il mio percorso professionale e di studi.
Il mio linguaggio architettonico è decisamente contemporaneo con radici nella classicità di Palladio, nell’architettura degli anni Trenta, per poi arrivare a Giò Ponti, Ignazio Gardella, Luigi Caccia Dominioni, Vico Magistretti, Gae Aulenti, Achille Castiglioni, Maestri che ho studiato e continuo ancora a studiare. Di conseguenza, sempre avendo a mente le lezioni del Maestro Scarpa, certe cose le ho ritrovate, mi ci sono riconosciuta ed ecco quello che oggi progetto.
Il mio linguaggio, che è la sintesi di tutte queste esperienze, oggi mi rappresenta negli arredamenti di interni e nell’architettura. Sono appassionata del design e dello studio della luce, quindi delle lampade e dei corpi illuminati, e non c’è un mio lavoro che non parta da un’attenta analisi dell’interazione tra luce naturale e artificiale. Un’abitazione cambia nell’arco della giornata nell’interagire con queste due caratteristiche. Per me, la luce è molto importante perché crea emozioni negli interni.
Una casa senza uno studio approfondito della luce non è un progetto compiuto, anzi non è proprio un progetto. Qualche anno fa, in un momento in cui avevo bisogno di creare – perché il bisogno di creare per me è qualcosa di quotidiano, che sia una casa, una lampada, l’innesto di un bullone con qualcos’altro – mi sono chiesta, cos’altro posso fare? Ho pensato che mi sarebbe piaciuto disegnare dei gioielli, ci ho riflettuto e ho iniziato a configurare il mio progetto di bijoux. Naturalmente, ho capito che la chiave di lettura della mia espressione erano i particolari dell’architettura, perciò le forme geometriche, il cerchio, il quadrato, il triangolo equilatero. Mi sono ricordata quando da piccolo piegavo i pezzi di fogli di quaderno e ne facevo delle forme spaziali.
I miei gioielli partono proprio da questo: un quadrato piegato in quattro, un lembo che si apre da una parte e dall’altra, e da figure piane che diventano tridimensionali e decoro per chi le indossa.
Questa tua introspezione all’interno del tuo lavoro di architetto mi porta alla considerazione che le forme di questi bijoux si ispirano alle installazioni mobili di Calder.
Mentre Calder usava delle forme che potremmo definire come delle gocce ingrandite e informali che galleggiavano nello spazio, le mie sono riconducibili esclusivamente alla geometria.
Nel corso della mia esperienza professionale sono stata chiamata dall’architetto Enrico Astori a collaborare con la Driade, dove ho avuto modo di conoscere sua sorella Antonia Astori e Adelaide Acerbi, sua moglie. Ho conosciuto anche Enzo Mari, Dino Gavina, Bruno Munari, approfondendo la mia conoscenza delle basi del design e dell’architettura.
In venti e più anni di psicoterapia settimanale, sono andata a scavare non solo dove era necessario per vivere meglio, ma anche in cose che riecheggiavano nel mio passato. Ad esempio, ho partecipato alla lotta per la chiusura dei manicomi ai tempi di Franco Basaglia e Franca Ongaro: io stessa, avendo degli amici che studiavano medicina, ramo psichiatria, mi sono approcciata a La morte della famiglia di David Cooper del 1972, quindi in questi vent’anni sono andata a riprendere tutte le cose che erano nel magazzino della mia memoria e sono riuscita a dare loro una risposta compiuta.
Questo mi ha portato a vivere in un mio mondo interiore anche attraverso la pratica Buddista del Sutra del Loto. La mia ricerca spirituale è iniziata fin da giovane, non includendo il cattolicesimo, nel quale non mi riconoscevo. Ho cercato all’interno dell’Oriente ma non ho trovato qualcosa che mi appartenesse fino a quando otto anni fa circa, raccogliendo l’invito di mia cugina buddista e morente, ho iniziato a recitare il mantra buddista Namu Myōhō Renge Kyō, e oggi sono qua a raccontare la mia vita con grande gioia e semplicità.
Ho attraversato, senza esserne coinvolta, il periodo dell’eroina, gli anni del terrorismo e delle Brigate Rosse, il 7 aprile di Toni Negri, Emilio Vesce, e anche il periodo dell’AIDS. Non farsi coinvolgere è stato difficile e ha comportato un gioco di equilibrismo. Sono riuscita a farcela perché avevo questa passione innata che mi portava sempre a ricercare il bello alla Peggy Guggenheim Collection e alla Galleria d’Arte dell’Accademia di Venezia. Per me tutto il discorso dell’architettura, della pittura, dei gioielli, delle lampade, rientra in questa grande passione che poi in alcuni momenti si declina in un modo o in un altro.
Crediti fotografici: Filippo Sorcinelli
© Per gentile concessione di Vera Fraboni
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