Nella lectio magistralis tenuta a maggio all’Università di Foggia, Mauro Ceruti ha proposto un bilancio della ricerca iniziata quarant’anni fa con Gianluca Bocchi sulla «Sfida della Complessità».
Avendo sottolineato la solida identità tra scopo pedagogico e filosofia nell’antica Grecia, Ceruti ha scandito i sei requisiti della nuova paideia che corrispondono alle esigenze maturate da quando siamo entrati «nel giro di boa dei cinque secoli di planetarizzazione dell’umanità». Collocato in questo questo arco di tempo, il garbuglio della complessità non può essere scambiato col singhiozzo d’una stagione corridora che scappa via senza lasciarci il tempo per riordinare la casa dopo averla messa sottosopra. La sfida alla complessità nella modernità rientra nel «processo di ominazione» col quale Homo sapiens «si è compiuto in una specie incompiuta». Una storia che «non è stata il dispiegamento di un destino già dato, bensì il teatro in cui si è svolta una creazione [di] diverse forme di umanità». Ma, incapace di misurarsi con «l’unitas multiplex» di un’umanitàche in realtà non c’è mai stata, l’età moderna, uscita dal Medioevo, se lo è trovato difronte, vivo più che mai e impegnato a ostentare, da una parte all’altra del mondo, la sua stabilità millenaria, così da mettere alla berlina la nostra malvissuta fluidità; quel che è peggio, per sbeffeggiarci con i suoi modi di apparecchiare quel futuro che eravamo persuasi di saper controllare, attrezzati come siamo nella misura, nel calcolo e nella previsione imparati durante l’illuminismo che diradò l’oscurità d’un passato dal quale eravamo determinati a allontanarci quanto più possibile rapidamente.
Gli effetti della corrosione praticati dal Medioevo presente&futuro sono così vistosi da imporre la riflessione sul processo che ci ha immessi nel mondo globale, connesso e interdipendente, caratterizzato – dice Ceruti – da «una circolarità continua, in cui tutto è sia causa che effetto». Così ci accade di assistere al riverbero che il battito d’ali d’una farfalla «può avere […] sul ‘tempo’ che farà nel mondo intero, pochi giorni dopo» come se, l’interdipendenza fra tempo e spazio potessimo vederla alla moviola. La loro intima relazione, che ci permette di cogliere il micro nel macro, è divenuta evidente attraverso una serie di acquisizioni guadagnate nei cinque secoli di storia passata.
Non ci avevano fornito, Bergson nel 1889 e Einstein nel 1905, elementi sostanziali per capire il legame dell’unità spaziotemporale? Non era stata fondamentale la lezione di Kant del 1781 nel situare le nozioni di spazio e tempo nell’appercezione pura del sistema trascendentale che distingueva la conoscenza a priori dell’io penso da quella empirica? In questa costruzione, Kant aveva attinto alle acquisizioni di Leibniz del 1703 sulla distinzione tra la percezione, in grado di cogliere i dati di realtà attraverso i sensi, che i viventi hanno in dote alla nascita, dall’appercezione, attitudine esclusiva di noi umani, nel prefigurarci, attraverso la riflessione, la rappresentazione della realtà implicita ai possibili nessi conseguenti ai singoli accadimenti. Potremmo negare il debito contratto dal razionalismo col metodo scientifico di Galileo che, a partire dalla matematica, ma non sdegnando l’uso del cannocchiale, uno strumento inventato per usi pratici, consente al paradigma copernicano d’imporsi su quello tolemaico mostrando, da una lato, quanto erano fondate le idee dei filosofi che, per aver sostenuto quel cambiamento, o erano stati emarginati o erano andati al rogo e, dall’altro, i dubbi dei naviganti che, al tempo delle scoperte geografiche, non trovavano corrispondenza fra le mappe disegnate dalla cosmologia tolemaica e gli spazi di mondo nei quali s’inoltravano? Infine, il dualismo cartesiano fra cosa pensante e inestesa e cosa estesa ma non pensante, è solo materia del pensiero umano o riguarda la possibilità di un più generale legame evolutivo del vivente con la res senza dover rievocare l’animismo? Se la storia dell’universo procede da un evento, e non è già data dall’eternità, possiamo ammettere che quell’evento, dopo aver scatenato l’universo, potrebbe ripetersi, e concretamente si ripete, sulla Terra diventata «un unico sistema dinamico complesso, autoregolato, con componenti fisiche, chimiche, biologiche e anche umane: perché l’umanità è diventata una grande forza della natura»? Il battito d’ali d’una farfalla, il canto delle cicale o il silenzio delle lucciole, ci interrogano sulla nostra esistenza e corresponsabilità nei modi d’intervenire su questo ordine, di amplificare a dismisura le catastrofi, perfino di provocarle. Potrebbe crollare, per gli effetti degli sconvolgimenti climatici, quel che non avessimo costruito? Il costruito, il nostro modo d’essere nel costruire e nel fruire del costruito, crediamo che sia minuscola cosa per un Mondo esteso, solido e refrattario alle pretese di qualsiasi vivente gli capiti momentaneamente tra i piedi?
È così estraneo e indifferente l’inorganico all’organico? E nella catastrofe che crea morte e distruzione vi è morte solo perché muoiono gli umani o vi è anche nuova vita – con o senza di noi – che nasce dalla putrefazione della nostra civiltà? Quali nessi legano il vivente al non vivente, quale minerale, nella sua identità debole e più contrattabile alimenta e assume vita? Dovremo credere che la natura fa salti e crediamo che li faccia quando piace a noi? E a noi piace che accada quando siamo così a corto, nel pensiero, da non saper spiegare cosa lega cosa a cosa dopo aver sciolto l’equivoco del meccanicismo causa-effetto. Questa carenzanella teoria nutre ogni forma di sapere e può bensì esprimersi attraverso la metafora del battito d’ali che presiede alla connessione cosmica, ma finché non sa dotarsi di un cannocchiale capace di mostrare tutti i singoli passaggi che portano alla catastrofe, non disporrà degli strumenti politici che impediranno gli esiti più indesiderati; e lì avrà vinto Bellarmino, di nuovo.
Difronte a questa complessità, che si oppone alla pretesa linearità di fatti, Ceruti invoca una nuova paideia per una «comunità di destino planetaria» che, come dicevo, prospetta attraverso sei requisiti. Sintetizzandone il pensiero, la nuova paideia dovrà aiutarci a) a«comprendere che sapere è entrare nel movimento delle cose»; b) a esercitare una visione coerente con la «relazione cosmo-antropologica in cui l’uomo non è separabile dalla natura» essendo parte del suo «processo di co-evoluzione»; c) a concepire la scienza e la tecnica come «strumenti per costruire un’alleanza con la natura»; d) a riconoscere che il «rapporto coevolutivo con tutti gli attori del mondo, viventi e non viventi» è precondizione della nostra sopravvivenza; e) a riconoscere «l’indivisibilità terrestre, biologica, psichica, sociale, culturale, spirituale della vita umana»; f) a riconoscere «l’indivisibilità e nello stesso tempo la pluralità dell’umanità».
Una paideia, come si vede, declinata sulla conoscenza, sulla capacità di elaborare una visione delle cose e riconoscere quel che si è misconosciuto.
Nell’Atene di Socrate la paideia è modo d’essere nel luogo della cultura orale molto tempo dopo che la scrittura era stata introdotta. Quando Socrate evoca il mito del re egizio Thamus che rifiuta la scrittura offerta dal dio dei doni Theuth, intende preservare la paideia nella sua irriducibile valenza formativa. La scrittura, che non aiuta la memoria, ma a richiamare quanto si è dimenticato, che non aggiunge conoscenza, perché è la riproduzione di quel che si sa, è soprattutto nociva nella relazione paidetica perché rimane sempre uguale a sé stessa e, interpellata più volte da soggetti diversi in tempi diversi, ripete sempre la stessa cosa. Al contrario, la relazione paidetica è dinamica e di continuo ricerca nuove strade per pervenire al logos. Non disprezza le opinioni correnti; consulta chi ha fatto esperienza dell’argomento di cui si discute, ma non si affida alla verità degli esperti; è nel confronto paidetico che si perviene al logos dal quale è sempre possibile riprendere il cammino della conoscenza. La paideia è modo d’essere individuale, relazionale, collettivo e istituzionale; è architettura del pensiero, della politica, della città; non ha un fine, non è soggetta a misurazione, né a valutazione, a certificazione tantomeno; è un fine, che comporta conseguenze, ma non sanzioni.
Né si deve credere che Socrate fosse pregiudizialmente ostile alla tecnologia della scrittura. Platone ci dice che poneva il problema della sua convenienza e opportunità nell’ambito della paideia: un campo fertile nel quale i frutti non maturano all’istante, come avviene in un ambiente artificiale, ma secondo i tempi delle persone, delle loro esperienze e conoscenze nonché del coinvolgimento emotivo nella relazione.
Per quanto le stagioni possano avere una scadenza, questa si conclude nel 399, l’anno del processo a Socrate. Sono trascorsi quarant’anni dalla morte di Antigone a Tebe che, con altrettanta approssimazione, potremmo indicare come l’inizio della fine per la polis che certo si consuma per ben altri eventi.
Socrate e Antigone credono che le leggi possano e debbano essere persuase dall’azione di chi, in nessun modo, pensa di sottrarsi alla loro regola. Le ragioni che intendono far valere a Tebe e a Atene sono quelle della parola pronunciata nel confronto con Creonte e con Meleto, sostenitori di una legge rappresentata come se fosse scritta dagli dei mentre non è che il frutto dei loro editti vergati per interessi personali. La giovinetta sedicenne e il vecchio filosofo settantenne vanno a morire per difendere la loro verità che la decadenza della polis non è più in grado di garantire.
Ben presto, l’universo di Atene si rivelerà come uno spazio tolemaico di fronte alla smisurata grandezza copernicana del mondo prospettato da Alessandro Magno.
Ora s’impone la civiltà della scrittura e la paideia della cultura orale appare inadeguata al giovinetto Isocrate, cresciuto ai tempi di Socrate. Pur frequentando l’Accademia di Platone e di Aristotele che, nella Politica, aveva stabilito il nesso tra logos e polis, Isocrate non esiterà a spostare l’accento, nel suo insegnamento professionalizzato, dal logos alla doxa aprendo la stagione di una paideia aperta ai bisogni e agli umori della modernità. La paideia ha ormai intrapreso il cammino di autonomia dalla cultura orale per affermarsi come educazione, come Bildung,dove non esiteremo a riconoscere il valore dell’istruzione accanto a quello della formazione. Ora l’educazione è dotata dell’armamentario di un fine, di un metodo, di strumenti, ora può essere misurata, valutata e certificata. Ora l’educazione non esita a sanzionare e può essere sanzionata e riformata. Tutto questo può accadere al plurale, può riguardare educazioni diverse e si può pretendere che nuove educazioni entrino a far parte dell’individuo. La richiesta, facendosi più esigente sulla base di una domanda crescente di educazione, provoca un fervore per provvedere e, al contempo, il sospetto che molte educazioni nascondano la mancanza di educazione.
Come dire che, col riprodursi all’infinito della sua tecnicalità, nell’educare viene meno quel che qualifica il rapporto paidetico così da privilegiare le abilità nell’educare e nell’apprendere.
In breve l’educare rientra nelle leggi e nei commerci del moderno che non si ammette o dismette volendolo. A ogni svolta della storia, a ogni cambio nei paradigmi della conoscenza, gli orizzonti si ampliano e i nostri occhi vedono in modo diversificato quel che il nostro cuore, grondante di sentimenti, teme si stia frantumando. Così il compito dell’e-ducere si direbbe sia proprio quello di condurre alla luce, di chiarire dissipando le tenebre. Ma nel loro procedere, le nostre conoscenze e la scienza stessa non fanno luce più di quanto non aumentino il buio. Non è forse vero che ogni nuova conoscenza chiama a raccolta, dai lidi più lontani, cose sconosciute e, spesso, insospettate? Ogni fiammella di conoscenza getta un’ombra nella quale s’intravedono i lineamenti d’interi continenti sconosciuti e da visitare.
È condivisibile la preoccupazione di Ceruti per una scuola – aggiungo un’università, ma anche un’editoria, scolastica e universitaria – che attendono alla semplificazione nel mentre si consegnano al fascino del multiplex e trascurano la ricerca della relazione con l’unitas per offrire una varietà con la quale si apre la rincorsa a una competizione senza regole mentre a tutti sottrae la complessità.
La «costruzione di una “civiltà” della Terra» reclama una nuova paideia che dovrà tenere insieme il valore formativo dell’agire educativo con l’uso delle conoscenze nel loro portato storico. L’agire educativo non è confinabile in un’istituzione educativa e neppure nell’insieme del sistema educativo che raccoglie tutte le istituzioni con esplicite finalità educative. La nostra epoca lo testimonia: avendo alle spalle il secolo che, più d’ogni altro, ha conosciuto il progresso e scolarizzato persone, ci ha immesso nella catastrofe che viviamo, esterrefatti e assuefatti, nel sapere come si consuma più mondo di quanto ne sappiamo rigenerare.
Non serve dunque mettere mano a un di più di scuola e di insegnanti.
È la delega educativa che va ripensata e con essa il patto tra delegante e delegato che preveda un agire educativo orientato a promuovere il valore formativo del gesto, della parola, del sentimento. Non può esistere, nell’agire educativo, divaricazione tra un insegnamento formativo “liceale” depositato in alcune discipline e un insegnamento “tecnico” o “professionalizzante” votato alla ripetitività meccanica e senza la conoscenza della logica che presiede a quanto si impara.
A un secolo di distanza dalla riforma Gentile non abbiamo saputo rispondere alla soddisfazione con la quale Mussolini la salutava come la più fascista delle leggi. Non abbiamo ridotto la divaricazione tra liceo formativo e istituti professionalizzanti perché, all’opposto, abbiamo proceduto nel divaricare la funzione del dialogo paidetico dalla necessaria istruzione tecnica. Questo si è potuto fare anche attraverso una parvenza di licealizzazione degli istituti tecnici. In realtà, la tecnicalità è progredita in ogni ambito a scapito del dialogo paidetico. A un secolo di distanza da Gentile e a quarant’anni di distanza dalla complessità di Ceruti e Bocchi, l’edulcorazione della complessità, nella scuola e nell’Università, balza agli occhi nel bignaminismo dilagante dell’editoria scolastica. Una nuova paideia non può che impegnarsi a comporre la formazione di Socrate e l’istruzione di Isocrate.
Immagine di copertina: biblioteca pubblica di Stoccarda, foto di Gabriel Sollmann su Unsplash
L’articolo Esterrefatti e assuefatti proviene da ytali..