Enrico Berlinguer. La grande ambizione, 2024, di Andrea Segre
Un po’ come Kurosawa faceva in alcuni suoi film, conviene innanzitutto disporre tutti gli elementi del quadro che andiamo a commentare. Il film di Segre è frutto di uno studio, lo ha chiarito più volte l’autore stesso, ciò è evidente dalla scelta dell’unità di analisi, che ha permesso di operare uno studio approfondito sul quale il montaggio cinematografico ha compiuto, come necessario, una selezione drastica. Se hai una unità di analisi dominabile puoi fare un film che cerca di raccontare quel periodo con una chiarezza sufficiente anche per coloro che non l’hanno vissuto. A tal proposito vorrei suggerire a Segre di pensare a uno sviluppo del materiale girato e dello studio fatto che possa anche prefigurare una serie di episodi.
Tornando al film, vi è l’analisi di un periodo preciso della storia politica italiana che inquadra il grande balzo in avanti compiuto a metà degli anni Settanta dal PCI e che si conclude con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro e la sconfitta del disegno politico del compromesso storico. Non viene scelto quindi il periodo successivo, quello della proposta dell’alternativa democratica che si chiuderà con la morte di Berlinguer a Padova. Si tratta pertanto di un film che si concentra sulla fase di maggiore successo nazionale e internazionale della proposta politica berlingueriana e lo fa intrecciando una analisi sia del contesto internazionale, sia di quello nazionale, restituendo, grazie al lavoro di approfondimento supportato dalla famiglia di Berlinguer, i figli in primo luogo, anche la dimensione privata del politico sassarese. L’operazione dal punto di vista filmico utilizza inoltre materiale audiovisivo degli archivi, facendo seguire alle immagini in movimento della messa in scena anche quelle della presa diretta storica, con un fluire che rende le une legate alle altre, senza alcun effetto di spaesamento ma semmai di coerenza nel racconto e del racconto. Un film da questo punto di vista riuscito, misurato, composto, al punto giusto didascalico.
A tal proposito, rispetto alla dimensione pedagogica, vi è la capacità di riprodurre, seguendolo, ma senza caricarlo enfaticamente e retoricamente, un aspetto centrale e caratteristico del linguaggio berlingueriano, il suo essere educativo, appunto “didascalico”. Berlinguer cercava di spiegare e dispiegare un orizzonte di senso, era, la sua azione, in un orizzonte di senso. Da questo punto di vista, per così dire, Segre ha portato lo spettatore a immergersi in medias res – sia in senso emozionale che intellettuale (per quello che si può usando il medium cinematografico) – nella cultura politica del PCI di matrice togliattiana nel suo sviluppo berlingueriano.
Alcuni esempi dello sviluppo si notano, uno in particolare mi ha colpito, non a caso messo in bocca sia a Berlinguer che a Tatò (si veda Caro Berlinguer. Note e appunti riservati di Antonio Tatò a Enrico Berlinguer 1969-1984, Einaudi), ossia l’idea dell’Italia che con la politica del PCI è in grado di condizionare sia il blocco sovietico sia quello europeo occidentale, per democratizzare il primo e avvicinare al socialismo il secondo. Si racchiude in questo punto – storicamente da valutare nella sua “smisurata” grande ambizione – lo slancio politico del PCI e del suo più amato segretario. Una politica che provava a fare la storia. Questa politica, come ogni grande politica, si è scontrata con limiti oggettivi e soggettivi, con imprevisti, e le dinamiche differenziate della machiavelliana “qualità dei tempi”: nel film ciò viene reso con efficacia, ad esempio è chiaro il duro confronto con il mondo del socialismo reale, a partire dal tentativo di attentato in Bulgaria o dai coraggiosi pronunciamenti al Cremlino che ribadiscono non solo la via nazionale al socialismo ma soprattutto la proposta della democrazia e del pluralismo come interni a una prospettiva di realizzazione del socialismo, come è altrettanto significativo – nella stesso pensiero berlingueriano – il peso del colpo di Stato di Pinochet e l’assassinio di Allende.
Non solo la politica internazionale pone i suoi condizionamenti ma anche quella nazionale: è evidente la difficoltà di portare in avanti il disegno del compromesso storico in Italia, con le resistenze della DC, con lo scontro eversivo che divampa in quegli anni, in un contesto di crisi economica – che Berlinguer legge come conferma di una crisi del capitalismo, non avvertendo gli sviluppi degli anni successivi, sebbene intuendo, se si può dire, i problemi che comunque sarebbero sorti in prospettiva storica. Vi è anche un passaggio rispetto al contrapporsi di due linee economiche diverse, con l’evidenza di un PCI che subisce il conservatorismo politico-economico democristiano e le resistenze del mondo della grande impresa (paradigmatica un pezzo di archivio con una intervista negli USA dell’avvocato Agnelli). Il film in maniera equilibrata alterna i momenti più significativi di quegli anni politici con la vita ordinaria di un segretario che da un lato si misura con il gruppo dirigente del PCI – parte non approfondita ma probabilmente troppo complessa per esserlo fatto in un film (peraltro nella messa in scena non tutta l’articolazione del gruppo dirigente del PCI è presente) – e dall’altro ha un costante rapporto con la militanza, con le sezioni nelle fabbriche, i luoghi della classe operaia che in primis il PCI vuole rappresentare, e con le masse organizzate dal partito. Si mostra lo sforzo, la fatica e l’impegno personale che si intrecciano con un movimento storico e una partecipazione collettiva. Molte volte lungo il film si dissemina questa cultura del noi, socialista, che intende esplorare rapporti nuovi e approdare a nuovi orizzonti, con una critica evidente ad una cultura individualistica, sebbene nella proposta comunista si enfatizzi l’orizzonte dello sviluppo delle libertà, tranne quella di sfruttare il lavoro altrui. Non vogliamo certo entrare in questioni più teoriche ma è del tutto evidente che le contraddizioni, le differenze tra le aspirazioni, le aspettative e poi la ricchezza non dominabile della realtà, come i limiti soggettivi e oggettivi di essa, non possono che pesare sulle Grandi ambizioni, necessariamente collettive e rivolte al bene comune – per richiamare la citazione gramsciana con cui inizia il film dandone una chiave di lettura complessiva. Ebbene in questo orizzonte emerge la figura dell’uomo Enrico Berlinguer che, come sottolineò Mario Melloni, riuscì ad essere un politico. Si deve certamente segnalare la grande interpretazione di Elio Germano, attore in grado di dare continuità e credibilità all’azione attoriale nel suo processo di resa del personaggio, grazie ad una ricerca e resa del linguaggio non verbale, paraverbale, e anche verbale del segretario comunista. Certo nel film non vi è grande spazio per l’analisi critica, vi è una allusione agli argomenti della strategia berlingueraiana, al suo metodo, non si cerca invece l’occasione per un attraversamento critico di quella vicenda. Prevale nettamente l’urgenza di raccontare una parte della storia italiana che a giudizio del regista non ha avuto grande spazio nel racconto civile di questi ultimi anni, come se funzionasse una macchina dell’oblio, e quindi la necessità di fare una operazione di reminiscenza storica, e anche di celebrazione di un modo di far politica, un modo collettivo, in grado di appassionare e mobilitare le persone. C’è ad esempio un Berlinguer attivo e protagonista, non enigmatico e passivo, come ad esempio lo restituisce l’ultimo film sul caso Moro di Marco Bellocchio. Se questo è l’intento del regista, almeno ad essere aderenti all’intervento sul palco dell’Edera, vi anche da riconoscere che grande parte in questa operazione di reminiscenza non è solo opera di questo film, che utilizza chiaramente l’occasione dei quaranta anni dalla morte del segretario del PCI, ma anche di altre iniziative audiovisive o editoriali. Alcune di esse in particolare nascono nel Veneto e da Padova: come non ricordare il libro di Piero Ruzzante, Eppure il vento soffia ancora, o il documentario di Samuele Rossi, Prima della fine ad esempio. Lo stesso film di Segre vede alla sceneggiatura insieme al regista Marco Pettenello – storico sceneggiatore anche di film di Carlo Mazzacurati – un cast di attori con una forte presenza veneta, da Roberto Citran (Moro) a Piero Pierobon (Andreotti) e Andrea Pennacchi (Luciano Barca). Questa considerazione finale sulla dimensione della memoria storica mi permette di chiudere con due considerazioni. La prima: il Berlinguer politico ha la possibilità di testimoniare una politica che, pur assumendo le tecniche e le contraddizioni della politica, mettendo in conto gli errori, allo stesso tempo riesce a trasmettere una serietà, una onestà e una ambizione riconoscibili come esempi positivi; Berlinguer riesce a diventare un modello positivo di politico, di uomo integralmente e totalmente vocato alla Politica, una Politica degna di essere praticata e di rappresentare una azione collettiva. La seconda: questa possibilità offerta, ossia quella di non gettare nel discredito la politica, e di intravvedere che oltre la piccola politica politicante vi è una grande (anche tragica) politica, ci deve permettere una capacità critica della memoria e una serietà nel considerare i limiti di quella vicenda storica, ma anche i messaggi, le prospettive e le domande ancora attuali e valide. Non si tratta tanto di fare una valutazione retrospettiva su singole personalità o leader, ma di comprendere quanto sia necessario riscoprire l’idea che la democrazia non è un dato naturale, ma qualcosa di artificiale, in continua evoluzione, che va costruita da vigili e appassionate organizzazioni collettive che si nutrono dell’impegno e del sacrificio di uomini decisi a spendere la vita per il bene collettivo.
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