Giugno 1937
Una manciata di case incornicia la piazzetta con al centro la fontana. Il pomeriggio è caldo, afoso e un gruppetto di bambine siede sul muretto, all’ombra . C’è anche Anna, cinque anni, minuta, scura di occhi e di capelli, vivace e intraprendente, sempre pronta al gioco, tranne oggi. Il gessetto bianco in mano, guarda le caselle del campanon che ha appena tracciate sul selciato, rimesta nella tasca del grembiule il sassolino ma non sa decidersi. Oggi fa troppo caldo. Si alza, si avvicina alla fontana, unisce le mani a coppa e vi fa scorrere l’acqua. Si disseta, poi passa le mani bagnate sul viso, sugli occhi sul collo. Guarda le sue amichette e con fare spavaldo immerge i piedi nel catino ma il fondo è viscido e nasconde cocci di vetro. Cade e i cocci le tagliano un piede.
Il piede fasciato, la gamba steccata, seduta tutto il giorno a guardare dalla finestra, si annoia.
Per distrarla il padre acquista un apparecchio radiofonico, una Radiobalilla.
Due manopole, una per la sintonia e una per il volume che Anna alza fino a far vibrare i vetri della stanza quando si diffondono le note della Madama Butterfly di Giacomo Puccini. È la sua opera preferita; la protagonista, Cio Cio-san, poco più di una bambina, è la sua eroina, amore e morte s’intrecciano in questa tragedia giapponese. Ma cosa ne sa una bambina dell’amore se non che “parlano d’amore i tuli, tuli, tuli, tulipan “come canta il Trio Lescano.
E poi il Giappone… dove sarà? chiederà a suo fratello di mostrarglielo sul mappamondo come ha fatto con l’Olanda dove i tulipani parlano.
Anna è frastornata; questa scatola parlante, quasi magica, sembra nutrirla quando ha fame di conoscenza, consolarla quando si sente triste, stimolarla quando si annoia, rispondere a domande che in casa non troverebbero risposte. La radio resta sempre accesa a casa di Anna.
Ottobre 2024
Se penso a cosa ancora mi lega ai miei genitori, non ho dubbi nel focalizzarlo in due oggetti, l’orologio a mio padre, la radio a mia madre. Entrambi segnano il tempo e il suo scorrere. In ogni stanza di casa ci sono sempre stati un orologio a muro e una radio. Accesa per non perdere nemmeno una parola di un discorso che non sarebbe poi stato facile ricostruire come non lo sarebbe stato di un suono, di una musica, di una canzone .
Anna ha riempito il suo mondo con la voce della radio e ha riempito anche il mio, scandendo il tempo con la messa in onda dei programmi, dalle campane delle sei a “Ascolta, si fa sera”.
Tutti i giorni. La mattina, in cucina, Franco Moccagatta rispondeva a Chiamate Roma 3131, dopo pranzo, in stireria, Maurizio Costanzo e Dina Luce dialogavano a Buon pomeriggio.
La casa si riempiva di voci piane, acute, stridenti, urlanti, cantanti. La voce è la persona. Di una persona posso dimenticare il viso ma non la voce. Se dimentico la voce, quella persona non esiste.
Attorno a una voce posso costruire un corpo, uno sguardo, ma posso anche lasciarla libera di fluttuare. Una voce non ha età, non ne ha bisogno.
La radio è una voce senza età.
La mia voce alla radio risale alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, in una radio libera, “ma libera veramente”, come dice Eugenio Finardi, della mia città.
Sono entrata nella redazione giornalistica, l’unica donna. Seguivo la cronaca nera, resoconti giornalieri di polizia, carabinieri, ospedali. Poi, in diretta, la lettura del notiziario. Non esisteva una cabina di regia con i tecnici dietro al vetro per cui bisognava essere tecnici di se stessi, saper usare le leve del mixer, aprire e chiudere il microfono, inserire sigle e pubblicità, evitare i fuori onda , far scendere senza graffiarla la puntina sul disco. Essere professionali senza esserlo.
Allo scadere del mio primo mese in radio l’allora caporedattore mi ha regalato un mazzo di fiori e il volume Tra sdegno e passione, una raccolta di saggi di George Orwell è stato il mio compenso.
Altre radio, È nel corso del tempo, hanno diffuso la mia voce, che ha continuato a leggere notiziari, rassegne stampa, ha dialogato con gli ascoltatori. E stata soprattutto la voce della radio.
Una voce alla quale, in tempi lontani, una nonnina voleva porgere un bicchiere di vino, avesse avuto sete. “Bepi, no te ghe niente da bevare ai omani là dentro? xe tanto che i parla, i gavarà sen” rivolta al marito che ascoltava la radio.
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