La statura intellettuale di Amedeo Giacomini eleva la sua intera opera, in versi come in prosa, ben al di sopra dell’appartenenza regionale o nazionale, per farne piuttosto un testimone autorevole di valori universali. Una valenza esemplare assumono, a questo proposito, i testi già editi o ancora inediti, proposti da Agamben nella collana “Ardilut”, vale a dire le liriche di Presumût unviâr, seguite dalle prose L’arte dell’andar per uccelli con vischio e da un mannello di Poesie inedite, curate da Ivan Crico.
Già nella scelta del titolo della silloge Presumût unviâr, Giacomini fa eco, seppur in chiave antifrastica, alla grande tradizione provenzale nel topos delle stagioni da una parte, dall’altra ai lirici di ogni tempo e in particolare al Leopardi dei dialoghi con la luna, per un particolarissimo canzoniere amoroso all’insegna dello sfinimento, della consunzione, del non detto o del non dicibile, sugli accordi di una lira ridotta essa stessa quasi al silenzio. Fin dalle prime battute (Presumût unviâr, pp. 20-21) il sole viene ridotto a uno sbiadito ricordo, rimpiazzato dalla luna e da nuvole avvolte in un sovrano silenzio interrotto soltanto dal monologo dell’io lirico con l’astro (Se domandâti, lune…, p. 22), mentre il poeta si propone, di volta in volta, nei panni di uno zinghero, della lucertola, di una serpe, di un nido d’api, di un gatto dolente, o di un cacciatore di lepri armato di un bue, con palese omaggio alla maniera di Arnaut Daniel (Innovâl, p.41), quando non si paragoni a chiocciole di bosco capaci soltanto di lasciare sulla strada uno scintillio di bave di dolore (‘I stin chi, p. 45).
Al chiarore lunare che s’impone nella prima sezione corrisponde, nella seconda, il biancore dei gabbiani, «bìntars sense speranse» (“disadattati senza speranza”, Cocâj, pp. 59-60), emblemi della solitudine, di disperazione e di una ferocia connessa ad una fame atavica, signori dei mari nei venti di scirocco, come dei cieli del Tagliamento. Resta tuttavia la dominante lunare, palesandosi espressamente come “sbadiglio” in Moment (p. 72), nel mentre si viene precisando in forme più liriche e sorvegliate il tema amoroso: «Essere a casa. Avere una donna / per sempre. Solo quella. / E volerle bene» (Stât, p. 73). Di conseguenza, accreditare di aridità o negatività la scrittura di Giacomini equivale a faintenderne del tutto direzione e senso.
A prezzo di parole. Poesie e prose di Amedeo Giacomini,
prefazione di Giorgio Agamben, con una nota di Matteo Vercesi e una notizia di Ivan Crico.
Disegni di Luigi Zuccheri.
Quodlibet, 2024
Nei dieci raffinati capitoletti delle prose sull’uccellagione di fringuelli, cinciallegre, cardellini, pettirossi ed altri esponenti dell’«alata famiglia», l’autore friulano colma una lacuna che durava dai tempi delle Operette leopardiane, mai più eguagliate per qualità di scrittura o di stile da alcun prosatore, salvo forse per l’opera del poeta istriano Ligio Zanini sull’arte della pesca con la togna (si veda in proposito Ligio Zanini, La Togneta, Ronzani 2024). Siamo infatti al cospetto di una prosa d’arte di livello sopraffino nella quale la mano del poeta e quella del narratore s’intrecciano senza soluzione di continuità sostenendosi a vicenda col confezionare un inno alla natura che ha pochi equivalenti. A farne fede questo esile estratto dall’incipit:
Occorrerà, in primo luogo, conoscere gli uccelli, le loro debolezze, le sfumature del canto, diverse in ogni stagione, le malizie innumeri di cui sono maestri; e saperli prevenir nei sospetti, prenderli per la gola o pel sentimento, sollecitarne gli istinti; esser pronti a sostituirsi ai richiami quando questi non bastino ad evocare, pispando o zirlando, orgasmi d’amore o trame di gioia, freschi mattini di primavera o sere d’autunno…
(Capitolo I, p. 95)
Un’arte “nobile” quella dell’uccellatore, anche qualora questi non possa disporre del falcone di più illustre tradizione, ma guai se vengono a mancare i migliori maestri, quali il “Pitta Vagàn”, e una vocazione quasi ascetica e monastica alla solitudine:
L’appassionato avvertirà nel sangue l’inizio del passo. Una mattina dell’ultimo agosto, svegliatosi di soprassalto, si accosterà alla finestra e sentirà, nel vetro dell’alba, il graffio lungo di una tordina. Gli verrà da sorridere allora, come a un appuntamento, e il sangue comincerà a fluirgli denso e si farà tutto determinazione.
(p. 96)
Alla meticolosa precisione nella terminologia, dei volatili come delle tecniche, il testo affianca le modalità stilistiche della manualistica, più che opportunamente sostenuta da effusioni liriche, col risultato di elevare ogni pagina a qualcosa di diverso e superiore rispetto all’arida trattatistica, materia che Giacomini peraltro padroneggia con sicurezza e a cui attinge all’occorrenza (ad attestarlo l’accuratezza, anche filologica, delle note), senza peraltro rinunciare ad un omaggio in cifra a Villon (Capitolo II, p. 114), controbilanciando la citazione colta con la ripresa in nota, più avanti, di uno stornello popolare sulla cinciallegra (Ùrśule parùsule, Capitolo V, Chiose, p. 140).
La sezione di inedite propone, come si ricava dalla nota critica di Matteo Vercesi, due microraccolte, rispettivamente di 17 e 10 liriche: la prima risalente al biennio 1993/94, la seconda alla fine degli anni Settanta.
In questo canto dell’amarezza e della disillusione, se da una parte ricorre con una certa frequenza il tema della morte, dall’altra non viene meno l’apertura alla natura nelle fattezze di un parco alberato, di una luna ammiccante e, soprattutto, nell’incanto per gli alati onnipresenti (cinciallegre, lucherini, fringuelli, gabbiani, allodole, passeri, merli, poiane, colombi o uccelli dalle ali spezzate), ammantati di una sottile inquietudine e convertiti nel doppio dell’io lirico: «Ubriacarti di uccelli che non vedi, / perdersi, sapendo di farlo, / in un delirio di voci conosciute, / quasi madri al tuo malato canto» (Quel che sta attorno al parco, IV, p. 202).
Immagine di copertina: foto di Luca su Unsplash
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