Ora che ci guardano da lassù, forse capiremo quale privilegio sia stato essere, per un certo periodo, contemporanei di due personalità come Lea Pericoli e Johan Neeskens. Partiamo dalla “Divina” del tennis, così ribattezzata dal solito Gianni Clerici, narratore e simbolo di uno sport per lungo tempo considerato aristocratico e oggi, invece, avvicinatosi alle masse: un po’ per la crisi che ha investito il calcio, almeno nel nostro Paese, e un po’ per lo sbocciare di una generazione di fenomeni che ha in Sinner la punta di diamante ma in tutti gli altri e le altre delle icone da non sottovalutare. Accantonando per una volta il versante maschile, occupiamoci di quello femminile. Basti pensare a Flavia Pennetta, che la mitica Lea considerava la figlia che non aveva mai avuto; per non parlare poi di Sara Errani e Jasmine Paolini, capaci di regalarci un oro olimpico e altre mille soddisfazioni. Lea è stata l’antesignana, la versione col gonnellino di Pietrangeli, quando ancora la racchetta era riservata a pochi e l’attenzione ai grandi tornei internazionali non andava al di là di amatori come il già menzionato Clerici e altri pionieri.
Sfrontata, anticonformista, femminista, sempre in lotta ontro ogni bigottismo, pur essendo profondamente credente, libera in un’epoca in cui ancora non si parlava di emancipazione femminile e fenomenale con i suoi pallonetti, Lea Pericoli ha incantato le platee nazionali e internazionali, conquistando una messe di titoli e vivendo la prima vita da sportiva ai massimi livelli. Poi si è reinventata come giornalista nel campo dello sport e della moda, sconfiggendo ben due tumori, vivendo varie storie d’amore e infine uscendo di scena in punta di piedi, allontanandosi dai riflettori senza rimpianti e senza vivere l’invecchiamento come una sofferenza o una sconfitta. Se n’è andata all’età di ottantanove anni, al termine di un’esistenza meravigliosa, intensa come poche, ricca di incontri, di passioni, di avventure, di sogni e di aneddoti, lasciandoci in eredità il coraggio delle sue lotte e la grandezza delle sue vittorie, che oggi sono alla base di un movimento in salute e pronto a sfornare e valorizzare nuove protagoniste.
Quanto al furetto olandese, centrocampista poliedrico e alfiere del calcio totale predicato dal vate Rinus Michels (scomparso a soli settantatré anni), in Catalogna, sponda blaugrana, lo hanno giustamente ribattezzato “Johan Segundo”, per non confonderlo con l’inarrivabile Cruijff. Eppure, fra i due non c’era alcuna rivalità; anzi, fu proprio il leggendario numero 14, approdato al Barcellona nell’estate del ’73 dopo aver subito una sorta di Idi di marzo nello spogliatoio biancorosso, a volere con sé l’amico l’anno successivo, dopo i Mondiali persi in Germania nel ’74. Entrambi di scuola Aiax, insieme avevano regalato ai Lancieri la stagione più bella della propria storia, conducendoli sul tetto d’Europa e incubando la magia che avrebbe abbagliato il mondo intero in terra tedesca. Chiunque abbia avuto vent’anni nei Settanta, infatti, almeno una volta si è lasciato incantare dalle geometrie perfette dell”Arancia meccanica”, costretta ad arrendersi solo al cospetto della solidità teutonica dei padroni di casa, peraltro sconfitta da un gol su rigore di Paul Breitner, il Beatle maoista che solo il suo debordante talento rendeva sopportabile ai conservatori della ricca Baviera, e da una rete dell’inimitabile Gerd Müller, in una finale nella quale, eccezion fatta per i tedeschi dell’Ovest, tutti gli altri parteggiavano per i diavoli arancioni. Capelloni, figli della Beat Generation, un po’ Ginsberg e un po’ Kerouac, con mogli e fidanzate al seguito, sessantottini nell’animo e negli atteggiamenti, versione calcistica dell’utopia concreta dell’Architettura Totale che innervava la Amsterdam di quel periodo, scanzonati ma al tempo stesso dotati di una classe senza pari, Cruijff e compagni costituivano la versione calcistica dell’utopia di Marcuse. Uomini polidimensionali, alfieri del contrasto al capitalismo, all’alienazione dell’essere umano e alla negazione di ogni felicità, folli e amici, sul campo e nella vita, incapaci di compiere l’ultimo passo verso la gloria e anche per questo immortali, in quanto emblemi di una battaglia impari contro l’ingiustizia: questo e molto altro ancora sono stati i discepoli di un tecnico che riprese e attualizzò le intuizioni della Grande Ungheria di Puskás e Hidegkuti e che, al pari dei magiari, dovette arrendersi a un passo dall’eternità, prima al cospetto dei panzer della Germania opulenta e poi degli scudieri del dittatore Videla, guidati in panchina da un uomo di sinistra come César Luis Menotti che ha terminato i suoi giorni tormentato dal rimorso di non aver speso una parola in favore del suo popolo pur essendo ormai un eroe nazionale. Neeskens, contro la Germania Ovest, aveva segnato il rigore dell’illusione iniziale “oranje” mentre contro l’Argentina si era visto rompere due denti da Passarella, degno rappresentante di quella cupa fase argentina, dovendo accontentarsi di altrettanti secondi posti. Fatto sta che adesso nessuno ricorda le squadre vincitrici ma quei miti sconfitti, chiamati presto in Cielo da capitan Cruijff per tornare a giocare un calcio che, forse, sulla Terra non sappiamo più apprezzare.
Lea rivoluzionò il panorama tennistico vestendosi come voleva, Johan abbattendo le frontiere e dimostrando a chiunque che i ruoli predefiniti non hanno alcun senso. Si saranno abbracciati lassù, lasciandoci almeno la certezza che per una volta, per fortuna, sia impossibile tornare indietro.
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