Era il 30 ottobre 1974 quando Muhammad Ali scriveva l’ultima, memorabile pagina della storia della boxe. Ultima perché, dopo quell’episodio, anche il pugilato si sarebbe definitivamente trasformato in un business, uniformandosi agli standard tecnocratici che purtroppo affliggono l’intera società. Ma quella notte no, quella notte rimarrà per sempre nella storia dell’Africa e dello sport. A Kinshasa, infatti, sotto lo sguardo di un dittatore sanguinario come Mobutu, dominus dello Zaire (l’attuale Repubblica Democratica del Congo) e simbolo della degenerazione autoritaria che aveva fatto seguito al meritorio processo di emancipazione del continente nero, Muhammad Ali, a trentadue anni suonati, si era recato a sfidare non solo Foreman ma innanzitutto se stesso.
Tutto gli era contro: i favori del pronostico, la logica, le condizioni fisiche, la forza dirompente di un avversario più giovane di sette anni e reduce da quaranta vittorie consecutive, di cui trentasette per KO; insomma, erano in pochi a scommettere ancora su di lui. Eppure, proprio come dieci anni prima contro Sonny Liston, Ali aveva compreso lo spirito del tempo. Quello di Kinshasa, difatti, non era un semplice incontro di pugilato ma un momento mistico. C’era l’anima dell’Africa profonda che reclamava il suo eroe, c’era il campione che si era rifiutato di andare a combattere in Vietnam, pronunciando la memorabile frase: “Nessun vietcong mi ha mai chiamato negro”, c’era lo spirito di Malcom X che aleggiava sopra il ring, c’era il connubio fra l’America contestatrice e pacifista e il desiderio di rivincita del Sud del mondo, degli oppressi, degli ultimi e degli sfruttati; in pratica, c’era il popolo globale che aveva eletto Ali a idolo ed era pronto a seguirlo come una sorta di Messia laico. “Ali, bomaye!” (Ali, uccidilo!) era, non a caso, il motto scandito dai presenti, in un momento cruciale per la vicenda africana, tanto che Mobutu, esercitando fino in fondo il potere di cui disponeva, aveva trasformato l’evento in una kermesse segnata dall’orgoglio afro, chiamando a raccolta il mondo della musica, a cominciare da Miriam Makeba, e facendone un trionfo identitario, utile innanzitutto per rafforzare la propria immagine.
Poi Ali salì sul ring e la “rumble in the jungle”, la rissa in otto riprese nel cuore della giungla, ebbe inizio. Fu uno spettacolo ma, al tempo stesso, un qualcosa di drammatico, una sofferenza senza fine, uno strazio per il corpo e per l’anima. Ali vinse, ma il successivo morbo di Parkinson, con ogni probabilità, deriva anche dai colpi che subì sia da Foreman che nei tre incontri contro Frazier, in quell’arena per gladiatori contemporanei verso cui aveva rivolto lo sguardo chiunque sentisse dentro di sé l’ingiustizia per il titolo dei massimi che gli era stato ingiustamente strappato per motivi politici.
Era terminata la presidenza Johnson, si era conclusa nella vergogna quella di Nixon e pochi mesi dopo l’esercito americano si sarebbe dovuto ritirare dal Vietnam prendendo atto della disfatta: morale, militare e sul piano della credibilità.
Muhammad Ali aveva riconquistato il suo trono e poteva levare le braccia al cielo, rivolgendo un pensiero a Malcom X, a Martin Luther King e a tutti coloro che si erano battuti per rendere concreta l’affermazione dei diritti dei neri. La sua vita quella sera era segnata per sempre, il suo destino pure, ma finalmente era un uomo libero. Libero di gridare, di entrare nella leggenda e di far compiere all’umanità un passo avanti.
Cinquant’anni fa: l’ultima volta che siamo stati un popolo prima di trasformarci in un pubblico, l’ultima volta che lo sport ha avuto una dimensione epica, l’ultima, grande avventura di un mito che in quell’occasione non sconfisse tanto Foreman quanto chi, penalizzandolo, aveva provato a stroncare coloro per cui si batteva e per fortuna aveva perso per sempre. C’è stato un prima e un dopo, nonostante la regressione nella quale siamo precipitatI.
L’articolo L‘ultima pagina della vera boxe proviene da ytali..