Da sabato 12 è in corso la mostra Behind the Curtain, presso la Galleria Flavio Stocco di Castelfranco Veneto. Durerà fino al 4 novembre, vigilia delle presidenziali americane, scelta delle date non casuale. Abbiamo chiesto al curatore della mostra, Ernesto Francalanci, di poter pubblicare la sua presentazione.
Dopo quanto e in più occasioni Settis e Montanari, oltre ad altre autorevoli voci, hanno scritto sull’impegno di Olivi nei riguardi di punti critici del sistema, il triste destino di Venezia, l’ultima cena della Biennale, la tragica condizione politica italiana, il suicidio morale dell’artista, il carnevale del mondo, la necessità di disertare dall’odio, una riflessione ulteriore può accompagnare la “polemica artistica” lanciata da Olivi contro l’America (quella America), contro il Capitalismo, contro il Potere. Una polemica, nel senso letterale della parola, una battaglia di idee e di opere che rispondono a una richiesta odierna di verità.
All’artista, cui per secoli la società ha affidato il compito di creare mondi di totale invenzione, oggi domandiamo soprattutto di aiutarci a comprendere ciò che nessun altro racconto risolve. All’artista di oggi chiediamo di aiutarci a capire la “realtà” e di riaprire la dolorosa possibilità della comprensione. È quello stesso desiderio di verità che attraversò, per esempio, l’espressionismo berlinese degli anni Venti, anni il cui clima ritroviamo oggi nel nostro tempo di miseria spirituale.
Alcune opere di Olivi, nella loro acidità pop, echeggiano quel grido che Grosz, Heartfield o Fritz Lang avevano criticamente lanciato. Guerra e capitalismo sono i gemelli che dobbiamo sconfiggere: impresa impossibile, aveva risposto Freud a Marx che, nel 1932, sollecitato dalla Società delle Nazioni, lo interrogava sulla questione bellica: Thanatos sempre vince su eros.
Echeggiano stupendi e vani i versi dell’Internazionale di Franco Fortini:
Noi siamo gli ultimi del mondo. / Ma questo mondo non ci avrà.
Il processo di occultamento dell’attenzione e del dissenso ha oscurato le strade animate sulle quali i compagni cantavano. Siamo oggi nel silenzio. Siamo non nella catastrofe, siamo dopo la catastrofe.
La responsabilità dell’America è documentata. Da questo avamposto militare degli USA che è l’Italia, che costituzionalmente deve ripudiare la guerra, ma che è stretta da un contratto mortale, noi, come Olivi, vogliamo sottrarci richiamando le alate parole di Archiloco: il mio scudo l’ho abbandonato dietro un cespuglio, altri se ne impadroniranno. Il nostro segno rosso del coraggio è volontà di pace e non di armi. E Disertiamo (2024) è opera-parola, parola costruita con i ritagli della comunicazione retorica che ha riempito pagine di irresponsabile giornalismo.
Come si può, dopo Gaza, dopo l’ultimo genocidio, desiderare ancora di suonare il violino o dipingere un volto? Questo tuttavia, il destino dell’artista, di dover continuare a cantare lanciando suoni d’allarme, di pietas e di attenzione. Perché il messaggio che proviene dalla “zona di interesse” al di qua del muro di Auschwitz insegna che, più efficace di ogni parola di Hannah Arendt, il male ha il nostro stesso volto. C’è una nostra corresponsabilità su tutto ciò che sta accadendo nel mondo.
Essere contro l’America è per Olivi essere contro quella America che continua a sconvolgere il mondo in guerre internazionali, nella follia perenne di una esportazione di democrazia, e non è certo quella che ha prodotto e produce arte, cultura e scienza, come dimostra la dolorosa ironia di un’opera come To America with Love, 2020, le cui stelle sono i volti che ne hanno promosso l’immagine.
To America with Love, è anche il titolo della mostra che riuniva molte delle opere di cui stiamo parlando, ed è un lancinante grido di amore e di odio. Lo stesso che elevavano al cielo i grandi fustigatori della American Way of Life, da Borroughs a Thimothy Leary, fino a Paul Auster o al cannibale Easton Ellis.
Le opere di Olivi non rispondono ai criteri di un giudizio estetico se non di riflesso: ciò che esse vogliono comunicare e condividere è un giudizio etico. Storico. Politico. Le “operette morali” di Olivi, di illuministica tradizione, percorrono un sentiero critico che attraversa il territorio ammalato dell’Occidente: dalla crisi politica e culturale dell’Europa alla responsabilità mondiale degli USA e, più in alto, al cielo stesso del Potere, dell’invisibile ma pervasivo potere del capitalismo.
Di questo potere parlano tutte le opere di Olivi, un potere che, parafrasando Agamben, si rivela sempre più incapace di governare l’emergenza che esso stesso ha prodotto: la catastrofe climatica, le guerre, la fine dell’umanità, percepita, come dice Blanchot, “un semplice fatto di cui non c’è più nulla da dire” e che “non merita nemmeno attenzione”. La nostra abitudine alle armi, scrive Montanari in un testo per Olivi, è così radicata che non ne vediamo più lo scandalo.
Di questo potere che capitalizza i corpi e le anime Olivi ne fa testimonianza con opere dedicate alla moneta universale, quel dollaro che, nella sua rappresentazione materiale, contiene i segreti più sconvolgenti della lontana missione che parole fatali codificano: The Great Seal (Il grande suggello), Annuit Coeptis (La divinità ha acconsentito), Novus ordo seclorum (Il nuovo ordine dei tempi).
Ma nel cuore della moneta il suo etimo: monere, avvertire. Questo cuore è un buco nero, Black Hole (2023): attrattore fatale e gorgo di un naufragio universale, in cui sono affondate tutte le categorie valoriali della modernità. In Gold we Trust (2020) Olivi recita la preghiera oscena del dio denaro, un dollaro per metà miniato dall’oro e per metà da lettere di sangue.
Ci sono dei volti precisi all’apice della gerarchia del potere. They rule, essi comandano. Uno di questi volti è quello di Trump. Nell’immaginario di Olivi Trump, come Paperon dei Paperoni, ha negli occhi il segno del dollaro (Self portrait, 2020). A differenza del simbolo divertente di Disney questo dollaro appartiene al mondo feroce che non è più quello di un capitalismo regolato dal New Deal ma da quello deregolamentato del neoliberismo degli anni Novanta e poi dall’illiberalismo dei movimenti della supremazia bianca durante la presidenza di Donald Trump.
Gli occhi di Trump, ma potrebbero essere anche quelli di chiunque altro al governo dell’Impero, rivelano un’anima feroce, cui rispondere solo con la coscienza della ribellione. Dies Irae: ogni giorno, come ricorda Agamben, deve essere il giorno della nostra ira: il giorno della krisis, della separazione del giusto dall’ingiusto. È il giorno evocato da Olivi nell’opera Scent of War (2023): tutte le bandiere fanno cornice al cuore del Potere, ove si accumula il Capitale, il meccanismo che produce differenza, contrasto e morte.
La bandiera americana è a pezzi (Flagquake, 2020): l’America fa i conti con la sua storia controversa e con il suo presente attraversato da una irreversibile crisi di identità strutturale, essendo ormai incapace di mantenere la sua egemonia mondiale. La bandiera americana, cui abbiamo guardato con ingenua felicità quando sventolava sui campus della contestazione e davanti ai grandi musei dell’arte, e le cui stelle sono state ricoperte da Olivi di volti che hanno fatto la storia della nazione, sventola ormai su un mondo in macerie.
Un’opera è definitivamente politica: Missing (2023) documenta la sparizione dell’Europa dalla carta geopolitica del mondo, la nuova mappa che testimonia l’estensione del “grande gioco” che impera dividendo, opprimendo paesi, genti, culture. Alzando barriere, scavando fossati, estendendo deserti tra i corpi e le anime. La fine dell’umanità, che nel tempo delle avanguardie, testimoniato da Benjamin, significava l’inabissamento della coscienza, diventa oggi, in più, anche la possibile fine stessa dell’uomo. Se sollevi la cortina della piccola installazione Behind the Curtain (2024) il fungo dell’atomica è circondato dalle stelle dell’Unione Europea: nel mondo della catastrofe brillano beffarde sulla divisa del militare. Siamo circondati da infiniti velari, tendaggi, sipari, che dobbiamo squarciare per vedere oltre. Vedere oltre la morte diventata spettacolo.
La cornice di Missing è un garrulo sventolio di bandiere che si muovono al vento dei cori nazionali, ignare della loro condanna che firmarono i saggi di Ventotene: mai più bandiere, mai più nazioni. Solo paesi. Solo popolazioni. Solo uomini.
L’articolo Quell’America che non si fa amare proviene da ytali..