Poesia e civiltà, discutiamone.
Tirato per i versi dentro le pagine che Gabrio ha dedicato alla rima tra “poesia” e “civiltà” (sì, sì, con questo suo libro questa rima s’ha da fare e s’è fatta); invitato a dire la mia intorno alla personale relazione con la poesia, ecco quanto mi viene da comunicare al gentile lettore di questa rubrica generosamente messa a disposizione da Ytali grazie alla complice mediazione del medesimo Gabrio.
Premessa: ogni qualvolta mi trovo a dover dire qualcosa intorno a tale relazione, lì per lì non so cosa dire né da dove cominciare né dove andrò a parare, il che significa che decenni di letture, confronti, conoscenze, autoanalisi, riscontri non sono in grado di riempire con convinte risposte le diverse domande sul perché percosa percome di quella relazione. E significa, pure, che in tutti noi c’è sempre qualcosa di misterioso che recalcitra ad essere trattato con le categorie dialogico-razionali, giacché le sistematizzazioni teoriche lasciano sempre il tempo che trovano e bisogna decidersi a bypassarle per avvistare qualcosa che sappia somigliare a un senso, soprattutto quando si tratta di quell’attività, chiamiamola pure poesia, generalmente esercitata con il radar e il sonar dell’intelligenza intuitiva. Peraltro, se è vero come è vero che la nostra parte conscia non è mai a conoscenza di ciò che (ci) agisce a livello inconscio, possiamo concordare con quanti, dovendo attraversare la produzione di un autore, non prendono mai alla lettera i suoi autocommenti, così come fa lo psicanalista nel leggere le manifestazioni superficiali espresse dall’analizzante.
Approfitto allora di questa circostanza per appuntare senza eccessivo sforzo argomentativo qualche annotazione sul senso di quello che da sempre ho vissuto come una sorta di ‘sorte’, una di quelle chiamate vocazionali cui non ci si può sottrarre, a costo di dover viaggiare contromano, pur di seguire la “voce” … della poesia. Come mai e da dove sia venuta quella voce, onestamente, non saprei dirlo con certezza; forse andrebbe utilizzata anche la teoria delle costellazioni familiari, anche se, tutto sommato e tutto sottratto, non credo sia importante saperlo. Posso però dire che qua e là mi è parso di avvertire come se in quella voce fosse incistato un popolo di voci, un mondo di vite antenate che reclamavano la parola attraverso la mia parola, quasi che io dovessi soltanto ascoltare e trascrivere sotto dettatura, senza voler con questo voler offrire un tributo alle teorie della scrittura cosiddetta automatica di ascendenza bretoniana.
E così, a partire dal mio diciottesimo anno di vita, mese più mese meno, è accaduto che io non abbia mai smesso di corteggiare la musa, come si fa con una donna che ti abbia preso completamente, nonostante diversi e pesanti ostacoli si frapponessero tra il mio amore e la sua fantasmatica presenza.
Quali ostacoli? Tanto per cominciare, a botta di quattro scritti in blu in calce ai temi, l’insegnante liceale di Lettere mi convince che l’Italiano non faccia per me, visto che l’imprinting linguistico proveniente dalle mie origini contadine non si lascia facilmente addomesticare dalla ditta Manzoni & Co., inducendomi ad accettare senza colpo ferire la sua sentenza docimologica… e a farmi conseguentemente scrivere i temi dal compagno di banco. Inoltre, la mia precoce pubblicazione giovanile, frutto di un onorevole piazzamento in uno dei mille concorsi per esordienti, induce mio padre, reduce da una vendemmia, a chiedermi nella sua lingua addominale a ‘cosa’ possa mai servire la poesia, ma non so proprio cosa rispondergli. Infine, i professori universitari incontrati nel tempo in cui la poesia viene ideologicamente screditata come “forma minore di conoscenza” insistono perché la smetta di frequentarne la sterile compagnia per scegliere la via della critica letteraria, ambito nel quale, a dispetto del mio precorso abbonamento al quattro, mi sono fatto onore grazie a una tesi di laurea costruita in totale autonomia! Però! Chi me lo avrebbe mai detto!
Ma lei, chiamiamola pure poesia, non solo non arretra ma rilancia pure, continuando ad esigere, come prove d’amore, due tre testi al giorno, mentre di notte devo frequentemente accendere il lumetto per appuntare le sue continue apparizioni sotto forma di lampi e giochi verbali, metafore, intuizioni, sinestesie… soprattutto sinestesie, che mi insegnano a fare a meno degli schemi percettivi con cui cerchiamo di imbrigliare la realtà per spremerne almeno un grammo di verità che però sguscia continuamente dalle mani e dalla mente. Se lo avesse saputo Jacques Lacan, avrebbe tratto ulteriore conferma alla sua teoria psicologocentrica. Deduco comunque che è proprio vero: il mondo fu creato attraverso la parola manifestata prima da un Dio e subito dopo da un uomo desideroso di copiarne il mestiere, nel bene e nel male.
E così, giorno dopo giorno notte dopo notte, vengo attraversato dal desiderio e dalla speranza di poterla incontrare e guardare negli occhi, magari dentro uno di quei libri che si vanno accumulando nella mia stanzetta sotto la sigla di importanti case editrici all’epoca ben disposte verso la poesia (Mondadori, Einaudi, Garzanti, Bompiani, Feltrinelli, Compton).
Ma dove mai se la farà, e dove trovarla? Nelle viscere di Lorca o dentro la distilleria sillabica di Ungaretti? E il geniale ragazzaccio di Charleville perché l’ha abbandonata per strada così presto, dopo averla incontrata a tuppertu e dopo averla trattata in modo tale che, dopo di lui, lei non sia stata più la stessa? Hanno avuto forse paura uno dell’altra? E a Mallarmé cosa gli avrò fatto mai io, se i suoi rebus non vogliono farsi digerire dalle mie meningi? Forse a volte la poesia cerca di non essere capita per non essere fatta prigioniera (captiva)? Sì, ci sarebbe pure Quasimodo. Mah: indubbiamente sa suonare molto bene il suo oboe, però indossa una maschera che non mi convince, e poi è pure massone, così come lo sono stati Carducci, Baudelaire, Valery, Pascoli e tanti altri (questa cosa, chissà perché, non bisogna dirla in giro, tanto meno nelle storie letterarie e nelle antologie: top secret). Montale – per carità – certo che sa il fatto suo, così come sa i fatti della letteratura, ma mi si mette sullo stomaco con quel suo algido e ricercato scetticismo che mal si concilia con la mia pulsione ludico-ironica. E poi credo che, come lui dice, Gozzano ha attraversato D’Annunzio così come D’Annunzio ha attraversato Montale, o giù di lì. A proposito di Gozzano, sulla cui poesia svolgo la mia tesi di laurea, lo apprezzo per la sua notevole dose di autoironia che gli consente non solo di sorridere in faccia alla sua giovane morte ma anche di fare il gioco del letterato cha fa la parte dell’antiletterato: un salto mortale con avvitamento che gli riesce benissimo e mi intriga non poco (fa un po’ al caso mio!).
La Beat generation mi smuove i neuroni, certo, ma mi pare troppo out per la mia psicologia timida, fragile e tutto sommato “paesana”. Pasolini poi è troppo ideologico e muscolare, sempre “anti” qualcosa. Hikmet, invece, mi pare meritare un’attenzione speciale perché dimostra che l’amore per una donna e l’amore per un’idea siano fatti della stessa sostanza, e lo fa a sue spese morendo di crepacuore, il che mi induce a ipotizzare che possa essere proprio il cuore l’organo deputato all’esercizio della poesia. Incontro pure Edgar Lee Masters sulla via del cimitero paesano, che torno a visitare per guardare il mondo dalla parte delle radici (per dirla con Davide Laiolo o “dal basso verso l’alto” per dirla con parole mie, quelle parole che a un certo punto ho usato per etichettare la mia poetica) e mettermi in ascolto delle voci che mi legano mani e piedi alla terra e al sotto-terra. Probabilmente la mia magna mater è color marrone e usa le radici come funi e, grazie al vento, come ali.
E poi bisogna leggere i russi, i latino-americani, gli arabi, i cinesi, dentro una selva di nomi, scuole, “linee” e ismi novecenteschi in cui è facile smarrirsi. Eppure, bisogna non arrendersi e non fermarsi alla prima bottega ma perseverare nella ricerca, sfogliare la margherita finché non decido di assegnare il primo posto alla generation del ’27, quella guidata dal primo amore che non si scorda mai, il Federico zingaro mancato. In primis, quei poeti spagnoli sanno di appartenere ad un’ideale koiné, ma sanno pure come dare corpo all’anima e anima al corpo; risvegliano quel sentimento del barocco con il quale, a sud, si è cercato di riempire l’horror vacui imposto dalla storia e dalla geografia. In fin dei conti, la loro scelta di mischiare le carte della letteratura con la rimossa creatività popolare mi calza a pennello. E poi, attraverso la loro porta, si può accedre anche al continete latino-americano da dove giungono voci potenti e piene di pathos.
Lo choc della neoavanguardia fa bene alla salute della chiamiamola pure poesia e ha un potere attrattivo sui giovani para-sessantottini che, per dismettere i panni ormai aggrinziti della tradizione, si ribellano contro una repubblica delle belle lettere che ha puntato tutto sulla cifra lirico-petrachesca dimenticando la genitorialità “sperimentale” di Dante; però non mi convince affatto quando i suoi portavoce, all’insegna del Gruppo ’63, proclamano che basti cambiare il vocabolario e la sintassi per cambiare il mondo, scambiando il mezzo con il fine.
A un certo punto, però, caro Lino, passati i trent’anni, bisogna pur cominciare a tirare le somme, onde scegliere consapevolmente la strada da percorrere.
Vediamo, allora, di usare la potatrice e il setaccio, come sanno fare mio padre e mia madre.
Ad una prima valutazione complessiva dell’albero da sfoltire, mi pare che molti dei poeti visitati, indipendentemente dall’ismo di appartenenza, scrivano quasi sempre in nome e per conto di un Io piuttosto ingombrante. E spesso, a tal fine, scelgono il ruolo di vittime della condizione storica e/o esistenziale, prediligendo la pars destruens o il risentimento reattivo; vivono, registrano e trascrivono la crisi senza andare oltre. Troppa voluptas dolendi per i miei gusti: d’accordo, la vita non è mica una gita, ma oltre all’opposizione, al contrasto, all’avversione ci sarà una mezza possibilità di costruire un altro mondo o, meglio, un mondo “altro”. Se c’è, e non può non esserci allorquando si utilizza il concime della creatività, allora cerchiamola, viviamola, pratichiamola, diffondiamola.
Anche l’afflitto lamento emesso dai versi di molti poeti meridionali mi pare essere diventato un topos inerte da mobilitare e dinamizzare.
Senza dire dell’eredità novecentesca chiamata “frammentismo” che porta sulla coscienza la proliferazione di praticanti poesia, che scambiano quest’arte per un’opportunità psicodiaristica, quando avremmo bisogno di visioni olistiche anzi che di frammentazioni. Non a caso scarseggiano le proposte e le architetture poematiche.
Inoltre, mi accorgo che tra la scrittura e la biografia assai spesso si apre una distanza enorme e ciò che si scrive non combacia con l’umanità che si vive. Mi chiedo dunque: non è che la poesia finisce per fare da cerotto, truccare le carte, mascherare e compensare frustrazioni personali?
E il cosiddetto impegno consiste paripari col cosiddetto engagement o può significare qualcosa di “altro” (aggettivo/sostantivo che comincia a martellarmi nella testa in cerca di qualche “uscita d’insicurezza”)?
Senza dire che la poesia scritta dagli insegnanti difficilmente lascia sentire le voci della scuola; quella scritta dai medici difficilmente lascia trasparire il tanfo di corsia ospedaliera; quella scritta dagli impiegati difficilmente fa ascoltare il rumore dei timbri e dei faldoni, e così via. Non è che, a furia di sublimare, la poesia finisca per fare da stanza di sterilizzazione nei confronti della vita vissuta?
Inoltre, uno sguardo ravvicinato a certe vite parallele mi evidenzia una certa differenza tra la poesia scritta in ambiente cittadino e quella scritta in ambiente paesano. Guarda un po’ Scotellaro: finché è vissuto a Tricarico, ha usato il “noi” comunitario; appena poi ha messo il piede nell’orbita urbana partenopea, ha conosciuto la solitudine e s’è convertito pure lui alla prima persona singolare.
Finalmente, grazie al mio mentore Leonardo Mancino, scopro un Bodini che collima non poco con il mio primo amore ispanico e con il mio sentire, grazie al surreale sdoganamento della dimensione provinciale con annessa temperatura epico-corale, il che mi convince del tutto che dentro ogni Io ci sia e ci debba essere un Noi, e viceversa, e che i due pronomi possano diventare concentrici anziché essere alternativi o tra loro sfasati. Oh! Stai a vedere che poesia possa rimare con antropologia!
Quante domande in cerca di risposte. Calma, Lino, una alla volta proveremo a soddisfarle con delle scelte di campo difficili ma possibili, in compagnia dei primi critici e dei primi lettori che mi aiutano ad addrizzare la rotta con i loro interlocutori referti e generosi riscontri. Il senso e il significato di una scrittura, difatti, non risiedono mai del tutto nel polo emittente né in quello ricevente, ma sono il risultato di un irripetibile e mobile incontro tra i due poli.
Allora, visto che «la vita è l’arte dell’incontro» (Vinicius de Moraes), perché non guardarsi attorno ed incontrare compagni di strada con cui confrontarsi e magari condividere questioni rovelli ansie? Lo so bene che, oltre la mia scrivania, c’è un mondo inquieto ed effervescente che si agita, cerca spazi espressivi e desidera mischiare le carte di una tradizione piuttosto stanca e autoriproduttiva. Apro quindi le finestre, cum grano salis, in sintonia con la mia innata riservatezza sempre ben disposta verso l’entusiasmo del fare comune, ma sempre (me lo si lasci dire) con un occhio alla qualità e al rigore.
Beh! Comunque sia, oggi posso dichiararlo a chiare lettere: la mia generazione ha lavorato sodo per cercare di superare il dèja dit e per ridurre le distanze sia endogene che esogene. Per la prima volta penne messapiche, peucete e daune oltrepassano alacremente i confini subregionali e avviano scambi nella direzione della costruzione di una comunità letteraria, così come tentano di oltrepassare faticosamente il fatidico confine geoculturale del Garigliano per attivare contatti con i centri di produzione nazionale e internazionale. Basti pensare all’insonne officina import-export dell’amico e sodale Antonio Verri per farsi un’idea di questo clima! E tutto ciò costituisce un merito che va riconosciuto alla generazione in cui si iscrive la mia vicenda; un merito che si è proficuamente sviluppato anche attraverso la produzione di riviste e azioni collettive.
Insomma, oggi possiamo affermare a testa alta che, proprio grazie alla mia generazione, la Puglia ha smesso di essere, dal punto di vista letterario, una provincia dell’Impero, per dirigersi verso confronti paritetici e dignitosi con “il resto del mondo”. Chi me lo avrebbe detto, quando prendevo a scrivere versi, che dopo appena una decina d’anni mi sarei imbattuto e avrei relazionato con due poeti esuli cileni, con i quali poter disegnare un sud planetario, all’insegna della mia mai sopita consonanza surrealista (quando si dice tout se tient)? E chi me lo avrebbe detto che, in sintonia con qualche sodale, mi sarei spinto a teorizzare attraverso un “manifesto” una posizione “post-rurale” con cui contrastare la fuga in avanti del cosiddetto “post-moderno” e rivendicare la lucida assunzione di responsabilità culturale? Già: ancora una volta è l’insiemità a fare la differenza rispetto al luogo comune del poeta asociale e possibilmente depresso!
Certo è che, un poco per volta, tutte queste esperienze mi offrono la possibilità di identificarmi consapevolmente nella cultura delle origini senza escludere aperture e scambi plurali, all’insegna dell’avverbio “in oltre” che dà il titolo a una rivista in cui è confluito un progetto culturale e perché no politico, rivolto a dare la parola al margine e alla periferia, a cominciare da quelle nostrane per abbracciare idealmente ogni sud del mondo e ogni realtà minoritaria o emergente. E come trascurare, nell’ambito di tale orizzonte progettuale, le mille risorse della lingua dialettale? Viaggiare tra le parlate locali e le parole creative dei nativi americani o dei Tuareg… che avventura è resa possibile da una rivista!
Quel progetto si è poi riversato, con i dovuti aggiustamenti e aggiornamenti, nell’esperienza della rivista «incroci», ancora oggi attiva, grazie all’inesauribile spinta procurata dal concetto di alterità sopra richiamato, che a me personalmente ha permesso di transitare dal provincialismo alla provincialità, dal meridionalismo alla meridianità.
Ma un progetto culturale, nella fattispecie letterario, non può svilupparsi degnamente se non postula la necessità di una parentela tra estetica ed etica. Solo così i conti possono tornare; solo così è possibile sentire, come capita a me, di aver speso bene i talenti ricevuti, indipendentemente dal “valore” specifico delle proprie pagine. Solo così posso sentire di meritare l’inclusione della mia poesia nell’ambito di un libro come quello che ci ha donato Gabrio Vitali dall’alto di quello che va considerato come il frutto di un vero magistero.
Tra l’altro, è grazie a quest’ottica che si può ridurre il rischio di arenarsi nelle secche autoreferenziali per incrociare l’alterità come infinita occasione di interesse e di inter-essere; un’ottica che mi consente ancora oggi di sentirmi “impegnato” in un lavoro che ritengo “importante” e “necessario”.
Importante per il tentativo di allontanarsi da un Novecento imbrigliato nelle sabbie mobili delle sue ricorrenti crisi autoimmuni; necessario per liberarsi ulteriormente dalle scorie di un Ego che rischia ad ogni verso di naufragare nello specchio suicidiario di Narciso; importante e necessario per poter oggi guardare consapevolmente ad un percorso, il mio, che mi piace scandire sinteticamente nelle seguenti tre fasi.
Una prima, tesa a risolvere in qualche modo il conflitto culturale tra “la parola” e l’“ulivo”, cultura popolare e cultura letteraria, grazie all’acquisizione di una visione antropologica della vita e della letteratura, in sintonia con le sacrosante rivendicazioni di un sud trascurato e mortificato.
Una seconda, spesa per guadagnare un punto di vista eco-sofico, capace di mettere in discussione e possibilmente superare i limiti della patologia antropocentrica, la stessa patologia egoica da cui scaturiscono conflitti destinati a colorarsi di belligeranza e sangue fraterno.
Una terza, quella attuale, rivolta a fare della poesia una pratica vocata all’evoluzione coscienziale, un’occasione speciale per il libero esercizio dello ghnoti seautòn, una disciplina che aspira a fare della scrittura e della vita due forme del verbo scrivivere.
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