Esce dopo poco più di un anno dall’improvvisa scomparsa, con la prefazione di Giancarlo Sissa, Sull’altra riva (Poesie 2017-2020), la raccolta che Stefano Colletti aveva preparato per la pubblicazione e che, grazie all’interessamento del fratello Paolo, ha trovato in puntoacapo l’editore che ci permette di leggere e commentare quest’ultima profondissima opera poetica. La morte l’ha rubato un anno fa dopo una brevissima malattia, tanto che ancora oggi tutti coloro che l’hanno conosciuto e apprezzato stentano a credere che non ci sia più a dispensare la sua vitalità, nelle tante imprese in cui era immerso. Da molti anni Stefano Colletti insegnava Storia e Filosofia al Liceo Classico Virgilio di Mantova, stimato dai colleghi e amatissimo dalle tante generazioni di studenti che hanno frequentato le sue lezioni. Oltre a questo, che era un lavoro ma anche una passione, profondeva le sue energie in molteplici attività: era un valente musicista, voce e chitarra del gruppo di folk americano e tanto altro, “Trets”; era un podista che partecipava anche a gare per amatori, era stato un alpino, durante il militare, e coltivava questa sua appartenenza mantenendo i contatti con le associazioni e soprattutto conservando dentro sé lo spirito etico del corpo degli alpini, che ha riversato nella vita e nella scrittura. Infine, ultima ma non ultima per importanza, aveva coltivato fin da giovanissimo il sacro fuoco della parola che lo ha portato verso la poesia.
Dopo un assiduo confronto con gli amici, primi lettori, e un meditato apprendistato, nel 2009, a quarantanove anni, è uscita la sua prima raccolta dal titolo L’erbario di marmo, a cui hanno fatto seguito Land Art nel 2014 e Kintsugi (Poesie 2011-2016) nel 2020. Come si è accennato sopra, aveva predisposto, completa per la stampa, un’ultima raccolta dal titolo Sull’altra riva, che purtroppo non ha potuto vedere pubblicata. È una silloge poetica che raccoglie tanti temi trattati nelle precedenti opere, e che raggiunge una maturità stilistica e una pregnanza contenutistica davvero notevoli, senz’altro la sua opera migliore, il giusto coronamento per il congedo dai suoi lettori e amici, anche se totalmente inatteso e non preventivato. Scrive Giancarlo Sissa nella prefazione, “la lunga e meditata gestazione del discorso poetico, il vaglio scrupoloso dei testi, la severa organizzazione cronologica dei materiali, la cura tecnica limpidissima e la raffinata consapevolezza dell’importanza di ogni verso (prova ne sia che tutti i versi, anche quelli in enjambement, iniziano con la lettera maiuscola, secondo la lezione, ad esempio, di Giovanni Giudici) sono infatti alcune delle caratteristiche della scrittura di Colletti, la cui opera è, anche per questo, certamente riconducibile a un inquadramento non distante dalla cosiddetta ‘linea lombarda’”.
La silloge si apre con una poesia che ricorda la sua prima raccolta L’erbario di marmo, una metafora per testimoniare alcuni pellegrinaggi fatti nei campi di battaglia della prima guerra mondiale, al confine tra Francia e Belgio, la vista degli immensi cimiteri di guerra, con i cippi allineati, ognuno una giovane vita spezzata, il catalogo di una generazione che ha sentito il dovere di ricordare. Verso la fine, un’altra poesia ritorna su questa esperienza, che evidentemente lo ha segnato e che ha portato dentro sé per tutta la vita:
11-11-1918
(…)
Quando c’è la luna piena d’inverno
Sui campi delle Fiandre,
Sulle croci bianche,
Una fila dopo l’altra,
L’erba trattiene il respiro.
Tutto è dimenticato, le lepri balzano
Da lapide a lapide,
Spariscono chissà dove.
L’undici di novembre ricorda
Che le castagne, il vino nuovo, l’infanzia
Il sonno che viene presto, i piatti
Messi ad asciugare, il trifoglio
Fradicio, le erbe amare bollite,
Sono il dolore che ci rincuora quando
Una foto antica ci mostra boschi
Arsi e campi sbranati dove ora
Si gioca a pallone
Il sabato pomeriggio,
E alberi alti fanno ombra e silenzio.
Sono le riflessioni sulla propria esistenza che occupano una parte rilevante dei testi, riflessioni scavate così in profondità da assumere rilevanze universali; non è più la persona fisica del poeta, ma è l’uomo che lotta ogni giorno con la desolazione che percepisce intorno, con lo scorrere del tempo che lascia dietro sé solo buio, con una sensazione di mancanza per qualcosa che non sa definire, ma che vive come essenziale. Sono poesie amare, disilluse, che trovano il loro riscatto proprio nel fatto di essere portate sulla carta. Per quanto siano dolorosi quei pensieri, possono divenire versi, immagini sghembe, metafore ardite, parole che incantano. È l’arte del Kintsugi, titolo della sua terza raccolta, la tecnica giapponese di riparare gli oggetti in ceramica con sottili strisce d’oro. Allo stesso modo, Stefano si ripromette di cucire le ferite che la vita gli ha inferto, con le parole della poesia.
(Poesie 2017-2020)
di Stefano Colletti
prefazione di Giancarlo Sissa
puntoacapo editore
Prezzo: euro 15
Le occasioni da cui sorgono i pensieri che mette in poesia sono le più diverse, ma tutte hanno il sigillo dell’autenticità, nulla è costruito, artefatto, solo ciò che è vero, vissuto, attraversato, passa il vaglio del suo ineludibile setaccio etico. Possono essere le riflessioni che si affacciano nel dormiveglia, poco prima dell’alba, oppure in piena notte, nei risvegli provocati dall’insonnia di cui soffre; possono essere gli incontri casuali nelle vie di Mantova, la sua città, come pure quelli avvenuti nei tanti viaggi che ha intrapreso; possono essere quelli suscitati dai ricordi che sempre più negli ultimi tempi gli si paravano davanti all’improvviso, avvolti dal sogno ma pungenti come il freddo degli inverni dell’infanzia, quel freddo che è sempre stato la cifra stilistica di Stefano, perché è l’inverno la stagione preferita dove ama ambientare i suoi piccoli racconti in versi.
In questa raccolta spiccano per intensità le due poesie dedicate alla madre (16-12-2016) e al padre (Pa’). Dopo la loro scomparsa, riannoda il dialogo allentato con i genitori, allentato per le ovvie ragioni di distacco dal nucleo familiare originario. Anche in questa circostanza, dove pure la commozione pare sul punto di erompere, prevale il suo stile misurato, in cui sgorga l’amore ma non il sentimentalismo, in cui le parole cercano il nodo nascosto da poter sciogliere, per arrivare a un nucleo pacificato, dove non ci sono schermi dietro cui nascondersi e si annullano le barriere generazionali. Un’altra suggestione che si rincorre in diversi testi è quella della casa, considerata una sorta di trincea (Mattina dopo mattina, / Scavalco il filo spinato del mio letto), un baluardo a difesa della marea che ci si attende dall’esterno, carica di meraviglie e di insidie; ma anche vista come un tempio, un luogo intimo e uterino, dove nulla accade di reale e tutto però, giorno dopo giorno, contribuisce a far depositare i momenti di vita nella coscienza di un uomo che esplora il proprio io.
Nella mia casa
Nella mia casa c’è un silenzio
Denso come l’istante
Dopo un colpo di vento.
Qui è sempre una domenica
D’inverno.
Qui non sono stato bambino
Né ragazzo, né giovane marito, tutto
Si è consumato altrove.
Eppure c’è dell’altro,
Baci e tagli, e lunghe solitudini
Dolenti, ognuna col suo fiore.
E tutto forma un cielo tra me
E il soffitto, nuvole viola e azzurre
Che nessun temporale
Porta mai via.
(…)
Infine, non può mancare in una poesia così intrisa di vita, il tema dell’amore, con le sue delusioni, i suoi rimpianti, i suoi distacchi dolorosi. Ma l’amore può anche portare una gioia che non ha confini e che tutto sommerge, e improvvisamente scompaiono le immagini grigie, i giorni si colorano di attese e il temporale, in cui dice di abitare, non fa più così paura. Un amore nuovo in questa raccolta ci dona una manciata di poesie luminose, sempre attente e consapevoli, formano un’oasi di conciliazione con la realtà, che non cessa però di assediare la casa del poeta.
La gioia
(…)
La gioia dei miei occhi
Nei tuoi scardina le porte
Nel mio cuore, le fa volare via
Come gabbiani nella bufera.
La morte è venuta a cercarmi
E mi ha lasciato una pigna
Di ghiaccio e un bicchiere.
Le tue mani e le mie ora
Hanno le stesse dita
E le stesse unghie,
E se la ridono del ghiaccio
E del bicchiere.
Immagine di copertina: foto di Riho Kitagawa su Unsplash
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