In questi giorni Hollywood sta assistendo all’ultimo dei numerosi casi di flop al botteghino che ogni stagione investono l’industria. Quello che differenzia Joker: folie à deux dagli altri è l’imprevedibilità (molto prevedibile come imprevedibilità, ma lasciamo stare) con cui la sua caduta ha travolto i cinema. Il film era un successo annunciato, ma, già dalle anteprime veneziane, è parso chiaro come la sicurezza nell’arte non esista. Perchè? Beh perchè, per ora, l’arte è un’opera umana e gli esseri umani che, specie quando lavorano in contatto tra loro, spesso possono sbagliare.
A ogni insuccesso si cerca sempre di trovare una ragione. Proprio oggi escono delle indiscrezioni riguardo al clima che ha circondato la produzione. Pare che il regista, Todd Phillips, e l’attore protagonista, Joaquin Phoenix, non avessero alcuna intenzione di realizzare il sequel (come se ci fosse bisogno di un’indiscrezione da tabloid per saperlo, bastava riguardarsi o farsi tornare alla mente la conferenza stampa della Mostra del cinema del 2019), ma che si siano lasciati convincere la venti milioni di dollari, a testa, buttati sul tavolo e dalla prospettiva di salvare il progetto, che la Warner era convinta a portare a termine, da mani d’altri. Complice il cambio di direzione della casa di produzione, acquista da Discovery, la situazione è andata peggiorando. Pare che Phillips abbia chiesto di realizzare, come sequel, un musical per Broadway, al rifiuto, ha chiesto controllo completo, ancora un rifiuto, poi la possibilità di spostare il set a LA, un’altra volta proposta a cui i produttori hanno chiesto di rifiutare, al che il regista sembra aver risposto con “allora rinunciate al film”. Ma sappiamo come le case non ragionino mai con la testa ma solo col portafogli. Non interessa a nessuno, specie ad un’azienda della portata di Discovery, la qualità dei prodotti, basta vendere. Pare chiaro, quindi, che Folie à Deux abbia avuto una gestazione del tutto opposta a quella del primo. Se Joker era stato un progetto personale, realizzato con un budget ridotto, fatto con il cuore, questo secondo capitolo è l’esatto opposto. Un’imposizione dall’alto, un alto fatto, apparentemente, da incompetenti (era palese fin da subito che il film del 2019 non avrebbe mai potuto avere un sequel dall’altrettanto successo e se il produttore più potente del mondo non lo capisce allora vuol dire che non sa fare il suo lavoro), capace però di convincere a cambiare idea anche gli ultimi due puristi, artisti tutti d’un pezzo di Hollywood, come Phillips, ma soprattutto come Phoenix. Un attore capace di lasciare la sua stessa produzione a cinque giorni dall’inizio delle riprese perché non contento del trattamento, più “tutto d’un pezzo” di così è dura.
All’uscita della notizia Joker, nel lontano 2017/18 il mondo ha rizzato immediatamente le orecchie. La curiosità è aumentata alla notizia del coinvolgimento di Phoenix, e ancor di più alla scoperta che in sceneggiatura e dietro la presa ci sarebbe stato Todd Phillips. Nel 2018 la maggior parte delle persone aveva dimenticato questo nome, ma andando a fare un breve ripasso, riordinando i ricordi, ci siamo presto allegramente ricordati di Una notte da leoni. La grande commedia demenziale del 2009, uscita ben otto anni dopo Zoolander di Ben Stiller e tre dopo Borat di Sacha Baron Coen, ultimi enormi successi planetari del genere. Cosa ci fa un regista di commedie dal sapore farsesco alle prese con un dramma, cinecomic, probabilmente alquanto politico e dark? Apparentemente sembra un azzardo, o una crisi di mezza età, ma andando bene a cercare nella filmografia e con il senno di poi, ci rendiamo conto che quel regista di Long Island ha già fatto tanto per il cinema.
A oggi pare chiaro come proprio la trilogia di Una notte da leoni (2009-2013) sia stata l’ultima esponente di un genere che ha dato tutto tra la fine degli anni ottanta e tutti i novanta. Sto parlando, appunto, della commedia nella sua forma più volutamente ignorante, stupida, o per citare la sua più grande stella Jim Carrey, “scema”. Può piacere o meno ma gli stessi Carrey e Stiller, affiancati da Mike Myers e Steve Martin, fino ad andare a scomodare i pionieri degli anni settanta, come i fondatori del Saturday night live (sul quale è in uscita un ottimo film) John Belushi e Dan Aykroyd, oppure gli inglesi Monty Python, sono state alcune delle personalità più rivoluzionare del cinema d’intrattenimento. La loro capacità modernizzare lo slapstick (soppiantato poi dalle screwball, più politiche, subdole e taglienti) e renderlo appetibile a un pubblico post Sessantotto, prima, e post edonismo degli anni ottanta, poi, è più che ammirevole e andrebbe studiata in ogni università di cinema. Dopo lo shock visivo dell’undici settembre e la crisi finanziaria del 2008 alle porte, sembra, però, che il mondo abbia perso la volontà e la capacità della risata infantile. Quella costruita sul politicamente scorretto, su cadute (Chaplin) o nomi assurdi (Brooks), su sbronze colossali (Phillips appunto) o situazioni improbabili (Landis), per lasciare spazio al dominio del dramma. Anche la commedia romantica, erede dell’altro grande genere comedy del cinema classico, la già citata screwball, che tanto aveva avuto successo negli anni novanta, subisce un forte freno.
Nella trilogia di Una notte da leoni sentiamo una sorta di consapevolezza che il tramonto di un’era, che così tanto ha segnato la settima arte, è più vicino che mai. Quattro amici si dirigono a Las Vegas per un addio al celibato, si svegliano la mattina senza ricordi di ciò che è avvenuto la notte precedente e, soprattutto, lo sposo è sparito nel nulla. I quattro sono Doug, lo sposo stesso vittima in tutti i tre film; Stu, il medico/dentista che si ritrova sempre deturpato in qualche modo; Phil, il bello e il pilastro sano (più o meno) della compagnia; e Alan, che il nuovo Charlot o Belushi o Powers, insomma l’ingenuo. Ai protagonisti si aggiunge Mr. Chao, il cattivo, spietato, subdolo e perverso “cinese” che mette i ragazzi sempre nei guai. Così si apre la trilogia. Con un film spensierato che, però, già nasconde semi drammatici. Dopo quattro anni, e un sequel, arriviamo all’ultimo capitolo e alla consapevolezza che quella è, ormai, rimasta l’ultima storia, l’ultimo esempio, l’ultimo esponente del genere.
Phillips allora fa il miglior film possibile, una conclusione non solo per i suoi protagonisti, ma per il genere stesso, nato con il cinema e che oggi si vede giunto al capolinea, forse per sempre. Per la prima volta Alan, che incarna la commedia, la maschera, viene messo a nudo. Non è solo stupido o tonto, ma viene dato un motivo medico al suo comportamento. Alan/Arlecchino/Charlot è malato, è affetto da un qualche tipo di malattia mentale che lo rende il giullare perfetto. Non si era mai visto nulla del genere prima, non così quantomeno, forse a preannunciare l’arrivo di una nuova sensibilità mondiale, che ci porti ad essere più attenti anche alla salute interiore. Questo senza però dimenticare il classico finale da favola dove anche Arlecchino, alla fine, si sposa e diventa adulto. Riuscendo anche a restituire un’anima al cattivo dei cattivi, e lo fa grazie al suo buon cuore, al suo spirito da bambino. A questo punto, chi non piange davanti al monologo finale di Alan, mente. Vestito da sposo, pronto a “dare le dimissioni” dal suo mestiere di giullare (non a caso proprio gli intrattenitori di corte più amati erano affetti da nanismo, quindi ancora una volta far ridere attraverso la propria condizione fisica), ma non in modo così definitivo (“mi piacerebbe comunque vedervi il martedì e a sabati alterni”) da non lasciare una piccola speranza. Mente perchè quella non è solo la fine di una storia cui siamo affezionati, ma di tutti i vari Arlecchino del cinema. Abbiamo preso la capacità di ridere e Phillips lo sa.
Lo sa talmente bene che il motivo ricorrente di Joker, riportato su tutti i poster è proprio quel “put on a happy face” che sembra racchiudere tutta la società contemporanea. In cui il freak è proprio ci ride, chi non riesce a smettere di ridere, chi soffre e prova dolore da quella risata. Arthur è l’Alan degli anni venti, dove la sua malattia non è più fonte di ilarità ma di tragicità. Tuttavia riesce ancora ad essere un simbolo (e da qui parte l’incipit, sulla carta geniale, del secondo film), un idolo per le masse. La forza di Joker è stata quella, un po’ come face V per vedetta da un lato e Don’t look up dall’altro, di riuscire ad uscire dalla sua dimensione di storia filmica e diventare reale. Se dopo il film di McTeigue (scritto dalle Wachowski) i protestanti nelle piazze di tutto il mondo indossavano la maschera di Guy Fawkes, nel 2019 indossavano quella del pagliaccio dai capelli verdi. In più, come l’opera di Mckay, è riuscito a prevedere il futuro più di quanto pensasse e lo vediamo in questi giorni, ma ci arriviamo.
L’altra, grande rivoluzione di Joker è stata quella di vincere il Leone d’oro. Fino a quel momento col termine cinecomic si sono sempre intesi i blockbuster Marvel (con qualche eccezione come Watchmen di Snyder e poi con The boys di Eric Kripke, ma si parla di fumetti indipendenti). Grandi slot machine che permettono all’industria di fare sempre jackpot. Il primo tentativo di rompere quella struttura è Logan, crepuscolare chiusura (oggi già riaperta) della saga X-men. Girato come un film d’autore, assistiamo ad una sorta d western alla John Ford, in cui il professor Xavier è in preda alla demenza e Wolverine un vecchio e cadente soldato che fa i conti con le sue ferite, fisiche e interiori. Con Logan il mondo si è reso conto che l’equivalenza cinecomic = blockbuster non è l’unica possibile. Il termine “cinecomic” indica semplicemente un film la cui storia o personaggi sono tratti dal medium fumetto, ma non dà nessuna indicazione sul genere o approccio che quel film deve avere.
La notizia che Joker sarebbe sbarcato a Venezia girava già da parecchi mesi, montando un desiderio e sete raro per quanto abbracciato in modo totale da tutto il pubblico. Successivamente sono state rivelate alcune indiscrezioni sul viaggio del film dalla Warner al Concorso veneziano, che alludono a fortunati errori di battitura nelle mail di Barbera, a pressioni fatte a Phillips sui produttori. Insomma una vera e propria sit com che non ha fatto altro che aumentare “l’hype” verso quel famoso trentuno agosto in cui il film è stato proiettato per la prima volta ad un pubblico pagante.
Nonostante l’immenso successo la presenza di un’autrice come Lucretia Martel alla presidenza di giuria, faceva sembrare quel Leone d’oro un qualcosa di insperato. Per fortuna non è stato così. Da quel momento in poi il sodalizio festival/grandi produzioni, sarebbe cambiato per sempre, fino ad arrivare alla situazione odierna che vede proprio nella Mostra del cinema casa di tutti i più grossi progetti in uscita delle major.
Ma torniamo a oggi, com’è possibile che il seguito di un film che aveva guadagnato un miliardo di dollari al botteghino, non arrivi neppure lontanamente a rientrare dei soldi spesi? Un po’ lo abbiamo già detto. Il motivo principale è sempre la sete cieca di denaro dei produttori, che gasati da un grande successo, sono incapaci (oggi particolarmente apparentemente) di prendere decisioni ragionevoli e ragionate. Joker aveva una storia autoconclusiva che, come alludeva il regista in conferenza stampa alla Mostra, non può far parte delle logiche usualmente applicate agli altri film di supereroi, di fatto chiudendo la porta ad un possibile sequel. Sì perchè, oltre alla Warner, il primo desideroso di un “capitolo due” era proprio il pubblico. All’uscita dell’ufficialità, Folie à deux portò ad una reazione di totale assenso e gioia. Praticamente nessuno lo vedeva con occhio negativo. Prova che anche il pubblico era, ed è, completamente immerso nelle logiche di funzionamento Disney, che si basano su meno novità e più riproposizione infinita di saghe di successo. Non ci vuole molto per capire che, non solo questo sia un approccio kamikaze a lungo andare, ma che non può essere applicato ad ogni film.
La cosa interessante di Folie à deux, è quanto la situazione che lo vede protagonista sembra in realtà portare acqua al suo stesso mulino, provando che quanto vediamo sullo schermo è più reale che mai. Quando Variety dice che i fan si stanno trasformando nei cattivi del film, cioè la massa prima adorante e poi odiante, è vero. Quando crolla un mito, questo passa dall’essere idolatrato all’essere demonizzato, respinto con una violenza brutale.
Questo dimostra che l’idea di base poteva davvero portare ad un qualcosa di memorabile. È probabile che con un altro titolo (insomma se non fosse il seguito che è) la catastrofe che stiamo riportando sarebbe stata molto più ridotta. Sembra che l’odio sia riposto verso l’esistere del film, più che all’opera in sé. Comprensibile e corretto, però, forse, il ruolo dei critici è anche essere oggettivi.
Il tentativo di parlare del divismo, delle sue logiche contorte e impetuose, non è del tutto non riuscito. Certo, ha tanti difetti, su tutti la mancanza di spessore del personaggio della Gaga, che avrebbe dovuto incarnare tutti i followers poi haters del mondo. Altro grosso problema è l’inserimento dell’elemento musical, che sembra buttato là senza un’apparente motivazione. Phillips l’ha giustificato con la volontà di creare un qualcosa di altrettanto “pericoloso” produttivamente, com’era il primo, con la differenza che qui la sua scelta oltre che azzardata sembra decisamente realizzata in maniera povera e distratta. Questo è ciò che capita quando realizzi un’opera d’arte per soldi, ma la decisione di vendersi a quei ventimilioni sul tavolo è stata sua, quindi anche la responsabilità dell’esistenza del film è completamente sua. Forse la delusione del pubblico deriva proprio anche da questo, un autore, insieme a Phoenix, che ha costruito una carriera andando anche contro le major, alla fine è diventato uno qualunque, il Daniel Craig ricoperto d’oro che torna a fare 007 di turno.
Resta il fatto che il film, in questi giorni, sta mettendo a nudo cos’è diventato l’audience. Una massa, repressa e profondamente arrabbiata che ha bisogno costantemente di un capro espiatorio su cui riversarsi contro. La frustrazione di un mondo sempre più invivibile, che per essere sopportato ha bisogno di creare distrazioni. Una di queste può essere la nascita di una nuova religione/ossessione verso le celebrities che siano una famiglia miliardaria di LA o un omicida con il volto dipinto. Non cambia, chi sia, ma quando questo si toglie la maschera, ammette di non essere il personaggio che tutti noi crediamo, allora la fede si trasforma in odio, in fiamme. Ma una volta l’iniziale fervore si spegne, andiamo subito a cercare un nuovo idolo, un nuovo dio, pronto a diventare il nuovo centro del nostro tempo libero. E così, torniamo, come prima, a dipingerci sul viso quel sorriso, di sangue o di rossetto, che non riusciamo più a trovare guardando a ciò che ci circonda. Ancora, quindi, la perdita della leggerezza porta noi a diventare i veri villain della storia, non l’Arlecchino senza più il suo ruolo, caduto nella follia e privato della possibilità di esprimere la sua gioia (che si palesa sottoforma di una risata incontrollabile).
Quello che la storia di Todd Phillips e il caso Joker: folie à deux ci insegnano è che ormai Hollywood è più che mai un’industria. Forse sull’orlo di una nuova crisi, facendo tornare, ancora, il tema della “morte del cinema”, già sentito mille volte dal 1895 ad oggi. Ma, forse, questa potrebbe essere la situazione più grave mai vissuta dal cinema proprio perchè il pubblico è cambiato. Non sa più gioire delle piccole cose, non sa più meravigliarsi del treno che sfonda lo schermo, è assuefatto di tristezza e rabbia, diventando una sorta di zombie sottoposto a stimoli continui che si appiattiscono uno sull’altro. Come può un’arte basata sul fantastico trovare il suo spazio in un mondo così?
L’articolo Todd Phillips: non sappiamo più ridere proviene da ytali..