Di Venezia e appartenenza
Mi pare fin troppo scontato affermare che la morte di Vincenzo Eulisse segna la scomparsa di un pezzo di Venezia. E non è per dare il profilo ad un ulteriore motivo nostalgico, ma per ricordare con l’Artista che si allontana, la particolare importanza dell’arte e degli artisti a Venezia, il loro grande ruolo nella formazione dell’immaginario collettivo carico di simbologie salutari per la coesione sociale, per l’humus di una filiera, nello stesso tempo, generativa e di incontro cui convergono i rappresentanti illustri delle scienze, delle arti, dello spettacolo e i protagonisti delle attività che chiamerei di manutenzione e mantenimento, dal pescivendolo al fruttivendolo, dall’osteria al laboratorio artigianale, per costituire insieme, una virtuosa cultura ambientale e l’orgoglio dell’appartenenza. Di questa dimensione in cui la quotidianità è retaggio storico, ambiguità lagunare e contiguità complementare, dove l’accadere si srotola nelle ciacole senza allontanarsi dell’evento, in cui l’ombra di vino è modulare all’ironia mordace, – ma non supponente – in una città dove ci si incontra – sempre meno, purtroppo – nella salutare passeggiata o nel percorso a tappe verso la biblioteca, il lavoro, la galleria d’arte, il teatro, l’osteria, il mercato, Vincenzo Eulisse è stato protagonista e riferimento.
Non a caso, l’artista annoverava tra i momenti particolarmente significativi della sua vita, il tempo de “Il Traghetto”, la galleria creata da Gianni De Marco, “un uomo che era arrivato dalla guerra”, diceva il Cencio, che “della guerra non parlò mai”. Il Traghetto era laboratorio di idee, luogo di incontro, centro d’arte e uno di quei tanti pezzi di Venezia che non c’è più. Era il posto “dove ci trovavamo tutti”, diceva Cencio, laddove i tutti erano Alberto Gianquinto, Lollo De Luigi, Carmelo Zotti, Riccardo Licata, Amedeo Renzini, Vittorio Basaglia, Carlo Tessarolo o Gino Scarpa, fra i tanti. Ed era l’ancora di salvezza dove le tasche vuote degli artisti trovavano la generosità di De Marco sempre disposto a pagare le bollette o ad accogliere con un “dai Eulisse, andiamo a mangiare fuori”, che, spesso, era con De Chirico o Carrà o Campigli o Sutherland che, in visita Venezia, facevano sentire gli artisti veneziani in un comprensorio più ampio di quello della città, nel mondo grande dell’arte che dava forza e sicurezza.
Tra la Magna Grecia, la mitologia e Urbino
Figlio di un padre della Magna Grecia pugliese e di una madre croata, luoghi traboccanti di miti e di metafore, l’artista veneziano ha riferimenti intrisi di motivi che riportano alla complessità immaginifica del mondo slavo e alle gesta degli eroi omerici di cui sono eco strumenti vari fra cui spade, elmi, cavalli e il cumulo volutamente caotico degli elementi che danno il senso di una battaglia in corso; all’incombenza di una società industriale con ciminiere, macchine e riferimenti alla fredda azione della tecnologia che tende ad assoggettare, spesso a crocifiggere, come sembrano dire le innumerevoli immagini che evocano simbolicamente la croce. La sua è una dimensione di frontiera, luogo delle inquietudini, per eccellenza, dove si impongono le scelte per non confondersi con il tratto inconsistente del confine, dove è necessaria la spavalderia, l’ardimento, qualità che a Cencio non mancavano.
Eravamo un gruppo di artisti che avrebbe voluto fare la Guerra Civile spagnola e poi la Resistenza italiana e dovemmo confrontarci con una realtà che lo negava,
diceva il pittore.
Con il tempo, l’artista ebbe modo di affermare che aveva anche “fatto cose stupide e ignobili”, come credere che Stalin fosse un grande, “mentre era soltanto un delinquente”. Sullo sfondo della militanza comunista, di opere di grande spessore artistico, di provocazioni e di pregnanza civile, rumoreggia il corpo metallico della moto russa e rossa Dniepr con sidecar “sulla quale mi sembrava di volare”, forse sentendosi un impavido cavaliere sui cavalli della memoria infantile e della battaglia contro le ingiustizie del mondo. Eulisse fu assistente di Emilio Vedova presso la Sommer Kunstakademie di Salisburgo e con lui maturò consapevolezze e sicurezze, senza però perdere l’umore e neppure la sfacciataggine testimoniate dalle sue molte provocazioni. Come quella consumata ai danni dell’artista veneziano, nella XXX Biennale d’Arte di Venezia del 1960 che assegnò a Emilio Vedova il prestigioso Gran Premio per la Pittura. L’occasione sembrò molto ghiotta per il Cencio che, detto fatto, partorì un volantino in cui l’artista premiato dichiarava di rifiutare il premio. Ad ulteriore conferma della spregiudicatezza, per un verso goliardica, per altro impudente, Eulisse diceva ai giornalisti increduli che la questione si sarebbe risolta in famiglia, visto che di Vedova lui era figlio.
Dal 1978 e per venticinque anni Eulisse è professore di “Tecnica della visione” presso l’Accademia di Belle Arti di Urbino.
“Cencio” in tre immagini tratte da FB (Pietrangelo Pettenò)
Venezia, mon amour
Tra i segni che contraddistinguono il pittore, mi piace ricordare la sua popolarità. Massimo, il panettiere cui ho comunicato la morte avvenuta nella notte del pittore, non ha potuto nascondere lo sgomento per l’accaduto e, quasi per ritornare in sé, ha ricordato di quando con suo padre gestiva una salumeria presso il Ponte delle guglie. Ancora giovane, Cencio aveva realizzato una certa quantità di disegni, li attaccava sui muri, sul banchetto del pescivendolo ai piedi del ponte, li vendeva, li regalava e si mescolava con la gente, parlava, rideva, sembrava uno di loro. Con il passare del tempo, Massimo ha raccolto molti disegni del pittore. Sono eventi piuttosto frequenti a Venezia, dimensioni create dagli artisti, dalla contiguità delle differenze di cui è costituita la cultura ambientale di Venezia.
Eulisse è appunto il narratore di questa Venezia, di una città che nasce da dentro, che si riconosce nell’appartenenza ad una dimensione del mondo il cui progetto diventa artistico nella prassi, nel dialogo con l’ambiente adatto che lo accoglie, lo aiuta a formarsi e a diventare quello che vuole essere sulla base solida di una storia che autorizza a credere.
Accadde a Guidi, accolto all’arrivo con una certa ostilità. A Venezia, l’artista romano trovò un ambiente capace di ascoltarlo fino a farlo diventare “veneziano”. Tanto che nelle prime opere di Santomaso, Gasparri, Morandi, Bruno Blenner o Saverio Rampin, non è difficile rintracciare il tratto guidiano, anche se nel tempo sono diventati altro o si sono corrotti. Mi limito a riferire considerazioni di Cencio Eulisse.
E mi piace ricordarle quando egli si allontana portando con sé un pezzo significativo di quel tratto caratteristico e potente di una città cui viene tolta la possibilità di trasmettere una visione del mondo avendone tutta la forza necessaria.
Perciò sentiremo il vuoto delle provocazioni dell’artista inquieto e ribelle, del sapiente e appassionato artista dal tratto deciso e chiarificatore, del personaggio indisciplinato che non si asteneva dall’arguzia pungente e dal motteggio senza freni.
Eulisse
È come un sasso
liberato in corsa il Cencio Eulisse,
impulsivo siccome il suo mese seminale.
Se cade in acqua,
si fa liquida sommossa,
ispido artista quando
assembla ossa e pensieri
dispersi nel vaso focoso
del crogiolo della testa.
Immagine di copertina: © Andrea Merola
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