Quello che segue è il secondo di una serie di articoli sulla guerra e, più in particolare, sulla carneficina in atto in Medio Oriente, scatenata dall’aggressione di Hamas il 7 ottobre 2023 nel sud di Israele, a cui sono seguite la distruzione di Gaza e l’allargamento del conflitto all’intera regione mediorientale. Gli articoli sono:
1 – Why war? Le premesse – È la descrizione del contesto storico tra le due guerre mondiali, quando la Società delle Nazioni invita gli intellettuali a corrispondere e confrontarsi sulla guerra.
2 – Why war? Il carteggio – Riprende ampi stralci del carteggio tra Einstein e Freud.
3 – Why war. Amos Gitai – È una recensione del recente film del maestro israeliano.
4 – How war. Diritto e diritti – Ragioniamo di istituzioni internazionali, dei diritti di Stati e popolazioni e del dovere di rispettare il Diritto (Internazionale).
Why war? è il titolo di uno scambio epistolare tra Einstein e Freud del 1932, tra le due guerre mondiali. Colpisce l’attualità delle argomentazioni e dei contenuti. Sempre valide sono naturalmente le considerazioni di carattere generale sull’uomo, la sua psicologia, i suoi istinti, ma di grande contemporaneità è specialmente l’indicazione dell’unica possibile via per la risoluzione delle controversie internazionali con un’istituzione di ordine superiore rispetto agli stati, quella Società della Nazioni che diventa poi ONU ma che allora come oggi non ha potere esecutivo. Il carteggio Why War? è il pre-testo da cui deriva il testo cinematografico di Amos Gitai Why War (senza punto interrogativo) presentato in settembre alla mostra cinematografica della Biennale di Venezia.
2 – Why war? Il carteggio Einstein – Freud
Einstein indaga le ragioni che provocano la guerra tra simili pensanti. È convinto che il contributo di uomini di scienza, possa aiutare a “vedere i problemi del mondo nella prospettiva che la distanza offre”. La competenza scientifica in fisica fa affermare ad Einstein che “con l’avanzare della scienza moderna, questo problema è diventato una questione di vita o di morte per la civiltà come la conosciamo; tuttavia, per tutto lo zelo dimostrato, ogni tentativo di soluzione si è concluso con un deplorevole fallimento”, ciò detto si rivolge allora al padre della psicanalisi, per la sua “vasta conoscenza della vita istintiva dell’uomo” e perché “il normale obiettivo del mio pensiero non mi permette di penetrare nei luoghi oscuri della volontà e dei sentimenti umani.” Gli pone alcune domande dando a Freud modo di esporre il suo pensiero sui fondamenti psichici del comportamento, e di definire i possibili modi per arrestare i conflitti che affliggono l’umanità.
Due sono le questioni che Einstein pone a Freud, esordisce chiedendo “esiste un modo per liberare l’umanità dalla minaccia della guerra?” e poi chiude la lettera chiedendo “è possibile controllare l’evoluzione mentale dell’uomo in modo da renderlo resistente alle psicosi dell’odio e della distruzione?”.
Il padre della relatività argomenta il suo ragionamento affermando che
…Essendo immune da pregiudizi nazionalistici, personalmente vedo un modo semplice di affrontare l’aspetto superficiale (cioè amministrativo) del problema: l’istituzione, per consenso internazionale, di un organo legislativo e giudiziario per risolvere ogni conflitto che sorge tra le nazioni. Ogni nazione si impegnerebbe a rispettare gli ordini emessi da questo organo legislativo, a invocare la sua decisione in ogni controversia, ad accettare senza riserve le sue sentenze e ad attuare tutte le misure che il tribunale ritiene necessarie per l’esecuzione dei suoi decreti. Ma qui, all’inizio, mi scontro con una difficoltà: un tribunale è un’istituzione umana che, nella misura in cui il potere a sua disposizione è inadeguato a far rispettare le sue sentenze, è tanto più incline a lasciarle deviare da pressioni extragiudiziali. Questo è un dato di fatto con cui dobbiamo fare i conti; legge e potere vanno inevitabilmente di pari passo, e le decisioni giuridiche si avvicinano di più all’ideale di giustizia richiesto dalla comunità (in nome e nell’interesse della quale vengono pronunciate le sentenze) nella misura in cui la comunità ha il potere effettivo di imporre il rispetto del suo ideale giuridico. Ma attualmente siamo ben lontani dal possedere un’organizzazione sovranazionale in grado di emettere verdetti di autorità inoppugnabile e di imporre la sottomissione assoluta all’esecuzione dei suoi verdetti. Sono quindi portato al mio primo assioma: la ricerca della sicurezza internazionale implica la cessione incondizionata da parte di ogni nazione, in una certa misura, della propria libertà d’azione, cioè della propria sovranità, ed è chiaro al di là di ogni dubbio che nessun’altra strada può condurre a tale sicurezza.
Il cattivo esito, nonostante la loro evidente sincerità, di tutti gli sforzi compiuti nell’ultimo decennio per raggiungere questo obiettivo non ci lascia dubbi sul fatto che siano all’opera forti fattori psicologici che paralizzano questi sforzi. Alcuni di questi fattori non sono lontani da ricercare. La smania di potere che caratterizza la classe dirigente di ogni nazione è ostile a qualsiasi limitazione della sovranità nazionale. Questa sete di potere politico è solita colpire le attività di un altro gruppo, le cui aspirazioni sono puramente mercenarie ed economiche. Mi riferisco in particolare a quel piccolo ma determinato gruppo, attivo in ogni nazione, composto da individui che, indifferenti alle considerazioni e ai vincoli sociali, considerano la guerra, la produzione e la vendita di armi, semplicemente come un’occasione per promuovere i propri interessi personali e ampliare la propria autorità.
Prosegue poi il ragionamento argomentando:
come è possibile per questa piccola cricca piegare la volontà della maggioranza, che rischia di perdere e soffrire a causa di uno stato di guerra, al servizio delle proprie ambizioni? (Parlando della maggioranza, non escludo i soldati di ogni grado che hanno scelto la guerra come professione, nella convinzione di servire a difendere i più alti interessi della loro razza, e che l’attacco è spesso il miglior metodo di difesa). Una risposta ovvia a questa domanda sembrerebbe essere che la minoranza, la classe dirigente attuale, ha sotto il suo controllo le scuole e la stampa, e di solito anche la Chiesa. Questo le permette di organizzare e influenzare le emozioni delle masse e di farsene strumento.
Aggiungendo:
Come mai questi espedienti riescono così bene a suscitare negli uomini un entusiasmo così sfrenato, fino a sacrificare le loro vite? Una sola risposta è possibile. Perché l’uomo ha dentro di sé la brama di odio e di distruzione. In tempi normali questa passione esiste in uno stato latente, emerge solo in circostanze insolite; ma è un compito relativamente facile chiamarla in causa e portarla alla potenza di una psicosi collettiva. Qui sta forse il nocciolo di tutto il complesso di fattori che stiamo considerando, un enigma che solo l’esperto di istinti umani può risolvere.
Chiarisce così ulteriormente il perché della scelta di Freud come interlocutore per poi concludere la lettera con il secondo interrogativo posto a Freud in cui accosta masse incolte e intellettuali:
È possibile controllare l’evoluzione mentale dell’uomo in modo da renderlo resistente alle psicosi dell’odio e della distruzione? Non mi riferisco solo alle cosiddette masse incolte. L’esperienza dimostra che è piuttosto la cosiddetta “Intelligentzia” che è più incline a cedere a queste disastrose suggestioni collettive, poiché l’intellettuale non ha un contatto diretto con la vita allo stato grezzo, ma la incontra nella sua forma più semplice e sintetica sulla pagina stampata.
E conclude scrivendo che
Finora ho parlato solo di guerre tra nazioni, i cosiddetti conflitti internazionali. Ma so bene che l’istinto aggressivo opera in altre forme e in altre circostanze. (Penso, ad esempio, alle guerre civili, dovute in passato allo zelo religioso, ma oggi a fattori sociali; o, ancora, alla persecuzione di minoranze razziali).
Freud – Einstein
La risposta di Freud è più lunga e articolata. Esordisce “correggendo” il binomio a cui fa riferimento Einstein “potere e diritto” con “violenza e diritto”. “
Lei inizia con i rapporti tra Potere e Diritto, e questo è certamente il punto di partenza adeguato alla nostra indagine. Ma, al termine “potere”, sostituirei una parola più dura e più eloquente: “violenza”. Nel diritto e nella violenza abbiamo oggi un’evidente antinomia. È facile dimostrare che l’uno si è evoluto dall’altro…. I conflitti di interesse tra uomo e uomo si risolvono, in linea di principio, con il ricorso alla violenza. … All’inizio, la forza bruta era il fattore … Ben presto la forza fisica è stata implementata, e poi sostituita, dall’uso di vari ausili; vinceva chi aveva l’arma migliore o la maneggiava con più abilità. Ora, per la prima volta, con l’avvento delle armi, il cervello superiore cominciò a spodestare la forza bruta, ma l’oggetto del conflitto rimase lo stesso: una delle parti doveva essere costretta, a causa della ferita infertagli o della diminuzione della sua forza, a ritrattare una pretesa o un rifiuto. L’obiettivo viene raggiunto nel modo più efficace quando l’avversario viene definitivamente messo fuori gioco, ovvero ucciso. Questa procedura presenta due vantaggi: il nemico non può rinnovare le ostilità e, in secondo luogo, la sua sorte dissuade gli altri dal seguire il suo esempio. Inoltre, l’uccisione di un nemico soddisfa un desiderio istintivo …
Continua poi sviluppando la riflessione nei seguenti tre paragrafi, con argomenti di assoluta attualità. Le questioni che ci troviamo ad affrontare sono ancora quelle, irrisolte per interesse non perché irrisolvibili, anche se il nazionalismo dilagante lavora contro la formazione di soggetti internazionali
Dalla violenza al diritto
[…] Sappiamo che nel corso dell’evoluzione … è stato tracciato un percorso che ha portato dalla violenza al diritto. Ma qual era questo percorso? Sicuramente nasce da un’unica verità: che la superiorità di un uomo forte può essere superata da un’alleanza di molti deboli, che l’unione fa la forza. La forza bruta è superata dall’unione, la forza alleata di unità sparse fa valere il suo diritto contro il gigante isolato.
In realtà le istituzioni giuridica internazionali sono subordinate al veto del consiglio di sicurezza dell’ONU coi suoi membri permanenti e alle pressioni degli Stati.
Possiamo quindi definire il “diritto” (cioè la legge) come la forza di una comunità. Tuttavia, anch’essa non è altro che violenza, pronta ad attaccare qualsiasi individuo si trovi sul suo cammino, e impiega gli stessi metodi, segue gli stessi fini, con una sola differenza: è la violenza comunitaria, non quella individuale, ad avere la meglio.
Ma, per passare dalla violenza grezza al regno della legge, è necessario che si verifichi una certa condizione psicologica. L’unione della maggioranza deve essere stabile e duratura. Se la sua unica ragion d’essere è la disfatta di qualche individuo tracotante e, dopo la sua caduta, si dissolve, non porta a nulla. Qualche altro uomo, confidando nel suo potere superiore, cercherà di ripristinare il dominio della violenza e il ciclo si ripeterà all’infinito.
Perciò l’unione del popolo deve essere permanente e ben organizzata; deve emanare regole per far fronte al rischio di possibili rivolte; deve istituire un meccanismo che garantisca che le sue regole e le leggi siano rispettate e che gli atti di violenza richiesti dalle leggi siano debitamente eseguiti. Questo riconoscimento di una comunità di interessi genera tra i membri del gruppo un sentimento di unità e solidarietà fraterna che costituisce la sua vera forza.
[…] La situazione è abbastanza semplice finché la comunità è composta da un certo numero di individui equivalenti. Le leggi di un tale gruppo possono stabilire fino a che punto l’individuo deve rinunciare alla sua libertà personale, al diritto di usare la forza personale come strumento di violenza, per garantire la sicurezza del gruppo.
Ma questa combinazione è possibile solo in teoria; in pratica la situazione è sempre complicata dal fatto che, fin dall’inizio, il gruppo comprende elementi di potere diseguali, uomini e donne, anziani e bambini e, molto presto, a seguito di guerre e conquiste, anche vincitori e vinti, cioè padroni e schiavi. Da questo momento in poi il diritto comune prende atto di queste disuguaglianze di potere, le leggi sono fatte da e per i governanti, dando alle classi servili meno diritti.
Da quel momento in poi, all’interno dello Stato esistono due fattori di instabilità giuridica, ma anche di evoluzione legislativa: in primo luogo, i tentativi dei membri della classe dominante di porsi al di sopra delle restrizioni della legge e, in secondo luogo, la battaglia costante dei governati per estendere i propri diritti e vedere ogni conquista incorporata nel codice, rimpiazzando la “invalidità legale” (cioè la non validità di un’azione legale per il mancato possesso di requisiti NdR) con leggi uguali per tutti.
La seconda di queste tendenze sarà particolarmente marcata quando si verifica una mutazione positiva dell’equilibrio di potere all’interno della comunità, risultato frequente di alcune condizioni storiche. In questi casi le leggi possono essere gradualmente adattate alle mutate condizioni o (come accade più spesso) la classe dirigente è restia a fare i conti con i nuovi sviluppi; il risultato sono insurrezioni e guerre civili, un periodo in cui il diritto è in sospeso e la forza torna a essere l’arbitro, seguito da un nuovo regime di legge. Esiste un altro fattore di cambiamento costituzionale, che opera in modo del tutto pacifico: l’evoluzione culturale della massa della comunità; questo fattore, tuttavia, è di ordine diverso e può essere trattato solo in seguito.”
Un’autorità suprema
Vediamo quindi che, anche all’interno del gruppo stesso, l’esercizio della violenza non può essere evitato quando sono in gioco interessi contrastanti. Ma le esigenze e le abitudini comuni degli uomini che vivono in comunione sotto lo stesso cielo favoriscono una rapida risoluzione di tali conflitti e, stando così le cose, le possibilità di soluzioni pacifiche fanno progressi costanti. Eppure, il più casuale sguardo alla storia del mondo mostrerà una serie infinita di conflitti tra una comunità e un’altra o un gruppo di altre, tra unità grandi e piccole, tra città, paesi, razze, tribù e regni, quasi tutti risolti con la prova della guerra. Queste guerre si concludono o con il saccheggio o con la conquista e i suoi frutti, la caduta del perdente.
Non si può dare un giudizio univoco e globale su queste guerre di conquista. Alcune, come la guerra tra i mongoli e i turchi, hanno portato a una miseria senza limiti; altre, invece, hanno favorito il passaggio dalla violenza al diritto, poiché hanno dato vita a unità più grandi, entro i cui limiti il ricorso alla violenza era vietato e un nuovo regime determinava tutte le controversie. Così le conquiste romane portarono la pax romana nelle terre del Mediterraneo. La brama di espansione dei re francesi creò una nuova Francia, fiorente nella pace e nell’unità. Per quanto possa sembrare paradossale, dobbiamo ammettere che la guerra potrebbe servire a spianare la strada a quella pace ininterrotta che tanto desideriamo, perché è la guerra che fa nascere vaste unità, all’interno delle quali tutte le guerre sono proibite da un forte potere centrale. In pratica, però, questo fine non viene raggiunto, perché di solito i frutti della vittoria sono di breve durata, l’unità appena creata si disgrega di nuovo, in genere perché non può esistere una autentica coesione tra le parti che la violenza ha messo insieme. Finora, inoltre, tali conquiste hanno portato solo ad aggregazioni che, per quanto grandi, avevano dei limiti e le dispute tra queste unità potevano essere risolte solo con il ricorso alle armi. Per l’umanità in generale l’unico risultato di tutte queste imprese militari è stato che, invece di frequenti per non dire incessanti piccole guerre, ha dovuto affrontare grandi guerre che, per quanto meno frequenti, erano molto più distruttive.
Per quanto riguarda il mondo di oggi, … C’è un solo modo sicuro per porre fine alla guerra ed è l’istituzione, di comune accordo, di un controllo centrale che abbia l’ultima parola in ogni conflitto di interessi. A tal fine, sono necessarie due cose: in primo luogo, la creazione di una corte suprema di giustizia; in secondo luogo, il suo investimento con un’adeguata forza esecutiva. Se non si soddisfa questo secondo requisito, il primo è inutile.Ovviamente la Società delle Nazioni, agendo come Corte suprema, soddisfa la prima condizione; non soddisfa la seconda. Non ha forza a disposizione e può averla solo se i membri del nuovo organismo, le nazioni che lo costituiscono, la forniscono. E, allo stato attuale delle cose, questa è una speranza vana.
Tuttavia, se ignorassimo il fatto che la Società delle Nazioni è un esperimento che raramente è stato tentato nel corso della storia, e mai prima d’ora su una tale scala, avremmo una visione molto miope della stessa. Si tratta di un tentativo di acquisire l’autorità (in altre parole, l’influenza coercitiva), che fino ad ora si basava esclusivamente sul possesso del potere, mettendo in gioco alcuni atteggiamenti mentali idealistici.
Abbiamo visto che i fattori di coesione di una comunità sono due: le coazioni violente e i legami di sentimento (“identificazioni”, nel linguaggio tecnico) tra i membri del gruppo. Se uno di questi fattori diventa inoperante, l’altro può ancora essere sufficiente a tenere unito il gruppo. Ovviamente queste nozioni possono essere significative solo quando sono espressione di un senso di unità profondamente radicato e condiviso da tutti. […] E, ai nostri giorni, cerchiamo invano una nozione unificante la cui autorità sia indiscussa. È fin troppo chiaro che le idee nazionalistiche, oggi dominanti in ogni Paese, operano in direzione opposta. Alcuni ritengono che le concezioni bolsceviche possano porre fine alla guerra, ma, allo stato attuale delle cose, questo obiettivo è molto lontano e, forse, potrebbe essere raggiunto solo dopo un periodo di brutale guerra interna. Sembra quindi che qualsiasi tentativo di sostituire la forza bruta con la forza di un ideale sia, nelle condizioni attuali, destinato a fallire. La nostra logica è sbagliata se ignoriamo il fatto che il diritto è fondato sulla forza bruta e ancora oggi ha bisogno della violenza per essere mantenuto.
Forza vitale e istinto di morte invitato
[…] Lei si stupisce che sia così facile infettare gli uomini con la febbre della guerra e ipotizza che l’uomo abbia in sé un istinto attivo all’odio e alla distruzione, suscettibile di tali stimoli. Sono completamente d’accordo con voi. […] Partiamo dal presupposto che gli istinti umani sono di due tipi: quelli che conservano e unificano, che chiamiamo “erotici” (nell’accezione che Platone dà a Eros nel suo Simposio), oppure “sessuali” (estendendo esplicitamente le connotazioni popolari di “sesso”); e, in secondo luogo, gli istinti a distruggere e uccidere, che assimiliamo agli istinti aggressivi o distruttivi. […] Questi sono, come percepite, i ben noti opposti, Amore e Odio, trasformati in entità teoriche; sono, forse, un altro aspetto di quelle eterne polarità, attrazione e repulsione, che rientrano nella vostra sfera di competenza. Ma dobbiamo stare attenti a non passare troppo frettolosamente alle nozioni di bene e di male. Ognuno di questi istinti è indispensabile quanto il suo opposto e tutti i fenomeni della vita derivano dalla loro attività, sia che lavorino di concerto che in opposizione. […] Sembra che un istinto dell’una o dell’altra categoria possa operare solo raramente in modo isolato; è sempre mescolato (“legato”, come diciamo noi) con una certa dose del suo opposto, che ne modifica lo scopo o addirittura, in certe circostanze, è una condizione primaria per il suo raggiungimento. Così l’istinto di autoconservazione è certamente di natura erotica, ma per raggiungere i suoi fini questo stesso istinto richiede un’azione aggressiva. […] Se volete proseguire con me su questa strada, scoprirete che le vicende umane sono complicate anche in un altro modo. Solo eccezionalmente un’azione segue lo stimolo di un singolo istinto. […] Di norma, diversi motivi di composizione simile concorrono a determinare l’azione. … Quando una nazione è chiamata a impegnarsi in una guerra, un’intera gamma di motivazioni umane può rispondere a questo appello; motivazioni alte e basse, alcune apertamente dichiarate, altre sottaciute. […] La stimolazione di questi impulsi distruttivi con appelli all’idealismo e all’istinto erotico ne facilita naturalmente lo sfogo. Pensando alle atrocità registrate sulla pagina della storia, ci sembra che il motivo ideale sia spesso servito da camuffamento per la brama di distruzione; a volte, come nel caso delle crudeltà dell’Inquisizione, sembra che, mentre i motivi ideali occupavano il primo piano della coscienza, essi traessero la loro forza dagli istinti distruttivi sommersi nell’inconscio. Entrambe le interpretazioni sono possibili. […] Vorrei soffermarmi su questo istinto distruttivo che raramente riceve l’attenzione che merita. Con il minimo sforzo speculativo siamo portati a concludere che questo istinto funziona in ogni essere vivente, sforzandosi di operare la sua rovina e di ridurre la vita al suo stato primordiale di materia inerte. In effetti, potrebbe essere chiamato “istinto di morte”, mentre gli istinti erotici garantiscono la lotta per continuare a vivere. L’istinto di morte diventa un impulso alla distruzione quando, con l’aiuto di alcuni organi, dirige la sua azione verso l’esterno, contro gli oggetti esterni. L’essere vivente, cioè, difende la propria esistenza distruggendo i corpi estranei. […] Ma, in una delle sue attività, l’istinto di morte è operativo all’interno dell’essere vivente e abbiamo provato a ricondurre una serie di fenomeni normali e patologici a questa introversione dell’istinto distruttivo. Abbiamo persino commesso l’eresia di spiegare l’origine della coscienza umana con un simile “rivolgimento verso l’interno” dell’impulso aggressivo. Ovviamente, quando questa tendenza interna opera su scala troppo ampia, non si tratta di una questione banale, ma di uno stato di cose positivamente morboso; mentre la deviazione dell’impulso distruttivo verso il mondo esterno deve avere effetti benefici. Ecco quindi, la giustificazione biologica di tutte quelle vili e perniciose propensioni che ora stiamo combattendo. Non possiamo che ammettere che esse sono davvero più affini alla natura di quanto non lo sia questa nostra presa di posizione contro di esse, che, di fatto, resta da spiegare […] Il risultato di queste osservazioni, per quanto riguarda l’argomento in questione, è che non c’è alcuna possibilità di riuscire a reprimere le tendenze aggressive dell’umanità. In alcuni angoli felici della terra, si dice, dove la natura produce in abbondanza tutto ciò che l’uomo desidera, fioriscono razze la cui vita scorre dolcemente, senza conoscere aggressioni o costrizioni. Non posso credere a questo; vorrei ulteriori dettagli su questa gente felice. […] Tutto ciò che produce legami di sentimento tra uomo e uomo deve servirci come antidoto alla guerra.
Questi legami sono di due tipi. In primo luogo, relazioni come quelle verso un oggetto amato, anche se prive di intenti sessuali. Lo psicoanalista non deve avere alcuna remora a nominare l’“amore” in questo contesto; la religione usa lo stesso linguaggio: Ama il prossimo tuo come te stesso. Una pia ingiunzione facile da enunciare, ma difficile da mettere in pratica! L’altro legame di sentimenti è quello dell’identificazione. Tutto ciò che fa emergere le somiglianze significative tra gli uomini mette in gioco questo sentimento di comunità, di identificazione, su cui si fonda, in larga misura, l’intero edificio della società umana. Nelle sue critiche all’abuso di autorità trovo un altro suggerimento per un attacco indiretto all’impulso bellico. Il fatto che gli uomini siano divisi in capi e guidati non è che un’altra manifestazione della loro innata e irrimediabile disuguaglianza. La seconda classe costituisce la stragrande maggioranza; ha bisogno di un alto comando che prenda decisioni per loro, alle quali di solito si inchinano senza demeritare. In questo contesto, vorremmo sottolineare che gli uomini dovrebbero impegnarsi più che in passato per formare una classe superiore di pensatori indipendenti, non soggetti a intimidazioni e fervidi nella ricerca della verità, la cui funzione sarebbe quella di guidare le masse che dipendono dalla loro guida. Non c’è bisogno di sottolineare quanto poco il dominio dei politici e il divieto della Chiesa sulla libertà di pensiero incoraggino questa nuova creazione. […] Tutto ciò che produce legami di sentimento tra uomo e uomo deve servirci come antidoto alla guerra. Non c’è bisogno di sottolineare quanto poco il dominio dei politici e il divieto della Chiesa sulla libertà di pensiero incoraggino questa nuova creazione. […] Ma perché noi, voi, io e molti altri, protestiamo con tanta veemenza contro la guerra, invece di accettarla come un’altra delle odiose imposizioni della vita?
La risposta alla mia domanda può essere la seguente: Perché ogni uomo ha diritto alla propria vita e la guerra distrugge vite che erano piene di promesse; costringe l’individuo a situazioni che svergognano la sua virilità, obbligandolo a uccidere i suoi simili, contro la sua volontà; devasta i beni materiali, i frutti della fatica umana e molto altro. Inoltre, le guerre, così come sono condotte oggi, non danno spazio ad atti di eroismo secondo i vecchi ideali e, data l’alta perfezione delle armi moderne, la guerra oggi significherebbe il puro sterminio di uno dei combattenti, se non di entrambi.
Questo è così vero, così ovvio, che non possiamo non chiederci perché la conduzione della guerra non sia vietata dal consenso generale. Ci si può chiedere se la comunità, a sua volta, non possa rivendicare un diritto sulla vita individuale dei suoi membri. Inoltre, tutte le forme di guerra non possono essere condannate indiscriminatamente; finché ci saranno nazioni e imperi, ognuno pronto a sterminare il proprio rivale, tutti dovranno essere equipaggiati per la guerra.
Passo a un altro punto, la base, a mio avviso, del nostro comune odio per la guerra. È questo: non possiamo fare altro che odiarla. Siamo pacifisti, perché la nostra natura organica ci vuole così. Perciò ci viene facile trovare argomenti che giustifichino il nostro punto di vista.
Questo punto, tuttavia, richiede una delucidazione. Ecco come la vedo io. Lo sviluppo culturale dell’umanità (alcuni, lo so, preferiscono chiamarlo civiltà) è in corso fin dall’antichità immemorabile. A questo fenomeno dobbiamo tutto ciò che c’è di meglio nella nostra composizione, ma anche molto di ciò che è causa di sofferenza umana. Le sue origini e le sue cause sono oscure, il suo svolgimento è incerto, ma alcune sue caratteristiche sono facili da percepire
I cambiamenti psichici che accompagnano questo processo di cambiamento culturale sono sorprendenti e non vanno trascurati. Consistono nel progressivo rifiuto dei fini istintivi e nel ridimensionamento delle reazioni istintive. Le sensazioni che deliziavano i nostri antenati sono diventate neutre o insopportabili per noi; e se i nostri ideali etici ed estetici hanno subito un cambiamento, le cause sono in ultima analisi organiche.
Dal punto di vista psicologico, due dei fenomeni più importanti della cultura sono, in primo luogo, il rafforzamento dell’intelletto, che tende a dominare la nostra vita istintiva, e, in secondo luogo, l’introversione dell’impulso aggressivo, con tutti i vantaggi e i pericoli che ne derivano. Ora, la guerra è in netto contrasto con la disposizione psichica che ci è stata imposta dalla crescita della cultura; siamo quindi destinati a risentire la guerra, a trovarla assolutamente intollerabile. Per i pacifisti come noi non si tratta di una semplice repulsione intellettuale e affettiva, ma di un’intolleranza costituzionale, un’idiosincrasia nella sua forma più drastica. E sembra che le ignominie estetiche della guerra giochino un ruolo quasi altrettanto importante in questa ripugnanza quanto le atrocità della guerra.
Quanto dovremo aspettare prima che il resto degli uomini diventi pacifista? Impossibile dirlo, eppure forse non è chimerica la nostra speranza che questi due fattori, la disposizione culturale dell’uomo e il fondato timore della forma che assumeranno le guerre future, possano servire a porre fine alla guerra in un futuro prossimo. Ma non possiamo immaginare in che modo e per quali vie ciò avverrà. Nel frattempo, possiamo contare sulla certezza che tutto ciò che favorisce lo sviluppo culturale lavora anche contro la guerra.[…]
Link del sito UNESCO con il sunto della lettera di Einstein a Freud in inglese.
Link il carteggio tradotto in italiano.
Link del sito UNESCO con il sunto della lettera di Freud a Einstein in inglese
L’articolo Why the War? Il carteggio Freud-Einstein proviene da ytali..