Mauro Ceruti è uno degli incontri più fecondi ed esigenti della mia vita adulta. Il confronto e l’approfondimento cui sempre invita, il suo indicare la necessità di passare dal pensiero alla pensosità tessono ricerca condivisa e fraternità. La lectio di Foggia ed i caratteri di una nuova paideia hanno risuonato in una rilettura obliqua della Lettera a una Professoressa e di Esperienze Pastorali di don Lorenzo Milani.
Occorre leggere con attenzione Lettera a una professoressa, perché è uno dei libri più diffusi, ma non credo sia uno dei libri letti con più attenzione.
La lettera rappresenta il bisogno di una scuola molto esigente, molto dura, e allo stesso tempo una scuola nella quale le persone vengono “richiamate”, chiamate ad essere pienamente se stesse perché amate una ad una. Anzitutto questo è importante: don Milani dirà che dobbiamo amare i nostri allievi uno ad uno, dobbiamo “amare le loro famiglie”. Cioè quelle famiglie che non volevano darglieli i figli per la scuola, che resistevano, che avevano quegli sguardi ottusi ascoltandolo in chiesa. Quello di cui parla in Esperienze pastorali. Donne e uomini che resistevano alla parola, che non la volevano, per paura di dover poi assumere la responsabilità di una parola che dà consapevolezza del mondo e pone la questione del proprio posizionamento nel mondo, dentro le sue raddizioni e le ingiustizie. Bisogna amare questi.
E bisogna amare il contesto di queste vite, perché solo da lì, dentro quelle condizioni, è possibile portare la propria testimonianza, la propria differenza, sentendo e caricandosi del peso della disumanità chiamata a diventare umanità grazie alla parola. Amare e svelare le ingiustizie, amare e denunciare, amare e trasformare. Soprattutto per un borghese come don Milani, che viveva profondamente il grande problema (lo ha richiamato benissimo Ermes Ronchi) di operare il miracolo del passaggio per la cruna dell’ago, partendo dallo “spogliarsi” delle proprie ricchezze e poi della propria cultura. Spogliarsene e condividerla spogliarsi nel condividerla, perché venisse del tutto rovesciata, riconsiderata e convertita come strumento di emancipazione.
Non ci vuole una scuola lassista perché questo avvenga. Ci vuole una scuola seria ed esigente. Una scuola attenta ad ognuno e alle storie di ognuno, e capace di fare costruire, insieme, una strategia di presa di consapevolezza, di correzioni, di buoni conflitti gestiti insieme nella franchezza. Costruire la strada della scrittura collettiva vuol dire ad esempio affrontare tanti micro-conflitti e anche tanti grossi conflitti su prospettive diverse; è faticoso ed è fecondo.
Ci abbiamo provato per anni. Sono arrivato in università recentemente, ma ho tutta una lunga storia precedente da insegnante, con giovani colleghi e con i ragazzi delle medie, nelle valli bergamasche più chiuse, con i corsi delle 150 ore. Era impresa dura, richiedeva un lavoro serio su di sé, su ciò che ci muoveva nell’operare, nei pensieri; a volte noi costruivamo dei pensieri difensivi. Quanto è duro don Milani quando dice: “Bisogna togliere questo veleno della educazione all’umiltà degli umili”, perché è ciò che permette di asservire gli umili, anzi di averli come primi sostenitori dell’asservimento stesso!
Dobbiamo ricordare come in Lettera a una professoressa si critica il metodo della ricreazione: “Ci criticano nella nostra scuola perché non c’è ricreazione, non c’è pausa. È una scuola dalla mattina alla sera, tutti i giorni, 365 giorni all’anno”. Lì non c’è ricreazione, non c’è spazio al consumismo, non c’è svago. Eppure c’erano i film, c’era la musica, c’era l’arte, c’erano tutte queste ospitalità di amici del priore che entravano in questo gioco fatto di costruzione di responsabilità, e di bellezza, perché i ragazzi e le ragazze che venivano da quella profonda deprivazione – la deprivazione della parola – la riscoprissero come il luogo per reinterpretare la vita, riprendere il rapporto con sé, con il proprio tempo, con gli altri.
Per capire bene come è avvenuta Lettera a una professoressa va letta la lettera scritta dai ragazzi e dalle ragazze di Barbiana agli allievi di Mario Lodi di Piadena. Nella lettera viene descritto proprio il processo della scrittura collettiva. È bellissima questa descrizione fatta da chi la agiva, e quella sottolineatura grandissima: “guardate che la scuola è una grazia”, è un privilegio, non basta il sapere, il sapere non vale di per sé, “può essere anche una tentazione” il sapere. Il sapere vale se tu lo spendi per altri.
E c’è un passaggio bellissimo quando dice: “noi speriamo che la parola arrivi a tutti i popoli del mondo, così comincerà un dialogo grande e supereremo le ingiustizie, le patrie e la guerra”. Supereremo le appartenenze particolari e chiuse e un senso del conflitto violento. Non il conflitto buono, senza odio e nel rispetto dell’altro che non la pensa come noi, nei confronti del quale la parresia, cioè anche una certa durezza nel confronto, apre a un buon conflitto. La guerra è un conflitto distruttivo, insensato.
Questa è la pratica fiduciosa e testarda di una parola che è capace di creare la comunità degli uomini, non ideologicamente, ma negli incontri, nei confronti nelle pratiche. Va praticata a scuola la costruzione dell’uso della parola per comporre pensieri che siano luoghi della responsabilità, del riconoscimento reciproco, della condivisione e della scelta. La scuola deve portare alla scelta, a un posizionamento nel tempo e nel mondo.
Per questo bisogna leggere la Lettera ai giudici che è un testo di pedagogia raffinato e bello che disegna la scuola “sul filo del rasoio tra presente e futuro”. Temo che oggi stiamo tornando a pensare la scuola tra presente e passato, o tesa all’adattamento al presente, al merito meritocratico, alla prestazione, alla funzionalità…
Sì, perché Lettera a una professoressa svela alcune cose importanti. Svela come la scuola abitua a una forma di pensiero che può essere rigida, particolaristica, specialistica, neutrale rispetto alla responsabilità morale e civile. E quindi una forma di pensiero adeguata al mantenimento delle strutture del potere.
Per evitare una scuola dell’omologazione e dell’adattamento l’esperienza scolastica deve stare sul filo del rasoio, non fra il presente e il passato, ma fra presente e futuro. Perché la scuola si collochi “sul bordo esposto” della società, perché sia un luogo sociale particolare, in cui tutta la tradizione, le lingue, gli strumenti, le lingue straniere, le tecniche e i saperi, ridicano da capo il loro senso. Nella evidenza del fronte dei problemi che, piano piano, vengono conosciuti a scuola: perché i saperi mostrino cosa hanno da dire rispetto alla possibilità di affrontarli, quei problemi, aprendo spazi di umanità più grande… Questa è una scuola buona.
Ma per farla occorre costruire un pensiero adatto. E c’è una distinzione chiara, e da cogliere tra un conoscere che è controllo di contenuti e capacità di pensare, cioè come sapere analizzare, domandare continuamente e ricercare con altri. Mentre si costruisce il sapere si costruisce anche il dovere di questo sapere.
Occorre considerare che la scuola fino ad oggi (e allora sicuramente) resta centrata per lo più sul principio “sapere è potere”. Per diversi anni si è creduto nella scorciatoia “basta allora distribuire scuola, così distribuiamo potere”. La scuola però può anche distribuire privilegio ed esclusioni, selezione. Può essere classista come mostra Lettera a una professoressa. E il sapere può essere dominio, o adattamento. Dipende dal suo fine: “il fine giusto è dedicarsi al prossimo”. Se manca questo, il sapere che tu accumuli rischia di essere lo strumento che tu usi per giustificare la tua supremazia sugli altri. Nella Lettera questo discrimine è tracciato con forza.
Noi si potrebbe dire che non solo “sapere è potere”, ma che sapere è potere se diventa anche luogo in cui tu coltivi (lo dico con Simone Weil) la tua obbligazione. Serve allora che la scuola faccia incontrare l’altro di cui ti fai responsabile, vicino o lontano. Se andiamo a Barbiana, vediamo cosa è appeso alle pareti e abbiamo una chiara idea del vicino e del lontano. E come in questo posticino c’erano queste grandi carte geografiche, c’erano le tabelle, c’erano parole straniere, tutto in un luogo piccolo e sperduto sui monti; abitava il mondo lì, respirava il mondo, con tutte le sue ingiustizie, tutte le grandi sfide e le speranze.
Se la scuola è questa esperienza di contatto con il mondo e con il tempo, allora esprime questa capacità forte di essere un luogo di emancipazione. Altrimenti diventa davvero una sorta di strumento di controllo, di selezione, e il merito che vi viene misurato è su quanto tu aderisci a quella forma di pensiero, a quell’uso della parola. A quella selezione.
La mia generazione è figlia della Scuola media unica obbligatoria: senza quella legge molti di noi avrebbero frequentato l’avviamento professionale, da figli di operai o contadini. Più di metà della mia classe era figlio o figlia di contadini e di operai. Di questa metà abbondante solo in quattro abbiamo proseguito gli studi alle superiori. Tutta l’altra metà, composta dai figli della borghesia benestante, ha proseguito, al di là dei risultati che avevano registrato. Era una scuola che selezionava duramente e ingiustamente.
Quando adolescente ho letto Lettera a una professoressa ho letto la mia storia e la storia dei miei coetanei, e quei meccanismi. Per fortuna alcuni di noi frequentavano altri ambienti, frequentavano il sindacato che stava promuovendo le 150 ore e aveva bisogno di studenti anche delle superiori per insegnare. Incontravamo l’analfabetismo di ritorno: incontravamo i contadini di montagna, gli operai, e quello è stato il posizionamento che dava senso e orientava il nostro studio.
In Lettera a una professoressa quando si parla della scrittura, per esempio, non si parla di una scrittura diaristica, individualistica, ma si parla di una scrittura epistolare, le lettere, e si parla della scrittura collettiva che è quel processo complesso di confronto, di costruzione, di pensiero, di approfondimento, di nuova documentazione, di ricerca.
Quando a Barbiana salivano gli “esperti” non facevano lezione ma venivano interrogati subito. Gian Paolo Meucci che a Bergamo ha collaborato alla fondazione delle prime comunità per ragazzi tossico-dipendenti, persona straordinaria, quando parlava di Barbiana, delle sue visite a Barbiana, ne parlava come di una esperienza di cui lui aveva bisogno perché gli permetteva di respirare, di dare orientamento al suo pensiero e al suo studio.
Questo avveniva a maggior ragione tra i ragazzi e le ragazze. Agli insegnanti che un giorno sono saliti a Barbiana il priore diceva – un amico di Adele Corradi lo ricorda – “voi dovete dare voi stessi da mangiare ai vostri allievi”. Diceva una cosa incredibile, ma lui ha consumato anche il suo corpo per i suoi allievi e per le persone che ha incontrato. Questa immagine è forte, questa sorta di eucarestia laica segna una via preziosa.
“Date loro voi stessi da mangiare”: date tutto di voi, con una generosità che vi prenda dentro profondamente. Date voi stessi da mangiare e poi imparate a farvi da parte. Perché educare è, poi, lasciar andare, far andare nelle responsabilità. Chi educa mette nel conto il suo finire.
Si è detto (e si dice ancora) che Lettera a una professoressa sia un libro sovversivo. Lo è se si intende sovversivo collocare la scuola nell’attesa di futuro e in una relazione responsabile tra le generazioni, fare della scuola il luogo della immaginazione, una immaginazione molto concreta. Sotto l’aula c’era il laboratorio con gli attrezzi, a Barbiana, c’è anche il senso del lavoro che deve essere un luogo dove conquistare una dignità che troppo spesso non è rispettata. Ti serve il lavoro per entrare nelle contraddizioni, poi ti serve il sindacato, ti serve il voto, e ti serve la cultura per aprirle queste contraddizioni, per aprire nuove prospettive, con responsabilità. Devi schierarti.
(foto da wikipedia)
E qui è interessante la denuncia: “I classisti siete voi” dice Lettera a una professoressa, perché il contrasto alla cultura di classe in don Milani è una sorta di esigente via di superamento della ingiustizia e della logica delle classi. Non è, la sua, la lotta di classe classica. Lo si è scritto: la lettera a Pipetta e il confronto serrato, già da Calenzano, con i socialisti, con i comunisti. È un impegnativo modo di stare nella contraddizione, un po’ anticipandone il superamento e disegnando, poi, delle forme di partecipazione politica o sindacale che rompano e facciano evolvere oltre lo sfruttamento e la separazione di classe.
È interessante: è un anti-classismo, qualcuno ha detto, di sicuro non è un interclassismo: è chiara la richiesta a schierarsi e a fare affrancare dal proprio punto di vista gli umili, quegli umili che vanno “salvati dalla umiltà” a cui vengono educati anche dalla Chiesa per tenerli sotto controllo. Nel rapporto con gli umili si possono intravvedere, immaginare le forme di un nuovo rapporto sociale, di una nuova economia, di un nuovo rapporto tra le culture. Fa attraversare il Mediterraneo a qualcuno, fa studiare l’ebraico, fa studiare l’arabo; alcuni dei suoi ragazzi partono per il Nord Africa altri per la Germania. È interessante questo respiro grande che lui ha.
C’è molto più don Milani disseminato di quello che pensiamo. La scuola meritocratica e classista viene superata nelle proposte di una scuola connessa con le dinamiche sociali nelle quali i ragazzi e le ragazze si trovano subito “compromessi” e impegnati, cui devono dare il loro contributo. Le lettere che da Barbiana partivano sono una forma di questo contributo. Una presa di posizione soprattutto a fianco degli umili, degli ultimi appunto. Di denuncia delle contraddizioni ma anche di proposta. Tutte le volte che una scuola oggi fa una esperienza di service learning, di apprendimento servizio, di uscita con le sue competenze nella società esterna, va nel solco della Lettera a una professoressa.
In questi ultimi due anni abbiamo accompagnato istituti professionali lombardi in operazioni di apprendimento servizio nelle carceri lombarde. Sono delle esperienze folgoranti, formative che obbligano a studiare ancor di più. Gli studenti della formazione professionale, quelli che sono già un po’ tagliati fuori, si trovano nel pomeriggio per supplementi di studio ai quali chiamano anche i loro professori; e alcuni di questi ci stanno, non ne fanno questione di ore.
Questa è la prospettiva di una scuola che è un luogo di responsabilità, in cui gli adolescenti e le adolescenti si giocano subito in cittadinanza attiva, in forme di servizio. Quando fanno le visite di istruzione dentro le fabbriche, le imprese, i servizi non ci vanno adattandosi a ciò che lì vedono, accettando soltanto la illustrazione che viene loro proposta, ma ci vanno con le domande, ci vanno con istanze di ricerca: i giovanissimi portano problematicità.
È una scuola che perturba, pertanto: perturba chi la frequenta innanzitutto, perché non può stare tranquillamente nelle sue situazioni e nelle sue sicurezze o nei suoi adattamenti. Perturba le famiglie, che magari avevano mandato a scuola i figli con certe aspettative. È interessante questa funzione perturbatrice della scuola. Chiederle di adattare i programmi alle dinamiche del mercato del lavoro e delle figure professionali, è destinarla ad essere sempre in ritardo. No, una scuola deve essere luogo di anticipo. Come facciamo a far arrivare in ritardo i nostri figli e le nostre figlie? Alcuni di loro sono andati avanti, e ci richiamano a quei doveri di rispetto del futuro del mondo e ai dialoghi tra le culture e le condizioni umane distribuite nel mondo. A fare i conti con ingiustizie e bisogno di pace.
In alcuni corsi dell’Università di Bergamo le studentesse l’anno scorso facevano un minuto di silenzio all’inizio di ogni lezione dedicato alle studentesse iraniane, alle studentesse afgane; lo hanno deciso loro durante le prime lezioni del corso, quando hanno discusso a chi dedicare il loro studio.
Ci sono giovani uomini e giovani donne che decidono queste cose. Nelle loro vite se ne ricorderanno sempre: non è banale, è un modo di orientare non solo il sentire, anche il senso di quello che studiano e degli impegni che si prendono.
Questo, tutto sommato, è un ritorno del seme di Lettera a una professoressa qualche decennio dopo.
Immagine di copertina: Don Lorenzo Milani insieme ai suoi studenti di Barbiana, fotografia di Oliviero Toscani, 1959
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