Proponiamo alle nostre lettrici e lettori l’intervento pronunciato a braccio da Paolo Possamai il 30 ottobre scorso, in occasione di Senza pace. Le guerre interrogano l’Italia, secondo appuntamento de Le crisi mondiali, il ciclo organizzato dall’associazione culturale Padova Legge di cui il collega Possamai è presidente.
Il testo che qui di seguito pubblichiamo è la trascrizione – non integrale, non corretta, né rivista dall’autore – del discorso, a cui segue il video completo del suo intervento. L’iniziativa non è stata concordata con Possamai.
PadovaLegge è […] un luogo di incontro, […] a suo modo una scuola di cittadinanza. È un momento per far memoria insieme dei grandi temi che attraversano la nostra vita e l’attualità.
E allora proverò con voi a spezzare qualche parola, perché le parole sono importanti. Le parole danno un senso alle nostre vite e danno l’idea delle cose.
Allora vorrei iniziare questo nostro appuntamento nella chiave della comunicazione e pensare insieme a come la comunicazione attraversa e avvolge le nostre vite, e fino a che punto effettivamente ci interroga, e fino a che punto effettivamente ci anestetizza. In che modo dunque la comunicazione intercetta le nostre coscienze.
Su questo vi propongo un brevissimo passo dell’ultima, della quarta enciclica di Papa Francesco, dove dice che viene da pensare che la società mondiale stia perdendo il cuore. Cioè che abbiamo smesso di far risuonare dentro di noi le emozioni e i sentimenti, come se tutto ci scorresse addosso esattamente come acqua su marmo.
Ieri il signor Ministro [Tajani] è stato in visita a Gorizia. Gorizia è una delle città simbolo – vengono dette città martiri – della prima guerra mondiale.
Per la verità – guardate che non andando così distante, ma stando anche semplicemente sulle nostre Prealpi e andando a camminare sul Pasubio – potremmo scoprire, facendone memoria, che su quel massiccio sono morte decine di migliaia di persone. Decine di migliaia.
Ieri il Ministro ha visitato, tra l’altro, una mostra dedicata a Giuseppe Ungaretti, che per un accidente della storia non ha mai avuto la segnalazione del Nobel, ma di cui vorrei leggervi una celeberrima poesia. È intitolata San Martino del Carso.
Dice così:
“Di queste case non è rimasto
che qualche brandello di muro,
di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto neppure tanto,
ma nel cuore nessuna
croce manca
È il mio cuore
è il paese più straziato“.
Allora, lasciamoci interrogare dalla poesia che così tanto spesso è un barometro della coscienza. Proviamo ad andare dentro di noi e a dire in tutta onestà se questa poesia ci fa vibrare ancora come un diapason, cioè se siamo ancora capaci di emozioni oppure se nell’età della comunicazione le emozioni sono spianate e dunque il fatto che in Ucraina ci siano da tre anni, non da tre mesi, da tre anni, due popoli che, quotidianamente, perseguono l’uno verso l’altro l’obiettivo di eliminarlo, c’interroga ancora.
Guardate che quando noi pensiamo alla prima guerra o alla seconda guerra mondiale diciamo sono durate quattro anni oppure sono durate cinque anni e diciamo è tanto tempo. Tre anni non è poco tempo e non ha neanche l’aria di finire domani.
Allora, ci colpisce davvero ancora questa lirica di Ungaretti? O questo appuntamento, così come tanti altri, può esserci d’aiuto per suonare un gong dentro di noi?
Il gong, per chiunque abbia conoscenza del diritto nautico, è la modalità estrema per far percepire se stessi nel pieno della nebbia ad altri. Oppure siamo assuefatti o addirittura avvezzi.
Guardate che dentro la parola “avvezzo” etimologicamente è contenuta la parola “vizio”, ossia cattiva abitudine. Abbiamo assunto la cattiva abitudine di ritenere normale, ovvio, consuetudinario che, a qualche migliaio di chilometri da qui, sia in atto un conflitto armato da tre anni e che nella Terra Santa – faticosissimo è usare l’espressione Terra Santa di questi tempi – pure ci sia uno scontro armato spaventoso.
Riusciamo ancora a ricordare, dentro la parola ricordare c’è ancora una volta la parola cuore, naturalmente latina, riusciamo a ricordare quello che sta avvenendo, ne facciamo addirittura memoria; la memoria diversamente dal ricordo è un esercizio della mente, infatti ha la stessa radice semantica di mente. Ma, nel caso del ricordo, è prevalente l’aspetto dell’emozione.
Nel caso della memoria è largamente prevalente invece l’esercizio della razionalità. Nell’un caso come nell’altro, siamo presenti? Wittgenstein dice che i confini del mio linguaggio sono i confini del mio mondo. E dunque ancora una volta viene a sottolineare come le parole sono importanti e come se noi padroneggiamo le parole siamo più consapevoli del nostro agire.
Allora provo a spezzare le ultime due parole che sono le due parole chiave.
La prima parola è guerra.
In italiano Sono sopraggiunte soltanto le espressioni bellico oppure bellicoso e vengono naturalmente dal latino bellum.
Guerra invece da dove viene? Guerra viene dal germanico verra ed è interessante perché alla sera dell’impero cambia il senso della guerra.
Le popolazioni barbariche germaniche portano una parola nuova. Al posto di Bellum portano verra.
Verra vuol dire letteralmente mischia. Dunque, un momento in cui tutti combattono all’arma bianca.
Non c’è la scienza della guerra, che è invece quella latina e che pretende raziocinio, tant’è vero che in primo luogo il bellum latino è matematico. La guerra dei barbari è una guerra dal corpo a corpo.
Allora vi domando se qui dentro non c’è una metafora degli Stati al presente, dove è saltata la dinamica delle relazioni e dove ogni Stato partecipa a questa mischia a modo proprio. Allora, questo retaggio germanico forse dipinge bene questo nostro presente disordinato, caotico, selvaggio.
Vengo alla parola pace. La parola pace invece sta dentro alla radice di una parola sanscrita, pak, pag, e guardate che curiosamente è la stessa che origina pagare ma origina anche patto e anche Pax Latina.
Allora questo segnavia ci viene a dire che la pace non esiste. La pace è un esercizio è un negoziato, è la sospensione della guerra laddove ci sono posizioni differenti che vengono composte dentro a un patto.
E la pace, dunque, l’esito di un processo, l’esito di un processo nel quale non ha responsabilità soltanto il signor Ministro, ma abbiamo responsabilità tutti noi in una logica di vigilanza e cioè di ripresa delle nostre coscienze, della nostra capacità di restare vigili. L’antitesi di guerra non è soltanto pace, l’antitesi di guerra è cultura ed è politica.
È coscienza civile, è responsabilità soggettiva e che diventa responsabilità collettiva in momenti come questi. Tutto con perseveranza.
Questa è l’ultima parola che vi dico.
Dentro a perseveranza c’è severo e cioè con rigore, con costanza e perseveranza sta per dire a lungo tutto il tempo che ci vuole per cercare la pace insieme.[…]
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