Quarantacinque anni dalla tragedia di Vincenzo Paparelli, il meccanico tifoso della Lazio che venne colpito in pieno volto da un razzo a paracadute sparato dalla curva romanista e morì dopo atroci sofferenze. Quarantacinque anni, un tempo sufficientemente lungo per riflettere su cos’abbia rappresentato quel dramma che non fu solo sportivo ma anche politico e sociale. Era, infatti, la Roma che usciva a pezzi dagli Anni di piombo, la Roma in cui erano stati assassinati Pier Paolo Pasolini, il giudice Occorsio e il centrocampista biancoceleste Luciano Re Cecconi. Era la Roma che l’anno successivo avrebbe pianto sulle bare di Valerio Verbano, giovane militante di Autonomia Operaia probabilmente assassinato da un gruppo di neo-fascisti, e il giudice Mario Amato, anche lui vittima dell’eversione nera.
Era la Roma che aveva assistito, attonita, ai tre morti di Acca Larentia e all’orrore del delitto Moro. Era, insomma, una città stanca, delusa, sfinita, bisognosa di pace e tolleranza, di rispetto reciproco e di giustizia. Anche per questo quel meccanico che si era recato allo stadio con la moglie Wanda per assistere al derby divenne il simbolo di tutto ciò che la gente non era più disposta a sopportare. Fu il nostro Heysel, sei anni prima dell’abisso cui assisteremo in terra belga, con la furia degli hooligans del Liverpool che spazzò via trentanove tifosi juventini e una partita surreale che si disputò con oltre un’ora di ritardo rispetto al previsto solo per motivi di ordine pubblico. L’omicidio di Paparelli, inoltre, precedette di dieci anni l’incubo di Sheffield, il rogo nel quale trovarono la morte novantaquattro tifosi del Liverpool, stavolta nei panni delle vittime, dal quale ebbe inizio il cambiamento radicale del calcio inglese.
Paparelli è stato, dunque, il precursore di altri lutti, uno spartiacque fra il decennio in cui la politica era tutto e il decennio in cui la politica ha smesso di essere qualcosa. Ha sconvolto il mondo del calcio, privandolo della purezza che ancora, forse erroneamente, gli attribuivamo e spazzando via per sempre la concezione nobile e un po’ romantica dello sport come momento di svago e di inclusione. C’è stato un prima e un dopo, e il dopo è quello che vediamo ogni giorno.
Oggi, infatti, non esiste più la tifoseria ma la furia: ci sono delle eccezioni, certo, ma le curve sono diventate per lo più zone franche senza Stato né legge nelle quali si è infiltrato di tutto, anche perché chi avrebbe dovuto contrastare questa deriva, di fatto, si è arreso. Ormai, spiace dirlo, la violenza la fa da padrona e nessuno sembra avere intenzione di riprendere il controllo di quella terra di nessuno in cui prospera l’illegalità e dalla quale, di conseguenza, sta scomparendo la passione autentica. Si continua a ripetere che bisognerebbe riportare le famiglie allo stadio, ma è pura ipocrisia. Un genitore non può correre il rischio di fare la fine di Paparelli o di trovarsi in mezzo a scontri, tafferugli e barbarie d’ogni sorta, pur sapendo che questo abbandono equivale a una resa incondizionata a chi ha trasformato il calcio nel proprio sfogatoio o, peggio ancora, nel terreno ideale per riciclare denaro sporco e interferire nella vita delle società attraverso attività non solo illecite ma lesive della correttezza stessa dei campionati.
Minacce, ricatti, umiliazioni, sostenitori costretti ad abbandonare le tribune per non subire ripercussioni, rapporti intollerabili di calciatori e dirigenti con personaggi con i quali mai avrebbero dovuto interloquire, poche denunce e la sostanziale acquiescenza dell’opinione pubblica e persino di una parte dei mezzi d’informazione: a questo siamo arrivati. Ebbene, tutto è iniziato quella maledetta domenica di quasi cinquant’anni fa, nel pieno di un autunno romano situato alla fine dei Settanta e alla vigilia degli Ottanta, al confine fra due epoche che più diverse non avrebbero potute essere, nel cuore di un declino già in atto e adesso giunto a compimento.
Ricordare Vincenzo Paparelli, i suoi trentatré anni, la sua passione autentica, la sua genuinità e il dolore di quanti gli volevano bene è, pertanto, un modo per ragionare su noi stessi, su come siamo cambiati da allora e su quanti passi indietro abbiamo compiuto. Per non dimenticare ma, soprattutto, per prendere coscienza del fatto che il calcio, almeno quello che abbiamo amato e nel quale abbiamo creduto per decenni, non esiste più. Esiste il business ma è un’altra cosa, e non sorprende che piaccia quasi esclusivamente ai malavitosi, agli affaristi senza scrupoli e a pochi ingenui come noi che ancora non si rassegnano all’idea che sia tutto finito.
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