Avete presente quel ragazzo non ancora maggiorenne che da piccolo giocava per i vicoli di Bari Vecchia, in un contesto di degrado e fra mille difficoltà? Avete presente il suo sorriso beffardo e impertinente, il suo sguardo incredulo, la sua corsa a perdifiato, le sue braccia al cielo e la luce che gli brillava negli occhi quella sera? Allora, forse, quest’articolo fa per voi. Parliamo di Antonio Cassano e di un gol in particolare: quello del 2 a 1 che i pugliesi, allenati da Antonio Fascetti, inflissero all’Inter di Marcello Lippi il 18 dicembre del ’99, nell’anticipo dell’ultimo turno prima della sosta natalizia di un campionato che per i nerazzurri era partito in maniera trionfale, salvo poi trasformarsi in un calvario. Ebbene, nella salita sul Golgota, una delle stazioni più significative riguarda il San Nicola di Bari, dove al quarantatreesimo del secondo tempo di una gara che i meneghini avevano riacciuffato grazie a Vieri, dopo il gol iniziale di Enynnaya (l’altro enfant prodige della compagine biancorossa, la cui cartiera purtroppo non ha mantenuto le premesse), Antonio da Bari Vecchia si portò avanti la palla con il tacco (lancio di Perrotta), ingannò con una movenza delle sue Panucci e Blanc, non proprio due sprovveduti, e infilzò l’incolpevole Ferron.
Bari in paradiso e Inter all’inferno, con tutti i riflettori puntati su quel talento maledetto che negli anni successivi ne avrebbe combinate di ogni, gettando al vento, o quasi, una carriera che a diciannove anni lo aveva condotto alla corte di Capello, in una Roma tra le più forti di sempre, e a ventitré addirittura al Real Madrid, là dove molti pagherebbero di tasca propria per giocare. Di Cassano e della sua follia esistenziale, tuttavia, ce ne siamo già ampiamente occupati.
Qui vogliamo fermare il tempo e tornare a quella notte di gloria, a quel giorno indimenticabile, a quel sogno che si materializzò all’improvviso e lo indusse a pensare, con la saggezza tipica degli scugnizzi cresciuti per strada, che da quel momento in poi avrebbe smesso di essere povero. Cassano segnò quel gol per portare sua madre Giovanna, che lo aveva cresciuto fra mille sacrifici, fuori dall’indigenza. Lo segnò per dire grazie a Fascetti, che è stato uno dei pochi allenatori a credere veramente in lui e a sapere come prenderlo. Lo segnò per gridare al mondo che esisteva anche lui, che anche lui aveva una dote e che non si sarebbe lasciato sfuggire l’occasione di agguantare la vita e viverla da protagonista.
Pazienza se in seguito di occasioni ne ha gettate al vento tante. Pazienza se non ha capito come si sta al mondo, almeno a un certo livello, finendo col dissipare una grandezza, umana e sportiva, che avrebbe potuto fare la differenza. Pazienza, Antonio è fatto così e dobbiamo accettarlo per come è, tanto nessuno è mai riuscito a cambiarlo. Ma quella notte, quella notte di favole e poesia, ci resterà dentro per sempre. E ora che sono trascorsi venticinque anni, che un’era geologica è passata, che nulla è più come prima, che anche il calcio è cambiato, e non in meglio, e che di quella fiaba rimangono solo i ricordi, ora riavvolgiamo il nastro e torniamo a quel preciso istante.
Tutto il resto non conta, non qui almeno, perché quel gol vale una carriera. Ha rappresentato l’inizio e, forse, la fine di tutto, effimero come una rosa di Atacama, e come una rosa di Atacama meraviglioso, unico, inarrivabile. Del resto, Antonio da Bari Vecchia era così: o lo amavi o lo odiavi, o lo applaudivi o lo cacciavi. O magari entrambe le cose, a seconda delle circostanze. Perché Cassano quel bambino che gridava al mondo la sua sete di vita, in realtà, non lo è diventato mai.
Questo è il motivo per cui, da pasoliniano involontario, da “Accattone” fuori dal tempo, da “ragazzo di vita” nato ai bordi della società, da epigono di una tradizione letteraria e cinematografica che magari non conosce ma nella quale si rispecchierebbe pienamente, questo è il motivo, dicevamo, per cui il bambino dai lineamenti dolci e spigolosi al tempo stesso giocò, segnò, esultò e non si trasformò mai in leggenda. Antonio, d’altronde, ha avuto senso solo quella notte, il resto è stato contorno: un bel contorno ma non il centro della scena. Eppure, quella notte basta per dirgli eternamente grazie, bruco che non divenne mai farfalla per poter ricominciare all’infinito a sognare.
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