Rivedendo in tv una messinscena di Uomo e galantuomo di e con Eduardo, scritto nel 1922, cinque anni dopo il pirandelliano Così è (se vi pare). Simulare la pazzia risulta preferibile all’ammissione di adulterio, specie se subìto, le corna essendo un’accusa più grave rispetto a quella della demenza. “Lallarallalì lallarallalà”, la filastrocca esibita quale espressione della follia. E la parola gentiluomo ricorre come un mantra antifrastico, dagli effetti esilaranti e depressivi. Fa un certo effetto vedere nel teatro di Eduardo trame ricorrenti in cui il protagonista sceglie di perdere la propria voce, provvisoriamente o per sempre. Così avviene in Mia famiglia, così ne Gli esami non finiscono mai. Allora, il volto ossuto, quasi presago del teschio che vi si cela, sembra ancora più scarnificato, e le orbite grandeggiano nel silenzio cupo che si impone in scena. In più, dove può, soddisfa il gusto della battuta finale, mentre si chiude il sipario e termina il flusso del copione. Filumena Marturano, ad esempio, che già aveva covato questa propensione alla fine del secondo atto con la battuta canonica “I figli non si comprano”, trova nell’epifonema della protagonista, inno alla gioia del piangere, una sorta di ossimoro emotivo, un’apoteosi in tal senso. E funziona ancora, se rivisto dopo tanto tempo riesce a commuovermi di nuovo. Ed è questa la scienza del popolare, ossia una scrittura esperta nel comunicare e nel far coincidere l’espressione di sé e la ricezione da parte dell’altro.
Pistolotto finale femminile in Candida di Shaw, inaugurata nel 1897. Qui, la protagonistatiene un sermone in cui sceglie tra il marito prete anglicano e l’acerbo a passionale poeta giovinetto.Irresistibili le associazioni con Mirandolina nella Locandiera goldoniana, o con Siora Felice nei Rusteghi sempre dell’avvocato veneziano. Ovvero, spesso si lascia la parola finale che rimette ordine alle cose, le semplifica e le rende più accettabili secondo verosimiglianza e buon senso proprio alle donne. Quasi fosse in tal modo sancito il trionfo muliebre, o meglio prendesse la parola una Madre amorevolmente severa e capace di proteggere ma anche di guidare l’uomo bambino.
La Signorina Austen sia in Persuasione, edita postuma nel 1818, che in Mansfield Park del 1814 presenta una coppia di sorelle impegnate nel cercar marito, con il candidato pendolare tra le due, che si tratti di un personaggio serio o di un cascamorto zerbino. Alle spalle del triangolo sta ferma, malinconica e sottovalutata, una riedizione di Cenerentola, di fatto la protagonista, proiezione fiabesca e idillizzata della scrittrice, destinata ai trionfi finale, ovvero il matrimonio coll’oggetto amato. Ma in Mansfield Park, dove si assiste a uno spettacolo teatrale da salotto aristocratico, com’era usanza nelle case di mia nonna materna e dei suoi amici, una delle virtù di Fanny Cenerentola, parente povera destinata al finale trionfo, ossia al matrimonio col cugino Edmund, quasi un para-incesto, risiede proprio nel disgusto verso le attività sceniche, non si sa se per divisione dei campi (ama il teatro, ma fatto dai professionisti, come la pensa il futuro marito) o se per antiche diffidenze puritane. In più, sia Fanny che Edmund, durante la preparazione da parte degli altri dello spettacolo in salotto non fanno che provare imbarazzo e sconcerto. Se Edmund per l’infatuazione provata nei riguardi della bella Miss Crawford finisce per accettare una parte, Fanny resiste impavida nel rifiuto col timore che grazie al teatro si entri in intimità, ragione per cui il pericolo maggiore risiede nel fare entrare nel cast un estraneo e nel mostrare poi l’opera al vicinato. Quando rientra dopo due anni lo zio, Sir Thomas, il baronetto, la teatrofobia viene ribadita con vigore assoluto, quasi il Dio veterotestamentario che interrompa giochi regressivi e viziosi nel Paradiso Terrestre. Il teatro, ribadisce costui, procura solo rumore e altera l’arredo, porta insomma disordine nella casa per bene. La demonizzazione del gioco del teatro che portato dentro casa rischia di distruggerne le fondamenta morali prosegue quando a difenderla si erge il giovane, corrotto e corruttore Henry Crawford, il quale non pago di aver sedotto le due cugine di Fanny si confida colla sorella e le svela il progetto di innamorare di sé quest’ultima. Insomma, Cenerentola incappa nel duetto infame di Les liaisons dangereuses, senza la leggerezza empirica del romanzo settecentesco, in un sovraccarico viceversa di giudizi manichei. Si esalta inoltre l’amore fraterno, cui inneggia la scrittrice, superiore agli stessi legami coniugali. Allorché infatti arriva nella magione dello zio il giovane marinaio William, e abbraccia Fanny dopo sette anni di lontananza, l’abbraccio tenero e passionale turba lo stesso villain, il crudele Crawford, deciso a perpetrare i suoi loschi progetti di seduzione.
Nel tempo degli dei. Il calzolaio di Ulisse, del 2019. Lo vedo, Marco Paolini e provo sentimenti intensi e contrastanti. Ammirazione davanti al suo corpo molleggiato, alla cadenza perfetta della voce misurata a tenere maratone senza affanno. Flessuoso nonostante gli anni che avanzano anche per lui, specie nella danza sirtaki, con sinuosi accenni e un controllo della fisicità esemplare. Perplessità davanti al suo ricorrere a musicisti e attori, una compagnia orchestrale, con qualche opacità nella resa recitativa e slabbrature imbarazzanti. Non si fida più sulle sue sole forze, forse. E anche la drammaturgia, come di consueto congiunta con Francesco Niccolini e la regia sapiente di Gabriele Vacis, con passaggi astuti e bene snodati, ma altri arrugginiti, un Savinio in versione bonsay, non mi convince e non mi prende del tutto. Ma la luce c’è sempre, e mi sento serenamente inferiore davanti a tanta esperienza professionale. Notata anche in fondo ai titoli la sinergia produttiva tra varie Istituzioni, a partire dal Piccolo di Milano. Significa che Paolini è ridiventato un affare nel mercato teatrale nostrano. Sullo sfondo però vigila pure la Iole, ossia la Michela che l’ha sposato e che forse controlla anche i rapporti tra il marito e la scalpitante attrice che interpreta tutte le varie facce delle donne di Ulisse.
Gli sposi della Tour Eiffel di Chagall, datata 1939, ovvero inizio della seconda guerra mondiale, oltre al solito moto ascensionale che innalza i due protagonisti dalla scena rituale delle nozze posta in basso e in miniatura, esibisce elementi espliciti di una falloforia, col maschio che incalza la donna passiva, consapevole e rassegnata, più che consenziente alla lettera. Sembra quasi chiudere gli occhi, lei, mentre lui le si struscia addosso, a cercare posture propizie al prossimo accoppiamento. E intanto intorno uccelli di varie dimensioni si librano e gonfiano le ali, e angeli si innestano in tutte le direzioni, con violini e violoncelli a sfiorare chiome di alberi e teste di tori. Un sole freddo fatica a scaldare la base del monumento col suo arco alla base, come un possente tronco che spalanca le sue due braccia a terra, a tentar radici.
Piazza degli eroi di Thomas Bernhard, suo copione testamentario del 1988. La consueta prolissità del discorso, che rumina poche idee, stereotipi ideologici, avversioni famigliari. Eppure la ridondanza non esclude tecniche musicali, con frasi che tornano come le nuvole e una mirabile capacità di riflettere guizzanti spostamenti di umore. In più ebrei suicidi e ebrei ossessionati dal boato dei nazisti sotto le finestre aprono alla situazione di oggi, quando la Storia a sua volta sembra ripetersi, come un incubo che ritorna. La vedova nella scena finale, colla cena di congedo, dopo il funerale, se ne sta colla bocca spalancata, a furia appunto di sentire la voce folle di Hitler e i boati di consenso delle SS e della folla inneggiante. Quasi una citazione di Munch.
Menzogna e sortilegio, romanzo di Elsa Morante, datato 1948. Trovo dentro il vecchio libro una dedica di mio padre a mia madre: “A te che non mi hai mai mentito ma solo stregato”. Frase molto fiduciosa, e insieme gonfia di retorica commovente. 1951 l’anno della ristampa del testo e della dedica del padre. Quando il fratello era da pochi mesi nato ed era ancora sano e tutti eravamo felici, forse, e innocenti. Almeno lui. La lingua sontuosa di Elsa, un ricamo fitto e dettagliato, lentissimo nella progressione. Un pulviscolo abbagliante. Non mancano modelli da novella tardo ottocento, ramo verghiano e dintorni. E prelievi espliciti dalla Prefazione dei Sei personaggi in cerca d’autore e appelli al lettore di cervantesiana memoria. Il passato dei morti che tornano nell’isolamento della protagonista, assediata da fantasmi a furia di selvatichezza e isolamento. In più, virginale e casta, allevata da una puttana in una casa bordello. Anche la guerra dei due mondi, lo scontro coniugale, i segreti e le tensioni che affiorano nella coppia parentale rimandano all’agrigentino, con annaffi di Strindberg. Ma nel racconto della vecchia nonna, pure lei insofferente del proprio marito, nella rievocazione dello spasimante ufficiale austriaco, vestito di bianco, un involontario omaggio accorato all’amato Visconti da parte dell’autrice, al Visconti di Senso, il film del 1954. Romanzo di formazione, anche, con grumi picareschi, Elisa bambina che rievoca la nonna e la madre e il nonno ubriacone allampanato come il Cavaliere della triste figura per nebbiose osterie serali. Si aprono parentesi su parentesi, nella ricostruzione del passato, con squarci novellistici per ogni grado di parentela. E fissazioni e manie destabilizzanti incalzano le vittime-carnefici, nella forza creativa dell’immaginazione. E intanto la prosa procede con volute ampie, come onde che vanno e vengono. Il climax viene raggiunto forse nella follia d’amore di Elisa vittima delle sevizie e dei capricci del cugino Edoardo, ricco, bello e impossibile, divinizzato dalla vittima. La progressione arriva a illimpidirsi nella iterazione dei tempi verbali imperfetti che mandano aromi manzoniani, una prosa che accumula dettagli in un crescendo angosciante per poi rallentare all’improvviso grazie a pause compiaciute. Il lessico accentua in questi casi la sua patina d’antan, spargendola intorno con astuzia compulsiva.
Atti unici curati allo Stabile Veneto nel 2021 da Damiano Michieletto, mio laureato con una tesi di Gabriele Vacis. Nella cucitura dei due atti cechoviani, La domanda di matrimonio e L’orso, il cameriere raisonneur che funge da saldatore pare uscito da Wilkie Collins, e si muove gibboso e zoppicante come una esplicita citazione da Frankestein junior di Mel Gibson. Ma anche un sospetto del Firs del Giardino strehleriano.
Trilogia della città di K. della scrittrice ungherese naturalizzata svizzera Ágota Kristóf, uscita nel 1986. Il mito del fratello, reale e immaginario, in tempi cupi di guerra e di sconfinamenti nel paesello ungherese, con città che diventano campagne all’improvviso, tra lutti e di solitudini, mi penetra dentro come una bevanda alcoolica. Costruito con punti di vista diversi lungo progressioni delle tre parti. Sanatori, orfanatrofi, carceri, spazi del disagio e della sofferenza contrapposti a librerie e cartolerie quali piccoli paradisi provvisori. Ma è il cimitero il luogo canonico a farla da padrone.
Romeo e Giulietta del National Theatre, un’astuta e accattivante versione serie Netflix 2021, regia di Simon Godwin, per non perdere per strada nemmeno un follower social e garantire un’audience under twenty. Ovviamente, attori molto trendy, siamo sempre nella British tradition, a partire dal Romeo uscito fresco fresco dal Carlo di The Crown. Il teatro qui si inabissa in un’insalatona iconica sveltita, scene teatrali impoverite all’insegna del metateatro, compagnia che prova, ma penso al film sublime Vanja sulla 42 strada del francese Louis Malle e sceneggiatura di David Mamet per tracciarne un desolante confronto. Un senso di povertà, di bignami, di plastica, insomma. Forse sono ancora sotto lo stress febbrile del secondo richiamo del vaccino pfizer.
Letto, anzi divorato E adesso, pover’uomo di Hans Fallada, datato 1932. Epopea della disoccupazione, un sentore di sceneggiato televisivo anni ’50 alla Anton Giulio Maiano, un aroma di addobbi natalizi-dickensiani, un che di familistico, di ricezione adolescenziale. E la irresistibile propensione a immedesimarsi nel protagonista, o meglio nella coppia dei protagonisti, un Adamo ed Eva prima della cacciata, di cui vorrei, magari inconsciamente, essere figlio. Insomma la tentazione di una vita normale e di storie popolari per tutti. In più, alcune scene di stress fastidioso e insieme gradevolissimo, il piacere confortante di assistere al naufragio standomene comodo e sicuro sulla riva.
Visto al Teatro Goldoni nel novembre del 2021 il remake da parte dello stesso Bob Wilson dello spettacolo datato il lontano 1977 di I was sitting on the patio. I soliti brand del regista texano, lo slow motion e la tendenza degli attori a posture bidimensionali per consentire figurazioni seducenti nel gusto estetizzante della visual art. In più, l’algido splendore dei due interpreti. Più danzerini che attori, in verità, conciati colle consuete fogge alla Magritte, e il flusso, lo stream verbale che rimbalza tra l’uno e l’altra, quasi neuroni a specchio tra di loro, tra la prima e la seconda parte, che profuma di lasciti joyciani e beckettiani, frammenti di conversazione autoreferenti da cui il pubblico è di volta in volta incuriosito e irritato. Di negativo, quell’aria snob cosmopolita, che rende questa scena fascinosa e lontana come una sfilata di alta moda, tra Milano e New York, legata a gerarchie nel mondo prima che arabi e cinesi irrompessero a sovvertire canoni e mercati.
Vitaliano Trevisan, un talentuoso scrittore vicentino affermato, si è tolto la vita a poco più di sessant’anni, nel gennaio del 2022. Gli ultimi tempi era via di testa, entrava e usciva da case di cura per disagio mentale. Lo invidiavo e temevo per la sua durezza e gli sgarbi compiaciuti. Faceva parte del suo standard caratteriale. Questo nonostante l’avessi invitato e fatto pure pagare in un evento dedicato al teatro veneto. Per tutta risposta, appunto, questa esibizione di malanimo e di estraneità. Pubblicava con disinvoltura quello che voleva nelle massime case editrici. Ma non provo nessun dolore, nessun turbamento, davanti a questo lutto, nessuna solidarietà. Del resto, si fossero rovesciate le parti, fossi morto io come avrebbe reagito Trevisan stesso? Una smorfia, un cenno a indicare l’insignificanza della notizia. E dunque.
Intervenuto in streaming a un convegno (ennesimo) dannunziano. Ho parlato in fretta, mangiandomi in certi passaggi le parole, suscitando entusiasmo nei non addetti e perplessità e invidie nei colleghi. Poi nella giornata di oggi, dopo una faticosa escursione all’ospedale di Negrar per un controllo agli occhi della moglie, leggo una novella milanese, datata 1883, Tentazione di Verga, su suggestione di un articolo di «Repubblica». Rimango folgorato dalla bellezza petrosa e scarnificata del breve testo, storia di uno stupro, seguito da assassinio, da parte di ragazzi su una contadina incrociata di sera tra i campi. Mi chiedo se un’intera esistenza dedicata a Pirandello e D’Annunzio non sia sprecata, data la superiorità inesorabile del primo rispetto ai secondi, pallidi epigoni se non imitatori. Ogni parola al suo posto, grappoli di immagini incalzanti, lirismo e orrore intrecciati, sospensione di giudizio, senza arzigogoli dialettici dell’agrigentino, o le amplificazioni barocche del pescarese. Il giorno dopo mi avventuro nella raccolta Don Candeloro e C, in particolare sul racconto Il tramonto di Venere. Cambiano l’impianto, il contesto, i registri. Nessuna tragedia, ma solo fatuità e vanità femminile, una star della danza avviata sul viale del tramonto e alle prese con uno zerbino cascamorto, don Giovanni gigolò che la strappa dai letti di sovrani per intristirla tra gelosie possessive e rivali sul palco e nei favori del giovanotto. Ma la medesima sospensione di focus prospettico, di giudizio morale, una diffusa centrifugazione del punto di vista attraverso lo stile indiretto libero, concesso di volta in volta ai protagonisti. Magistrale, l’utilizzo di fraseologie e di lemmi tolti alla librettistica operistica, al melodramma, di cui ricalca la vicenda, sino a citare apertis verbis la Traviata. Solo che non la tubercolosi ma la vecchiaia funziona qua da volano a far precipitare equilibri e privilegi. E una paradossale pietas assale lo sfruttatore, che si vanta nel finale di pochi gesti compassionevoli verso la donna ormai relitto sociale e abbandonata in ospedale. E qui, la protagonista subisce la messa totale in terza persona, il ridimensionamento oggettivo che in Verga la curva esistenziale assegna quale condanna democratica, ossia inflitta a tutti, ad ogni personaggio. Questa la lezione ancor oggi recuperabile della scuola verista. Il piacere della lettura prosegue e aumenta al limite passando alla novella Gli innamorati, dal titolo goldoniano, e declina questo motivo con un ritmo frizzantino. Frasi brevi, tagliate, sentenziose che mescolano passione dei corpi e appetiti della roba, il denaro ossessione di padri oculati e di figli dall’ormone in moto. Ambienti rusticani mettono in luce come funziona la macchina del mondo, mentre e l’ironia si mimetizza davanti alla falsità delle promesse e agli stereotipi del machismo, preso alla fine a pedate.
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