Il grande festival del Kumbh Mela si terrà nella città di Prayagraj (già Allahabad), nello stato indiano dell’Uttar Pradesh, dal 13 gennaio al 26 febbraio 2025. Durante i 45 giorni del festival è prevista la presenza di più di quattrocento milioni di pellegrini. Un mese prima dell’inizio del grande evento religioso, il primo ministro indiano Narendra Modi si è recato a Prayagraj dove ha dato il via a 167 progetti per lo sviluppo della città santa per un valore complessivo di 55 miliardi di rupie. «L’India – ha detto Narendra Modi – sta rapidamente raggiungendo l’obiettivo di diventare un paese sviluppato. Il grande Kumbh Mela di Prayagraj del 2025 svolgerà un importante ruolo a questo riguardo. Sarà un mahayagya (grande rito) di unità nazionale e porterà l’identità culturale e spirituale del nostro paese a un livello ancora superiore». Il primo ministro ha anche ricordato l’importanza storica dell’evento e ha aggiunto che «per secoli veggenti e saggi hindu hanno usato questa piattaforma per discutere problemi di interesse nazionale e offrire una valida guida all’intero paese».
Sabato sera
Sdraiato sulla panca bassa di un vagone del Tinsukia Mail, ero in attesa dello strattone con cui, di lì a poco, il treno si sarebbe messo in movimento. Erano le dieci. Il venditore di paan camminava sempre più in fretta lungo i finestrini. Aveva una cassetta piatta di legno appesa al collo. Dentro vi teneva le foglie di betel che gli indiani masticano con avidità. Osservai i miei compagni di viaggio e, improvvisa, ebbi la sensazione di essere salito sul treno della morte. I piedi piccoli e magri di un uomo sporgevano nel corridoio come dalla sua pira funeraria. Figli e nipoti lo salutavano toccandogli le gambe. Portavano poi alla fronte le mani congiunte in segno di rispetto. Nello scompartimento vicino c’era una vecchia con la voce da bambina. Aveva il seno avvizzito fasciato da una sari gialla. Nel Rig Veda è scritto che chi abbandona il proprio corpo nella sacra confluenza del Gange e dello Yamuna ottiene il moksha, la liberazione dal ciclo delle rinascite. Il Sangam di Prayagraj è il punto in cui le acque limacciose del Gange si uniscono a quelle azzurre dello Yamuna. È chiamato anche Triveni, la confluenza di tre fiumi. La corrente sotterranea di un terzo fiume, il mitico Saraswati, si unirebbe qui agli altri due che scorrono in superficie. Il Sangam è il luogo più sacro dell’India. Molti passeggeri del Tinsukia Mail erano diretti al Kumbh Mela di Prayagraj. Qui, dopo aver incontrato gli asceti, avrebbero fatto il bagno nel Sangam e avrebbero ottenuto così la liberazione dal ciclo di otto milioni e quattrocentomila rinascite.
Il Kumbh Mela è la più grande assemblea religiosa del mondo, una sorta di concilio ecumenico della religione hindu. Le sue origini sono raccontate nei Purana, gli antichi testi sanscriti. Su consiglio del dio Brahma, dèi e Asura, gli antidèi, si misero ad agitare le acque dell’Oceano Celeste. Cercavano il vaso (kumbha) contenente l’amrita. Quando dalle acque comparve il medico Dhanvantari con in mano il prezioso recipiente, tutti volevano bere il nettare per primi. Fu allora che Jayanta, figlio di Indra, si trasformò in una roccia e sottrasse l’elisir dell’immortalità agli occhi degli antidèi. Per trasportare il vaso in cielo, Jayanta impiegò dodici giorni. Fece tappa in quattro luoghi che, da allora, divennero sacri: Prayagraj, Haridwar, Nashik e Ujjain. È in queste quattro città che, ogni dodici anni, si celebra il Kumbh Mela.
Una volta in movimento il Tinsukia Mail si riempì delle voci ovattate e dei rumori sordi di tutti i treni passeggeri del mondo. Dal finestrino si vedeva solo il buio della notte. I capelli bianchi del vecchio della panca numero 35 oscillavano leggermente col rullare del treno sulle rotaie. Nel corridoio passarono due poliziotti. Avevano il cappotto e il basco color cachi e il fucile a tracolla. Alle quattro e trenta di notte, subito dopo la città di Kanpur, dal finestrino vidi un grande bassorilievo colorato. Era illuminato dalle luci al neon. Mostrava il dio scimmia Hanuman che, dall’Himalaya, volava verso Sri Lanka. Aveva in mano le erbe medicinali che serviranno a curare il dio Rama. Nel vagone i passeggeri cominciarono a svegliarsi. Tossivano e sputavano. Attraverso le quattro sbarre orizzontali del finestrino, entrava la luce pallida dell’alba di Prayagraj. Con un sussulto il treno arrestò la sua corsa. Alcuni abitanti della città santa di Prayagraj, accovacciati su un binario morto, a braccia conserte e con accanto il pentolino dell’acqua, defecavano dall’alto dei quindici centimetri della rotaia.
Domenica mattina
Alle sette la stazione di Prayagraj era già inondata di pellegrini. Nell’atrio della stazione alcune donne asciugavano all’aria le loro sari sottili. Molti dormivano con la testa appoggiata a dei sacchi di iuta. Una vacca si aggirava ciondolando tra la gente. Negli angoli dell’edificio, il sacro animale cercava i resti di qualche foglia di betel sputata sul pavimento assieme a un fiotto di saliva rossa. All’esterno, le strade erano sbarrate da lunghe canne di bambù. Sotto un tendone militare migliaia di fedeli venivano vaccinati contro il colera. Anni addietro, probabilmente, l’architettura di Prayagraj, ricca di balconcini, torrette e grigliati, aveva un aspetto fresco e grazioso. Ora, i suoi edifici erano fatiscenti, corrosi dal tempo e dal monsone. Prayaga, significa “il luogo della purificazione”. Dopo aver creato l’universo il dio Brahma, per purificare l’atmosfera, fece qui un grande sacrificio. Il primo riferimento storico al Kumbh Mela risale all’anno 644 d.C. In quella data, il viaggiatore cinese Xuanzang, in visita presso la corte del re indiano Harsha-Vardana, partecipò al festival di Prayagraj. Con lui c’erano altre cinquecentomila persone. Ma S.B. Roy, direttore dell’Institute of Chronology di New Delhi, si dice in possesso di documenti storici che retrodatano il Kumbh Mela di Prayagraj al 302 avanti Cristo.
Mi accodai ai fedeli che, con i sacchi delle masserizie sulla testa, si dirigevano verso il Sangam. Per molti di loro, poverissimi, moksha voleva dire semplicemente la speranza di liberazione dalla miseria, dalle malattie, dalla fame. Agli angoli delle strade i poliziotti, con i megafoni, gridavano: «Avanti, avanti». Migliaia di pellegrini sfilavano in silenzio. Si sentiva solo il fruscio che accompagnava i loro movimenti mescolarsi al suono delle cavigliere delle donne. Molte camminavano scalze. Un tridente di Shiva, con un fiocco rosso e la collana di cento e otto perle, spuntava sulla massa oscillante dei sacchi e dei cesti che la gente portava sul capo. Passò un gruppo di uomini con il cranio rasato. Avevano solo una ciocca di capelli che pendeva loro dalla nuca. Una bambina con un piccolo bracciale di perle di corallo, stava seduta a cavalcioni sulla spalla della madre. Con i grandi occhi segnati dal nerofumo guardava stupita il mare di teste che la sommergeva. Passò un calesse carico di donne. Con le voci sottili cantavano una canzone in onore della Madre Ganga, il fiume Gange:
Placa la mia anima inquieta, o Ganga,
Con la tua profonda pace,
E le mie stanche membra,
Con le tue acque benedette.
Domenica pomeriggio
Sulla riva destra del Gange erano accampati centinaia di sadhu. Yogi, sanyasi, sant, muni, swami, baba, sono tutti sinonimi della parola “sadhu”. I sadhu, abbandonata la vita mondana, il samsara, praticano l’ascetismo per raggiungere nel più breve tempo possibile il moksha, la liberazione. L’iniziazione di un sadhu è una cerimonia lunga e complessa. Durante questo rito, al sadhu viene anche chiesto di celebrare il proprio funerale. Quando l’asceta morirà veramente, il suo corpo, invece di essere cremato, verrà gettato nelle acque di un fiume. I cento e otto bagni votivi effettuati durante un Kumbh Mela costituiscono l’ultimo atto della sua iniziazione. Durante il Kumbh Mela i sadhu fanno da guida spirituale ai fedeli. Assumono anche il ruolo di consiglieri e legislatori dell’intera società. Fu nel IX secolo che il santo e riformatore dell’hinduismo Adi Shankaracharya conferì al Kumbh Mela l’importanza che ancora oggi detiene. Adi Shankaracharya esortò gli asceti a incontrarsi in occasione di questo grande festival. Al Kumbh Mela di Prayagraj partecipano i sadhu di tutta l’India. Ci sono gli urdhwavahu con i corpi emaciati dai lunghi digiuni. Hanno un braccio atrofizzato, reso inservibile da un volontario disuso. Meditano per ore nelle acque gelide del Gange, con gli occhi rivolti al sole. Ci sono i sadhu nagache vivono nudi durante tutto l’anno. Ci sono i parivarajaka che suonano di continuo i cimbali. I mauni che hanno fatto il voto del silenzio. Gli shirshasani, che rimangono sempre in piedi e dormono appoggiati a un palo. Gli avadhuta, che rifiutano qualsiasi disciplina.
Una bandiera a strisce orizzontali nera, gialla, grigia, bianca e rossa, segnava l’ingresso a un campo vaishnava. Il loro dio tutelare è Vishnu, il protettore del creato.
I corpi nudi di centinaia di sadhu erano avvolti dalla luce calda del sole al tramonto.
Seduto a gambe incrociate, con i piedi che gli coprivano i genitali, un sadhu soffiava sulla mano e indirizzava l’alito verso due tizzoni accesi. Poco distante un altro sadhu stava in una posizione yogica con le palme delle mani rivolte al cielo. Aveva i capelli lunghi e legnosi e, disegnata sulla fronte, una U con la parte ricurva all’altezza delle sopracciglia. Accanto a lui, sulla sabbia, c’erano due pesanti molle di ferro e un recipiente per l’acqua ricavato da una zucca essiccata e vuota. Era tutto quello che possedeva su questa terra. Oltrepassato un percorso in discesa che portava alla riva del Gange, c’era il campo degli shaiva. Un tridente conficcato a terra era il segno inconfondibile degli adoratori del dio Shiva. Alcuni sadhu, nudi e con il corpo ricoperto di cenere, si erano scavati una fossa nella sabbia. Avevano la fronte segnata con tre linee orizzontali. Meditavano avvolti dal fumo accecante di un tizzone acceso. Passò un naga con le mani e le unghie dipinte di rosso. Camminava a fatica su due sezioni di tronco d’albero che gli facevano da scarpe.
Domenica sera
Alle sette il flusso di gente che da ogni strada d’accesso si riversava nel Kumbha Nagar, la città effimera del Kumbh Mela, si era fatto più spesso. Al centro della strada la sequenza ininterrotta di persone scorreva più rapidamente. Ai lati il flusso era rallentato dall’attrito della gente con i piccoli negozi che avevano trovato posto in rudimentali baracche di legno. Le ultime novità degli utensili da cucina, brillavano in un baraccone illuminato a giorno. Colini di materiale sintetico e dai colori fluorescenti. Grattugie di legno e latta. Frullini a manovella. Tagliauova sode con i fili di acciaio tesi da un telaio di plastica colorata. C’era il padiglione della Boroline, una «pomata antisettica profumata». Nei tre padiglioni successivi erano in vendita le sigarette Capstan, le pile Nippo e le torce elettriche Geep. Alcuni alberi di pipal, con il tronco multiplo e argentato, costeggiavano il breve tratto in salita che precedeva la piana sabbiosa del Kumbh Nagar. Sotto gli alberi secolari erano accampati migliaia di pellegrini. Avvolti in stracci e coperte dormivano stretti gli uni accanto agli altri per ripararsi dal freddo della notte. Sembravano intricate radici degli alberi che affioravano in superficie. Alla sommità della breve salita c’erano dei piccoli templi dedicati a Shiva. Poi, improvviso, apparve lo scenario fantastico della città del Kumbh Mela. Diluite nel buio umido, migliaia di luci intermittenti producevano un effetto vorticoso. C’era un grande portale d’ingresso con due shivalingam, il pene del dio Shiva, racchiusi in nicchie di cartapesta. Due teste colorate di elefanti facevano da capitelli. L’immagine rossastra dell’arco d’ingresso si sdoppiava negli acquitrini della riva sinistra del Gange. Lontane, le luci fluorescenti dello Shastri Bridge formavano due file irreali di stelle parallele. Illuminati a giorno gli ashram delle grandi sette dell’hinduismo traboccavano di fedeli. Dalle loro tende, assieme al profumo dell’incenso, uscivano i sermoni recitati di fronte a potenti altoparlanti, mescolati alla musica di armoni, cimbali e tabla. Era un’orgia di suoni, di luci, di colori.
Un triplo portale di bambù era decorato con il motivo del mango, del fiore di loto e dello svastika. La scritta “swagatam” dava il benvenuto ai fedeli.
Sotto una tenda, il dio Shiva e sua moglie Parvati erano seduti su due troni laccati con la vernice bianca e decorati con l’oro. Shiva e Parvati vestivano abiti sgargianti. Portavano sul capo due corone splendenti. Tenevano il busto eretto e il corpo immobile. Con una leggera rotazione degli occhi osservavano le centinaia di teste brune dei fedeli seduti ai loro piedi. Quando la tenda fu gremita, la recita ebbe inizio.
Scena prima. Dice una voce fuori campo: «Tra i pellegrini del Kumbh Mela si è sparsa la voce che chi domani, all’ora stabilita, farà il bagno nel Gange, si libererà di tutti i peccati. Otterrà così il moksha, la liberazione». Parvati, corrucciata, rimprovera Shiva: «Sei davvero il dio della compassione. Non c’è che dire. Concedendo il moksha così a buon mercato, non sei proprio tu a incoraggiare il peccato?». E aggiunge: «Quanti milioni di peccatori impenitenti approfitteranno della tua compassione? Chi sarà ancora così stupido da condurre una vita virtuosa sulla terra?». «Andiamo a vedere come stanno veramente le cose» le risponde Shiva con un sorriso beato.
Scena seconda. Shiva e Parvati vestono adesso gli abiti dei comuni mortali. Sono a Prayagraj, nei pressi del Sangam. Shiva si finge morto. Parvati piange e si dispera. Dice ai passanti: «Mio marito è morto. Ma il dio Shiva mi ha promesso che il mio sposo tornerà in vita se verrà toccato da qualcuno senza peccato». «Ma attenzione – aggiunge Parvati, – se qualcuno tocca il corpo di mio marito e non è senza peccato, morirà all’istante». La gente scuote la testa e se ne va. Arriva un uomo calvo e claudicante. O forse barcolla per il troppo alcol bevuto. Chiede a Parvati che cosa sia successo. Ottenuta la stessa risposta, dice: «Non ti preoccupare donna, sono qua io. Vado a fare il bagno nel Gange, mi libero dai miei peccati e torno da te. Farò resuscitare tuo marito». Arrivato al Sangam, l’uomo rivolto alla Madre Ganga dice: «Madre, sta bene attenta: adesso devi mantenere le tue promesse». Tornato da Parvati le dice: «Smettila di piangere, donna». Poi tocca l’uomo sdraiato a terra e, miracolo, si trova davanti il dio Shiva in persona. «Figliolo, sei davvero senza peccato» gli dice Shiva con il solito sorriso. «Hai ottenuto il moksha, la liberazione. Tra tanti milioni di pellegrini, solo tu ci sei riuscito». Sotto la tenda gli occhi dei fedeli brillavano estasiati.
Incontrai un amico giornalista. Mi disse che il Senato dei santi di tutta l’India aveva annunciato la propria decisione. Aveva accolto all’unanimità la proposta di mettere al bando in tutto il paese l’uccisione della vacca sacra. Veniva così confermata una legge risalente all’Impero Gupta (III secolo d.C.) che stabiliva che uccidere una vacca era mahapataka, un sacrilegio. Camminai lungo un percorso parallelo alla riva del Gange. Tutti si stavano dirigendo verso un grande tempio situato sul lato destro della strada. Il tempio era dedicato ad Hanuman. Gli altoparlanti ripetevano incessantemente l’invocazione «Sita Ram». Uomini e donne facevano ressa all’ingresso. Si lasciavano alle spalle una montagna di sandali di gomma e di scarpe logore per il troppo cammino. All’interno del tempio la gente si prostrava di fronte all’immagine del dio scimmia dipinta con il minio. Sotto una tettoia di paglia erano in vendita dei recipienti di plastica e delle bottiglie di vetro usate. Servivano ai fedeli per portare l’acqua del Sangam fin nei loro lontani villaggi.
Mi svegliai di soprassalto. Erano le quattro e dieci della Mauni Amavasya, l’ultimo giorno di luna nuova del mese indiano di Magha. Era il giorno più propizio dell’intero Kumbh Mela. Un rumore di fondo riempiva la notte. Con l’orecchio teso cercai di decifrarne tutte le componenti. I sibili dei fischietti della polizia. Gli altoparlanti che, con voce concitata, comunicavano l’elenco interminabile delle persone disperse. Le musiche dei bhajan, i canti religiosi, che si alternvano alle canzoni dei film di Bollywood: «Oh Ganga, tera pani amrit». Al Press Camp, una sala improvvisata sotto le tende, il signor Chaturvedi era già seduto dietro la sua scrivania. «Sono arrivati quindici milioni e duecentomila pellegrini – comunicò. – Un record assoluto». Sopra le tende, un uccello solitario volò via impaurito. Il suo grido squarciò l’oscurità. Poco dopo le sei, l’alba fredda di Prayagraj si dissolse rapidamente nella luce tenue del giorno. Al Kumbh Nagar, le processioni degli akhara, i monasteri hindu, si misero in marcia seguendo un ordine prestabilito. Si muovevano lentamente per poi assumere un passo marziale, quasi di corsa. Con un corpetto rosso indossato sopra una camicia blu, sfilarono i componenti di una banda. Il suono sguaiato delle trombe copriva il ritmo cadenzato dei tamburi. Un sadhu impettito reggeva a fatica una bandiera triangolare rossa issata sopra un alto pennone di bambù. Preceduto dal rullare dei tamburi, un altro sadhu marciava con un minuscolo perizoma bianco e una grande spada legata ai fianchi bruni. Dietro di lui, a ranghi compatti, sfilavano decine di sadhu nudi. Tre elefanti giganteschi chiudevano il drappello.
Lunedì mattina
Lungo i percorsi ritagliati tra la folla da pesanti impalcature di bambù, decine di processioni si dirigevano verso il luogo dove il Gange e lo Yamuna uniscono le loro acque. In direzione opposta, un gruppo di naga sadhu faceva ritorno dal bagno. Procedevano a balzi, sbilanciati in avanti. Senza più i segni distintivi sulla fronte e la cenere sul corpo sembravano ancor più dei cavernicoli. Da ogni parte, milioni di pellegrini si riversarono nel sacro Sangam. Uno sbarramento di barche e di funi impediva alla folla di inoltrarsi nell’acqua torbida e melmosa. In una bolgia infernale i poliziotti, con l’acqua alle ginocchia, gridavano e minacciavano i fedeli seminudi roteando in aria i bastoni. Tornavano alla mente le terribili scene del Kumbh Mela del 1954 quando morirono calpestate nella ressa migliaia di persone. Quel giorno, il primo ministro Jawaharlal Nehru era presente al festival di Prayagraj.
Un vento gelido soffiava dalla riva. Seduti a terra, c’erano migliaia di mendicanti e di lebbrosi. Tenevano un piccolo straccio aperto di fronte alle gambe incrociate. I fedeli vi gettavano sopra un po’ di cibo assieme a qualche centesimo di rupia. C’era un uomo anziano sdraiato su un fianco, con i piedi e le mani corrosi dalla lebbra. Accucciata vicino, una piccola donna teneva il viso appoggiato alle ginocchia. Aveva lo sguardo assente. Inebetito.
Alle sette e cinquanta, nel cielo nero e gonfio di pioggia, apparve il sole. Lo spettacolo fu grandioso. La luce improvvisa illuminò milioni di fedeli.
Lunedì notte
La strada che portava al Sangam era in leggera discesa. Sulla destra c’erano le mura massicce, con i bastioni circolari, del forte di Prayagraj. L’aria che veniva dai fiumi era di tre o quattro gradi più fredda. Iniziò un percorso di sabbia. Camminavo piegato in avanti, per non sprofondare sui talloni. Sulla sabbia c’erano milioni di orme. Il disegno geometrico delle suole di plastica. Il piccolo piede nudo di una donna. Il piede tozzo di un uomo con le dita che sporgevano in tutte le direzioni. Incontrai un vecchio. Camminava come me nella direzione del Sangam. «Milioni di uomini e donne sono venuti fin qui, al Kumbh Mela, perché credono in un loro dio. Anche lei è venuto qui per questo?» gli chiesi. Il vecchio non rispose. Mi ero rivolto a lui in inglese. Forse non aveva capito. Camminavamo in silenzio. Cominciò a piovere. In quel luogo aperto e sterminato era impossibile trovare riparo. A mano a mano che la pioggia s’infittiva, le orme sulla spiaggia scomparivano. Gli occhi del vecchio sembravano scrutare la notte. «Sono venuto a vedere i fiumi» mi disse all’improvviso in un inglese perfetto. E aggiunse: «Lo scorrere dell’acqua attutisce i rumori che l’uomo porta dentro di sé. Osservare l’acqua di un fiume purifica l’individuo. Lo pulisce dalla polvere dei ricordi. Ridona purezza alla sua mente». Alcuni pali dipinti di bianco affioravano obliqui dall’acqua nera del Sangam. Dall’alto di una palafitta due poliziotti ci osservavano in silenzio.
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