Della qualità della vita e dell’autonomia
Tra le parole che ricorrono con frequenza nel linguaggio politico, c’è il “territorio” nelle varie forme di “stare tra la gente”, “parlare con il territorio”, “rappresentarlo”, “capirne le istanze”, eccetera, eccetera. Ma è come il famoso “al lupo! al lupo!”, che non arriva; gli elettori sensibili che credono in qualcosa, non rispondono più al grido di richiamo, ma il lupo, purtroppo, è arrivato per davvero, sta facendo razzia a man bassa con la iattanza che gli è propria, ostenta sicurezza e non ha paura di essere fermato. Ma se i partiti stanno parlando con i loro territori di riferimento, come dicono, è il caso di supporre, visti i risultati, che lo stiano facendo male o addirittura nel modo supponente che ricorda il grazioso concedersi di chi si sente importante, il che è abbastanza poco per chi è preoccupato dell’andazzo generale e vorrebbe che qualcuno stesse al suo fianco nei modi possibili. Gli elettori, i cittadini vogliono esistere tutti i giorni, nella loro quotidianità problematica ed anche esistenziale, non sono per nulla disinteressati a quanto accade o non accade nella loro città, nel loro quartiere, ai poveri, ai disoccupati, ai senza casa, ai giovani, come mostra l’incredibile esercito di volontariato e di associazioni; si tratta di persone che hanno un buon livello di istruzione, hanno famiglie, lavoro e vogliono esistere, fare parte della comunità e non essere oggetto di decisioni alle quali devono adeguarsi per un interesse “superiore” di un’economia che non riguarda il loro vivere. Non si può più mobilitare in nome della patria perché la maggioranza dei cittadini non è padrona di nulla e se lotta è per diventare proprietario della casa, di una macchina pensando ai figli, potendo così ostentare un qualche “successo”, credere che la sua vita non è stata inutile. Se i partiti vogliono parlare con il territorio devono assimilare le sue problematiche esistenziali, le ragioni di un territorio dove gli abitanti non sono soltanto inquilini e non sono soltanto una professione, ma persone che hanno l’orgoglio dell’appartenenza, un sistema di valori che li rende membri di una comunità che ha codici di riconoscimento.
La crescita costante dell’astensione elettorale è un motivo di preoccupazione molto serio per la democrazia e l’opposizione che taccia il governo di dirigismo e di uso autoritario del potere, avrebbe una buona ragione per farne un cavallo di battaglia. D’altra parte, non è risaputo che la destra crede nell’uomo solo al comando, nel verticismo e nelle decisioni centralizzate ? Perché mai dovrebbe preoccuparsi dell’astensione se ha vinto le ultime elezioni grazie al fatto che molti cittadini non sono andati alle urne?
E allora perché non usare il tema dell’autonomia per parlare con il territorio che è il vero soggetto del provvedimento? Perché ridurla all’idea perniciosa e divisiva della Lega? Ma è mai possibile che, accertata la necessità di parlare con i territori, non si faccia qualche iniziativa per farlo seriamente? Perché non entrare nel tema per ipotizzare e proporre una qualche maniera di governare con il territorio?
La qualità della vita e le graduatorie
Nel frattempo, Il Sole 24 Ore pubblica le tabelle con cui segnala annualmente la graduatoria della qualità della vita italiana. Dalla lista risulta un generale arretramento dei capoluoghi di regione, più sensibile a Firenze (-30), Torino (-22), Venezia (-14), Roma (-24), Cagliari (-21), con l’eccezione di Bari (+4) e Perugia (+9); e un avanzamento di alcune province come Forlì-Cesena (+27), Macerata (+12), della zona padana e del nord est, fra cui Bergamo (+4), Cremona (+13), Monza (+5), Mantova (+23), Trento (+1), Bolzano (+10), Vicenza(+14), già in buona posizione nelle precedenti edizioni. I dati vanno analizzati nella complessità di cui fanno parte e messi a confronto se si vuole dare una qualità ai numeri; per esempio, come interpretare agli effetti della qualità di vita, che 7 delle prime venti città in graduatoria, sono in pianura Padana, un’area considerata tra le più industrializzate e inquinate d’Europa? E’ possibile leggere nei numeri e nella graduatoria una convivenza strana tra ricchezza, salute e precarietà? In quale criterio qualitativo collocare l’affanno dei nuclei metropolitani e del loro arretramento associato a forti dissonanze territoriali? I parametri valutativi non considerano la bontà del cibo, il rapporto con il tempo e lo spazio, questioni che riguardano la salute nel senso integrale e il sistema territoriale da cui non è possibile prescindere per stabilire la qualità delle sue parti costitutive.
Credo nella necessità di leggere le tabelle nell’ottica delle autonomie, per capire se negli arretramenti e delle dissonanze territoriali non ci sia il sintomo di una difficoltà biologica, di una malattia strisciante; se esiste corrispondenza tra la qualità della vita e sistema territoriale; se l’autonomia possa essere un buon viatico per la creazione di una territorialità coerente capace di stimolare sinergie virtuose; se la città e la campagna/provincia costituiscano nelle loro specifiche condizioni una natura storica corredata di una salutare cultura ambientale.
Di Venezia e del danno profondo della monocultura turistica
“Anche se pagano poco, scriveva Mozart, un’esecuzione a Napoli, ne vale cento in Germania.” Credo che non ci sia un solo architetto al mondo cui non piacerebbe realizzare una sua opera a Venezia o a Roma, a Palermo e in Italia. Sono note di un valore qualificante, di un ente ambientale referenziale, un modello o un brand, come si suol dire tra intenditori di commerci lucrosi. Ebbene, si tratta di un dato consustanziale alla storia del Bel Paese, al lungo dialogo tra uomo e territorio, ad una rivisitazione operosa per migliorare le condizioni di vita, come testimoniano le particolari qualità del prodotto italiano, dalla cucina all’abbigliamento, dall’arte all’artigianato, dall’arredo urbano a quello domestico, le morfologie e la fattura dei manufatti. E’ una sapienza che si alimenta più di fattori ambientali che di libri, un vero e proprio patrimonio delle comunità che si ritrovano nella pratica conoscitiva e operativa dei centri urbani, circola nei mercati, passeggia sotto i portici delle piazze, perciò chiamate italiane, risuona nelle abilità e competenze delle comunità. È appartenenza, amor proprio ed emozione, quella che si prova dicendo carega, seggia e non sedia per un qualche travaso chimico che avviene con i suoni “nostrani”, più che con altri. È un percorso in cui la biologia si pensa e cresce, diventa coscienza di sé e complessità.
Nella graduatoria del quotidiano milanese, Venezia arretra di ben quattordici posizioni, un risultato non addebitato alla monocultura turistica nella quotidianità veneziana, pur sopraffatta da un flusso umano che aggredisce le modalità temporali e spaziali del vivere la città. Le tabelle non tengono conto del numero di maestri vetrai scomparsi, degli squeri e delle barche di legno che non ci sono più e di tutto ciò che costituisce l’humus del vivere in laguna, del suo tessuto sociale, della manutenzione dei canali, delle condizioni e abilità per farlo; e non includono neppure l’effetto della pratica turistica, la sua incidenza sulla qualità della vita della città lagunare che, come è noto a chi vive a Venezia, è motivo di disappunto crescente. Il che potrebbe far pensare che a Venezia si sta peggio di quanto le stesse graduatorie dicono. Cosa, però, difficile da sostenere, visto che il veneziano considera giustamente un privilegio vivere a Venezia e con Venezia. Purtroppo, i segni dell’attenzione sempre più bassa alla qualità della vita depositata nella cultura ambientale, si accompagnano all’indifferenza verso il ruolo propositivo e suggestivo dell’essere Venezia per sé, il suo entroterra e i visitatori, all’affievolirsi dell’azione qualitativa della cultura ambientale veneziana, una volta definita La Dominante. La città è ferita per la qualità della domanda interna ed è svilita per la perdita del suo ruolo storico verso la terraferma, sta perdendo le ragioni stesse del grande valore che rappresenta, le abilità e le conoscenze definitesi nel territorio lagunare, la cultura ambientale. E si tratta di condizioni che si trasmettono alle istituzioni culturali, ai cittadini, al modo di realizzare il lavoro. Il rapporto CENSIS 2024, parla appunto di “galleggiamento”, una condizione senza direzione. La questione è seria e la politica dovrebbe dedicare una riflessione profonda al tema; e dovrebbero farlo anche le istituzioni culturali, definendo il sistema di valori identificativi della città, della sua sostanza energetica e propulsiva, assumendo una propria funzione di servizio proprio per il ruolo escatologico della universitas vincolato ai destini della specie.
Per la sua importante azione coesiva, attrattiva e propulsiva, la cultura ambientale dovrebbe rientrare nelle tematiche dei governi locali, costituire una narrativa del valore con parametri coerenti con l’offerta territoriale. Ciò, al fine di costruire una territorialità amministrativa virtuosa, soprattutto nei territori in cui le comunità si sono strutturate sull’attività agricola, sull’allevamento e la pastorizia, la cura del bosco, l’uso dell’acqua e dei fiumi, sulla qualità dell’aria.
Isernia, la provincia e la cultura ambientale
La provincia è il territorio ineffabile tra un’origine che la lega alla terra e un futuro in cui si vede nello scintillio della città. Nella sua storia risuona l’eco della sua ambizione ad essere città, la cura delle abilità manuali, le aspirazioni ad una vita migliore, un patrimonio prezioso cui la città può attingere. Per la funzione di stimolo che l’una esercita sull’altra, il dialogo fra città e provincia/campagna è un fattore vitale della storia italiana.
Il quotidiano milanese colloca la provincia di Isernia verso gli ultimi posti della graduatoria nazionale. Credo che il giudizio, più che falso, sia distorto, per un sistema parametrale che prescinde dalla funzione qualitativa della cultura ambientale. La quale, se a Venezia è messa in vendita, a Isernia non ha mai occupato l’interesse della politica e dell’élite culturale, mutuando la narrativa che non vede un valore nella ruralità, ma un fenomeno di folklore, nell’alveo della visione che ha la città per la vita rurale. La questione affonda le radici nel carattere classista che ha guidato l’unità d’Italia con i suoi criteri divisivi improntati alla superiorità del nord sul sud, dell’italiano sui dialetti, dei nobili sul popolo minuto, della città sulla campagna e addirittura dell’operaio sul contadino, in un avvenire dalle “magnifiche sorti e progressive” affidato all’economia industriale che ha comportato il rigetto o, quanto meno, una condizione di marginalità al mondo rurale e contadino.
Credo che l’Italia porti ancora le ferite di un progetto unitario condotto a colpi di accetta, con metodi coercitivi e repressivi che si sono sovrapposti alle specificità locali, non hanno tenuto conto delle loro abilità, della loro creatività, né dei sistemi produttivi con cui le comunità dell’interno e del sud del paese hanno risolto per secoli i problemi della loro sopravvivenza.
Di fatto, il paese soffre di un vuoto culturale di un mondo travolto dagli eventi con le stesse modalità utilizzate dal colonialismo che ha cancellato le preesistenze e trasformato i colonizzati in popoli testimoni, come scrive lo storico e antropologo brasiliano Darcy Ribeiro sull’America Latina. Quel metodo guarda alla storia con il criterio positivista dei risultati raggiunti in chiave produttiva e finanziaria e non con le problematiche del vivere collettivo e individuale da risolvere.
I conflitti in corso sono davvero troppi ed è necessario dare maggiore spazio ai temi della convivenza, domandarsi del ruolo delle comunità e della cultura ambientale costruita nel tempo, della sua varietà morfologica, di riconoscere la qualità e la consistenza proficua della ruralità; è tempo di riconoscere il valore di coloro che hanno reso vivibili e fertili ambienti accidentati e difficili, di considerarli soltanto in chiave turistica. Si deve dare il giusto ruolo al significato sociale del lavoro agricolo, delle rimesse dell’emigrato, di riconoscergli il merito del profilo paesaggistico delle aree rurali, dei borghi petrosi ed essenziali e della qualità ambientale del territorio in cui la città svolge un ruolo di riferimento.
La politica molisana continua caparbiamente a proporsi come distributrice di favori, collegamento con le alte sfere politiche, economiche e anche clericali, della capitale; ciò spalanca le porte alla succubanza culturale che a sua volta alimenta il senso di minorità, che significa anche inferiorità, inutilità di agire, un colore espresso nella nota definizione di regione che non esiste.
Quello che non esiste, invece, è una politica che abbia il Molise come fondamento, capace di operare per il recupero dell’orgoglio e dell’appartenenza con riferimento a ciò che qualifica la regione internamente; una politica per costruire un progetto sulle qualità del territorio. E non con soluzioni occupazionali da ricercare con la produzione di macchine, o vestiti o, secondo la moda più attuale, con l’intelligenza artificiale e in un mondo che continua ad essere da un’altra parte e mai in Molise, a Isernia, ad Agnone o a Termoli, o a Campobasso e nello splendido territorio che è un vero e proprio bene del mondo. La tecnica deve essere pensata per la soluzione delle arretratezze interne, per rendere più agevole il lavoro, per creare sistemi di irrigazione, infrastrutture utili per l’agricoltura, la silvicultura, l’allevamento, per la costruzione di una narrativa del valore Molise. Dove manca la narrazione, mancano le parole, i disegni, i suoni, mancano gli elementi che innalzano il vivere con il suo racconto facendone un valore collettivo e di riconoscimento. Manca una politica culturale per dare visibilità a ciò che caratterizza il Molise, sicuramente alternativa all’attività culturale che scimmiotta la città con un’offerta che sa di spettacolo per il tempo libero.
Vanno rimossi i fattori che rendono il lavoro pesante, create le condizioni per renderlo più remunerativa l’agricoltura, per dare dignità a ciò che costituisce la cultura ambientale. Sabino D’Acunto è un grande poeta perché ha capito che la forza delle sue terre sta nell’energia del mondo contadino e nell’essenzialità della vita rurale che appunto ha cantato. Il Molise che c’è, è nei paesaggi con borghi costruiti con la pietra di una terra resa fertile dal lavoro, è nell’insistente attività che si sviluppa sulla qualità organolettica dei suoi prodotti, è il territorio con corsi e specchi d’acqua, boschi e sapori buoni per la biologia. L’attività culturale deve rimettere le cose al loro posto, se si vogliono creare le condizioni per mettere fine all’esodo divenuto oramai dissanguamento. L’università dovrebbe svolgere la sua opera di servizio in tale ambito, fare proposte e realizzare attività collegate all’innalzamento della terra, bassa per definizione, in tutti i sensi e porla alla base di più progetti di attività.
Dare vigore alle culture ambientali, a Venezia come a Isernia, significa dare un ruolo attivo e consapevole ai cittadini e al territorio, costruire con coerenza la sua autonomia e la convivenza, ridare energia alla democrazia, togliere dall’orizzonte i pericoli di una centralismo intento a stabilire una società piramidale con strumenti divisivi che ricordano il feudalesimo con tutte le sue gravissime implicazioni.
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