Lo scorso 8 dicembre, per iniziativa dell’Anpi Sette Martiri di Venezia, si è svolto presso la sede di Emergency alla Giudecca un incontro in ricordo di un importante dirigente veneziano e nazionale del Partito comunista italiano, dal titolo: “Momi Federici, l’impegno di una vita con i lavoratori, l’ANPI e i giovani”. Sono intervenuti Andrea Dapporto, Sebastiano Bonzio, Paolo Cacciari e Maria Teresa Sega, che ringraziamo per averci consentito di pubblicare – qui di seguito – il suo intervento.
C’era una volta – tra il 1947 e il 1957 – in Fondamenta dei Cereri a Venezia, dove durante il Ventennio c’era la Casa del Balilla, un “Convitto della Rinascita” dove si imparava a praticare la democrazia e la solidarietà per diventare i futuri cittadini della Repubblica, liberi, critici, democratici. Erano ragazzi provenienti dalla provincia di Venezia, ma anche dal Friuli, l’Emilia-Romagna, la Toscana e qualcuno anche dal sud. Si concretizza così il progetto, sognato dai partigiani che combattevano in montagna, di una scuola antifascista per la nuova Italia, che educhi alla democrazia e alla responsabilità, non all’obbedienza.
Al comandante di una brigata garibaldina della Val d’Ossola, Luciano Raimondi, professore di filosofia, dopo la guerra venne l’idea di offrire recupero scolastico e formazione professionale ai giovani partigiani che non avevano potuto studiare e nel giugno del 1945 aprì a Milano il primo Convitto-Scuola; ne seguiranno altri a Sanremo, Reggio Emilia, Cremona, Torino, Novara, Bologna, Genova, Roma.
Anche a Venezia due insegnanti-partigiani, Mario Balladelli e Abe Lucchetta, decisero di realizzare ciò che avevano cominciato a progettare durante la guerra: una scuola “Umanitaria” basata su principi pedagogici e criteri didattici “che segneranno una vera rivoluzione progressista nel campo universale dell’educazione”.
Il Convitto veneziano, sostenuto dall’ANPI e intitolato al giovane partigiano sandonatese assassinato sulle rovine di Ca’ Giustinian, Francesco Biancotto, si caratterizza per l’accoglienza di bambini e ragazzi – tra i sei e i diciotto anni – orfani di partigiani e partigiane, di deportati, di caduti sul lavoro o licenziati per motivi sindacali, e per la scelta di frequentare le scuole pubbliche cittadine. Il pomeriggio all’interno del Convitto si svolgono varie attività di gruppo, anticipando l’idea di un’educazione a “tempo pieno”, che comprende anche momenti ludico-educativi e sociali: sport, teatro, stampa del giornalino, laboratorio di falegnameria.
C’è nel progetto dei Convitti l’obiettivo di dare un’istruzione professionale, ma c’è anche l’idea di offrire una palestra di democrazia dove allenarsi ad essere cittadini. Ma quale democrazia? Inizialmente si adotta il modello delle “Repubbliche dei ragazzi”, basato sulla democrazia rappresentativa, con l’elezione del sindaco, dei consiglieri e del consiglio di disciplina che ha il compito di punire i trasgressori delle regole. Modello che risulta troppo simile ad un collegio, pur di segno opposto, con la preghiera serale ai caduti partigiani. Le punizioni inflitte dal Consiglio di disciplina, di una rigidità eccessiva, rivelando i limiti di un gioco imitativo del mondo adulto.
Nel 1951, in un momento di difficoltà, l’ANPI chiama un gruppo di studenti della sezione universitaria della FGCI – Giovanni Gramola, Girolamo “Momi” Federici, Stelio Fantoli, Valerio Cuccu, Marzio Marzaduri – e affida a loro la rivitalizzazione del Biancotto: Gramola è nominato preside, Federici direttore didattico, gli altri animatori.
La nuova direzione vuol farne un centro educativo aperto alla città e porta radicali cambiamenti. Il sistema della “Repubblica dei ragazzi” viene sostituito dalla democrazia diretta e assembleare.
Federici spiega così come giunsero a fare la “rivoluzione”:
si troveranno superati e cancellati l’assistenzialismo e il paternalismo, l’ideologismo settario, la monocultura dell’eroismo e del lavoro, la rigidità organizzativa del gruppo chiuso, ma anche il gioco nominalistico delle Repubbliche dei ragazzi, il gioco spietato dell’autocritica o le confessioni collettive laiche.
Lunga e animata è la discussione sul nome da dare all’”autogoverno”: “brigata”? “comunità”? Si decide per “collettivo”. Il nuovo modello formativo si ispira alla “scuola attiva”: studio teorico e manualità, creatività, libera espressione, attività fisica, comunicazione, scambio. Un attivismo non individualistico, in cui fondamentale è la dimensione collettiva basata su condivisione e solidarietà. Il Biancotto diventa una comunità di ragazzi ed educatori. Si organizzano spettacoli, attività artistiche e competizioni sportive, si stampano giornalini come Il Collettivo e La nuova gioventù e si partecipa alle iniziative teatrali, cinematografiche, culturali della città. C’è una donna, oltre al Comitato delle madri, le volontarie della FGCI e dell’UDI, Lia Finzi – moglie di Momi – e futura assessora alle politiche sociali tra il 1975 e il 1985 – che si occupa dei più piccoli e segue i ragazzi nelle attività del tempo libero.
Dice Franco di Novellara (RE):
La domenica cantavamo alla Fenice, vedevamo il cineforum al Malibran, dipingevamo con Aldo Rossi e visitavamo le gallerie dell’Accademia con Aldo Bergonzoni. Una volta al mese si andava ai Cantieri navali e si stava a pranzo in mensa con gli operai. La città ci amava.
Il Convitto è integrato nella città. I ragazzi del sestiere di Dorsoduro e delle aree più povere della Giudecca, S. Marta, S. Giobbe passano il pomeriggio nel “doposcuola” dove incontrano coetanei che parlano dialetti diversi, un’esperienza di intercultura che per certi versi ricorda le classi multietniche di oggi. Durante l’estate vengono attivate iniziative di turismo scolastico-giovanile alle quali partecipano associazioni europee come Les amis de la nature, il WWN, associazione antinazista tedesca e austriaca che porta in dono palloni e scarpe da calcio.
Dal 1948 – nel clima di “guerra fredda” – la Gioventù italiana, proprietaria degli edifici, dichiara guerra al Biancotto per eliminare il “covo di rossi”. Un muro viene alzato a dividere il grande cortile per separare i biancottini dai marinaretti della Nave Scuola Scilla, orfani di lavoratori del mare, ospitati nel palazzetto di fondamenta Briati. Nel 1951 la celere di Scelba occupa il Convitto ed arresta gli educatori, i biancottini reagiscono, il poeta Diego Valeri, che abita difronte, grida contro i celerini, la città si mobilita, gli operai di Marghera lasciano le fabbriche e marciano su Venezia. La GI concede una proroga fino al 1957, ma toglie la grande “casa bianca” (attualmente sede della scuola d’infanzia “Diego Valeri”), ci si deve stringere nella piccola “casa rossa” dove si dorme su letti a castello. Non essendoci più la cucina, il cibo arriva dall’ex Ca’ Littoria – ora Ca’ Matteotti – dove ha sede la Camera del Lavoro.
La città adotta i “biancottini”. Il Convitto vive grazie alla solidarietà concreta di intellettuali ed artisti, lavoratori e commercianti, operai di Porto Marghera e donne dell’UDI, partiti democratici e Camere del lavoro. Nasce anche l’associazione “Amici del Biancotto”, un significativo gruppo di esponenti della pedagogia, della cultura, della politica, come Beppa Trentin, Dina Bertoni Jovine e Ada Marchesini Gobetti, Ferruccio Parri, Umberto Terracini e Papà Cervi, Mario Lodi e Gianni Rodari. Il teatro diventa il mezzo per raccogliere solidarietà e sostegno: nel ’54 la “compagnia dei biancottini” va in tournée in Polesine e in Romagna con uno spettacolo che racconta la storia di un orfano.
Questa ”epopea cittadina“, come l’ha definita Franca Trentin, diventa il simbolo di una nuova resistenza per difendere le conquiste democratiche, in una città, Venezia, dove dalle elezioni amministrative del 1946 esce una giunta di sinistra, un sindaco comunista – Giobatta Gianquinto – sette donne elette, Anita Mezzalira, ex tabacchina, assessora all’Assistenza: la città uscita dalla guerra persegue un progetto politico solidaristico e progressista.
Ma nel 1957, alla scadenza del contratto, il Convitto è costretto a chiudere. Naufraga il progetto di un Nuovo Biancotto che immaginava un Istituto culturale-educativo aperto alla città, centro di turismo popolare e scuola professionale per le attività turistiche.
“Una bandiera si ammaina sulla laguna – titola con enfasi l’Unità – è la gloriosa bandiera del Biancotto…Non cade perché sconfitto: centinaia di orfani vi sono passati …formati ai principi della Costituzione… È una battaglia vinta”. La Resistenza continua.
Lia Finzi e Girolamo Federici hanno raccontato la loro esperienza nel libro: I ragazzi del Collettico. Il Convitto Francesco Biancotto di Venezia 1947-1957, Marsilio 1993. L’Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea, che conserva l’archivio del Convitto, ha realizzato con l’ANPI di Venezia la mostra documentaria I ragazzi del collettivo. Il Convitto “Francesco Biancotto” di Venezia 1947-1957, e il film, con la regia di Manuela Pellarin, I Ragazzi del collettivo”.
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