Jannik Sinner corre un rischio del quale non sappiamo né se sia cosciente né se gliene importi qualcosa. Il rischio, come abbiamo già sostenuto in altre occasioni, è quello di diventare noioso. Troppo perfetto, troppo educato, troppo vincente, troppo, semplicemente troppo per un ambito ipercompetitivo come quello dello sport, da sempre lieto di abbattere i monumenti, con la stessa voluttà con la quale i popoli oppressi abbattono i dittatori all’epilogo dei regimi. Ebbene, non intendiamo minimamente accostare un ragazzo pulito e perbene come Sinner a un despota: ci auguriamo, anzi, che continui a trionfare ovunque e che mantenga l’integrità cui ci sta abituando, insieme alla fame di successi che difficilmente lo abbandonerà (come si è visto stamattina nella semifinale degli Australian Open contro lo statunitense Shelton).
L’aspetto più significativo di questo altoatesino pel di carota, tuttavia, è un altro: la rivoluzione che sta portando nel costume nazionale. Non era facile, infatti, in un Paese calciocentrico come il nostro, nel quale i giornali sportivi non parlano quasi d’altro e il giro d’affari del pallone supera di gran lunga quello di tutte le altre discipline, eppure sta accadendo. E il merito, oltre che di Jannik, va anche a Jasmine Paolini, Sara Errani, Lorenzo Sonego, Lorenzo Musetti, Matteo Berrettini e agli altri alfieri della racchetta, che da qualche anno a questa parte stanno trasformando competizioni nelle quali un tempo eravamo poco più che comprimari in un terreno di caccia abituale. In questi giorni, come detto, si stanno disputando gli Australian Open, ma pensiamo anche a Wimbledon, agli U.S. Open, alle ATP Finals, alla Coppa Davis e persino alle Olimpiadi: ormai la pallina gialla si sta tingendo sempre più d’azzurro, e il movimento che questa generazione di fenomeni ha innescato è destinato a durare.
Non sorprendetevi, dunque, cari genitori, se i vostri figli vi chiederanno di acquistare una racchetta anziché gli scarpini da calcio: chi vince detta legge, specie quando si è piccoli e si ha bisogno di idoli e di eroi. Noi abbiamo avuto la generazione dei fenomeni del calcio, culminata nell’apoteosi di Berlino 2006, dopo il decennio trascorso a sognare grazie alle Under 21 di Maldini e Tardelli e alle Nazionali maggiori che si fermavano sempre a un passo dalla gloria ma erano, comunque, protagoniste sia ai Mondiali che agli Europei. Loro non hanno mai visto gli Azzurri disputare un Mondiale, hanno assistito alle beffe del 2018 e del 2022, peraltro contro avversarie non proprio trascendentali come la Svezia e la Macedonia del Nord, e pertanto si sono appassionati ad altri sport: dal nuoto alla scherma fino al tennis, con l’esplosione di Jannik e dei suoi fratelli e sorelle, ormai egemoni nel contesto planetario.
Un altro bell’esempio del potere che i successi esercitano sull’immaginario dei bambini è dato da Bologna e Atalanta. E se la Dea di Gasperini, che potrebbe addirittura qualificarsi direttamente agli Ottavi di Champions, entrando a far parte del G8 europeo, ossia del gotha del Vecchio Continente, ormai non fa più notizia, il ritorno in auge dei felsinei è una notizia meravigliosa per noi romantici, appassionati dell’epopea dello “squadrone che tremare il mondo fa” targato Dall’Ara e Biavati e del capolavoro di Fulvio Bernardini nello spareggio-scudetto dell’Olimpico, quando i rossoblu ebbero la meglio addirittura sulle truppe di Herrera, reduci dalla conquista della Coppa dei Campioni a Vienna contro il Real Madrid di Di Stéfano e Puskás. Ebbene, guidati da Thiago Motta prima e da Italiano adesso, e sotto l’egida del presidente Saputo, un italo-canadese che ha saputo scegliere le persone giuste per portare avanti il proprio progetto, a cominciare dal trio Fenucci-Di Vaio-Sartori, i bolognesi possono guardare al futuro con ottimismo.
Tornati in Champions dopo un’assenza di ben sessant’anni e in Europa dopo venticinque (tanto è passato dalla sfortunata semifinale del ’99 contro l’Olympique Marsiglia), si sono tolti la soddisfazione di reggere ad Anfield Road, nonostante la sconfitta contro il Liverpool, e di battere in casa il Borussia Dortmund, ora in crisi ma solo pochi mesi fa finalista contro il Real Madrid di Carletto Ancelotti. In campionato, poi, Italiano sta addirittura migliorando i record di Motta, a dimostrazione, ribadiamo, che il progetto è solido e destinato ad andare avanti, sia pur a piccoli passi e senza montarsi la testa, com’è specialità della casa. E allora ci chiediamo: quanti bambini e, perché no?, bambine, abbracceranno d’ora in poi i colori nerazzurri dell’Atalanta o quelli rossoblu del Bologna? Come mi faceva notare Stefano Mentana, caro amico e collega, l’Atalanta rappresenta per i pargoli odierni ciò che il Parma di Ancelotti e Malesani ha rappresentato per la nostra generazione: una favola, un sogno, una speranza, il classico baco nel sistema, il Davide che sconfigge Golia, un qualcosa di meraviglioso e imprescindibile affinché il calcio e la vita abbiano ancora un senso. Cari saluti, insomma, ai cultori della Superlega, a chi si chiedeva cosa ci facesse l’Atalanta in Champions, all’arroganza dei soliti noti e onore e gloria a questa epifania del calcio di provincia, che si rilancia in grande stile e può forse provare a salvare un movimento cui cominciano a mancare le vocazioni, come si evince dai disastri della Nazionale nell’ultimo decennio, eccezion fatta per l’Europeo vinto nel 2021 contro l’Inghilterra.
In conclusione, salutiamo Denis Law, leggenda scozzese, uno dei “Busby babes”, che in Italia disputò, senza grande fortuna, una stagione nelle file del Toro, prima di tornare a Manchester e divenire, per l’appunto sotto l’ala di sir Matt Busby, precursore di Ferguson, uno dei simboli dei Red Davils, fino alla Coppa dei Campioni vinta nel ’68 grazie al genio impagabile di George Best.
E, per dirla tutta, ricordiamo Vincenzo Spagnolo, “Spagna” per gli amici, ossia il tifoso genoano che venne accoltellato a morte da un ultrà rossonero, vicino allo stadio “Luigi Ferraris”, il 29 gennaio del ’95, prima dell’inizio di un Genoa-Milan.
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