Con la prossima chiusura del Fondaco dei Tedeschi si riapre la discussione sul futuro del Fontego dei Tedeschi, il nome dell’antico edificio a ridosso del ponte di Rialto, per decenni sede dell’ufficio postale centrale di Venezia, trasformato nel 2016 in centro commerciale del lusso, gestito dal Gruppo Dfs di Bernard Arnault.
Nel 2012, ai tempi della dismissione dell’edificio, di proprietà del Comune di Venezia, Alessandro Bianchini, Mario Coglitore, Giovanni Dalla Costa e Antonio Alberto Semi pubblicarono un libro, dal titolo Un altro Fontego, con un contributo di Vittorio Gregotti, in cui si ragiona su come riconsegnare alla città e ai cittadini lo storico edificio, indicando un’idea diversa da quella della sua commercializzazione, incentrata sulla cultura, mettendo insieme insieme pubblico e privato nello sforzo di trasformarlo un edificio così importante in “luogo di conoscenza e anche di smercio di concetti tecnico scientifici”.
È durata solo otto anni l’avventata avventura del Fondaco, e adesso si ripropone identicamente il tema del suo impiego, come nel 2012. Di qui l’iniziativa, da parte degli autori, di ripubblicare Un altro Fontego, che torna quanto mai attuale.
l libro sarà presentato dagli autori in Ateneo Veneto, con la partecipazione di Mauro Baronchelli, direttore operativo di Palazzo Grassi, e del prof. Luca Crescenzi.
Per gentile concessione degli autori e dell’editore, pubblichiamo il testo dell’introduzione alla nuova edizione.
Nel 2012, dopo aver lungamente esaminato le vicende amministrative, politiche e culturali che avevano determinato il destino del Fondaco dei Tedeschi, concludevamo il nostro Un altro Fontego constatando che: “Finora proprietà e Comune hanno scelto la soluzione più facile e più fallimentare”; una strada ben diversa da quella ‒ possibile ‒ che avevamo illustrato.
Sarebbe facile oggi sostenere che “l’avevamo detto” e che il fallimento delle scelte commerciali effettuate e la conseguente attuale minacciata chiusura dell’impresa confermano le nostre ipotesi, ma non è così: il fallimento cui facevamo riferimento era conseguenza di una politica culturale inesistente e di una altrettanto inesistente positiva alleanza tra pubblico e privato. Il fallimento economico attuale del Fondaco (non “il Fontego”), viceversa, è solo un incidente nel percorso di utilizzazione economica intensiva del grande palazzo e infatti subito il Comune si è premurato di dichiarare che bisognerà trovare qualche altro investitore che continui – magari con altri marchi – la stessa impresa. La quale è di per sé fallimentare. Anche solo dal punto di vista commerciale, infatti, che senso ha proporre merci che i visitatori, provenienti da mezzo mondo, possono trovare a casa o vicino ad essi? E quanti potrebbero essere – tra i 49 000 ultimi residenti – i clienti dei grandi marchi lì presentati e offerti? Non certo un numero tale da giustificare il Fondaco dei Tedeschi. Il quale Fontego, ab initio, aveva il senso di importare, esportare, commerciare merci altrimenti o altrove introvabili.
Se ci soffermiamo sull’attuale fallimento, tuttavia, non è per criticare dal punto di vista aziendalistico (non ne saremmo capaci, non è il nostro campo) l’operazione imprenditoriale effettuata anni fa, ma per indicare che, alle sue spalle, c’è stata un’operazione di pensiero povera. Altro che turismo povero ‘mordi e fuggi’! È stata un’impresa con il motto ‘incassa e fuggi’, in linea con la politica delle multinazionali. Sennonché non ha nemmeno fruttato (abbastanza). Nemmeno il Comune, del resto, ha incassato abbastanza – se è riuscito ad impossessarsi dei sei milioni promessi da Benetton. E la città ha perduto un luogo proprio, con tutte le valenze sociali, culturali, economiche che quel luogo che era di passaggio e ‛di casa’ avrebbe potuto sviluppare.
Riproporre dunque oggi il nostro contributo di dodici anni fa ha il senso di riproporre un’operazione di pensiero.
Avevamo infatti analizzato allora nel primo capitolo (e la storia serve sempre, se si vuol pensare) l’“operazione Fontego” per illustrare nei dettagli le vicende politiche, amministrative, giuridiche che avevano portato a concludere un accordo tra il Comune e la proprietà e mettere in evidenza la mancanza di una visione e di un progetto da parte del Comune di Venezia. Anziché costruire ipotesi dietrologiche, imbastire ipotetiche accuse di collusioni, di cointeressenze, insomma anziché cedere more italico alla logica del ‘cosa c’è dietro’, ci interessava mettere in evidenza ciò che c’era, per così dire, davanti, in superficie: una miseria intellettuale che produceva una miseria e una sconfitta della politica. Temiamo che attualmente si ripropongano le medesime dinamiche.
Di contro, avevamo cercato di mostrare (era il secondo capitolo) lo spessore e l’importanza e la ricchezza della questione, nella prospettiva positiva della rifunzionalizzazione del palazzo all’interno di una logica di cooperazione tra soggetti istituzionali e no, cittadini e no. Il che poneva anche la necessità di riflettere sul rapporto tra restauro e modernità, al qual proposito il testo di Vittorio Gregotti intitolato appunto “Venezia città della nuova modernità” forniva importanti elementi di pensiero. Pensare. Il terzo capitolo (“I bottoni delle camicie – il Fondaco dei Tedeschi come ‘passaggio’ ”) partiva infatti dalla varietà e ricchezza di pensieri che un ipotetico visitatore poteva esprimere addentrandosi nel palazzo, percorrendolo così com’era – prima dell’attuale conformazione dovuta a un restauro rivoluzionante – e come oggi non è più possibile sperimentare. Pensare al senso, al significato che un edificio come quello del Fontego poteva avere per l’individuo e per la città. I percorsi interni come percorsi nella storia e nell’attualità, percorsi come dimensione tipica della vita, percorsi come modi per rileggere sé stessi e l’ambiente esterno, la città in cui uscire rinnovati, arricchiti.
Perciò, nel quarto capitolo, illustravamo i problemi di una politica della cultura e però anche facevamo un esempio di una possibilità alternativa a quella miserabile attuata. E oggi? Anche oggi ci chiediamo se sia possibile un uso del grande palazzo che tenga conto della realtà attuale, con la quale tutti debbono fare i conti… e per la quale è importante anche che i conti tornino, che si faccia qualcosa di economicamente sostenibile perché civilmente significativo, perché propositivo ma rispondente a desideri e bisogni umani. Di fronte all’innalzamento del livello del mare, all’abbassamento del numero di cittadini, all’aumento drammatico delle disuguaglianze ma anche alla possibilità di conoscere di più, di crescere umanamente, di amare criticamente il proprio mondo, Venezia con il suo Fontego potrebbe essere un luogo esemplare di nuove possibilità?
Bisogna pensarci su. Perciò invochiamo attenzione, riflessione, realismo e capacità di pensare al futuro.
Immagine di copertina: Canaletto, Il Canal Grande a Rialto (Sulla sinistra si nota il Fontego dei Tedeschi, che rivela ancora tracce dell’originale decorazione ad affresco del Tiziano), 1730/1750 circa, Museo del Prado
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