Indosso gli occhiali neri, perchè oggi vedo il futuro ed è un futuro splendente.
Così si apriva uno dei tanti video/bollettini metereologici che David Lynch ha pubblicato sul suo canale YouTube negli ultimi anni. Il Maestro ha ammesso più volte di essere un incallito tabagista dall’età di otto anni e questo gli è costato un enfisema polmonare che l’ha costretto a vivere in casa da quasi un anno. Proprio quei bollettini erano l’unico modo per il suo pubblico di stargli vicino, un pubblico che ha sempre sperato nel ritorno del regista, ma che dopo le ultime notizie riguardo le sue condizioni di salute sembrava, più che mai, insperato.
David Lynch nasce nel Montana nel 1946 e oltre alla carriera da regista si è affermato, negli anni, anche come musicista e pittore. Sullo sfondo dei bollettini meteo, spesso, appariva il suo cortile/studio, che nel documentario di Jon Nguyen del 2016 intitolato The art life, avevamo imparato a conoscere, grazie alla piccola Lula (ultima figlia del Maestro nata nel 2009) che lo percorreva in lungo e in largo sospinta dall’energia innata dei bambini.
Considerato il regista del sogno, Lynch è un’anima visionaria ma anche sensibile che, con il suo lavoro, ha segnato un’epoca. Eraserhead, il suo lungometraggio d’esordio del 1977, viene considerato uno dei migliori esordi cinematografici di sempre. Ma il favore della critica non si ferma, anzi si consolida con The elephant man, forse il suo film migliore. Lynch è anche il primo a riuscire nell’impresa impossibile di portare sullo schermo il celebre romanzo di Frank Herbert, Dune.
Nonostante il clamoroso flop al botteghino il film è oggi ricordato come un classico del genere fantascientifico.
Solo pochi anni prima Lynch aveva rifiutato la regia del terzo capitolo della saga di Guerre stellari, ma De Laurentiis non demorde e, spinto dal successo di Lucas, decide di scritturare il giovane regista di Missoula per dirigere il film. A fronte di un budget sforato di qualche milione di dollari, del Dune lynciano restano memorabili i vermoni di Carlo Rambaldi, noto al grande pubblico per essere il “papà” di ET.
Il più grande apporto che Lynch ha dato alla storia dell’audiovisivo arriva però con Twin Peaks. All’inizio degli anni Novanta la televisione è colma di serie tv dalla vita eterna e l’animo melodrammatico, soap opera statunitensi o telenovela sudamericane, che vengono esportate in tutto il mondo tenendo occupate milioni di casalinghe intente alle faccende di casa nelle prime ore del pomeriggio. Vere e proprie epopee lunghe decine e decine di puntate e stagioni, dal dubbio valore artistico.
Twin Peaks è una rivoluzione che, forse, solo oggi, l’era delle serie, possiamo comprendere appieno. Otto puntate da quaranta minuti ciascuna, che raccontano la vicenda intorno alla morte di Laura Palmer, giovane residente nell’omonima cittadina del titolo. Tra intrighi e indagini, l’agente Cooper, del già Paul Atreides, Kyle MacLachlan, si muove a suon di caffè e torta alle ciliegie. Piano piano ci rendiamo conto che quella che è cominciata come l’ennesimo racconto giallo si sta trasformando in qualcosa di diverso, di onirico o spirituale, elementi che poi costituiranno la terza stagione. Quest’ultima esce nel 2017 e già allora sembra essere una lettera d’addio, pubblicata in un mondo che, proprio grazie a Twin Peaks, ha visto rinascere la televisione come luogo di grande cinema, o comunque, di grandi prodotti audiovisivi, che della serie originale hanno copiato il formato ridotto.
Lynch sarà sempre ricordato come uno dei grandi padri del cinema post-moderno, come un innovatore, un genio, un artista a tutto tondo, capace di risultare credibile sia dietro una macchina da presa, sia reggendo il proprio smartphone mentre ci racconta le previsioni del tempo.
Immagine di copertina: David Lynch in un ritratto di © Lewis Rossignol
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