Ganesha dio indiano il cui nome significa “signore dei Gana Figlio di Shiva e di Parvati”, è raffigurato come un bambino panciuto dalla testa di elefante, tre occhi e una sola zanna. Il suo colore è il giallo. Si muove in sella a un topo e nelle quattro mani tiene un pestello, un disco, una conchiglia e un giglio acquatico. È una figura particolarmente amata dagli induisti, sia vishnuiti sia shivaiti, che sacrificano al dio in occasione della partenza per un lungo viaggio e della conclusione di un affare. Ganesha è il patrono delle lettere e delle scienze, nonché personificazione della saggezza.
Il mito spiega che un giorno Parvati decise di porre Ganesha quale guardiano della sua sala da bagno mentre lei si dedicava alle abluzioni. Shiva, preso dal desiderio per la moglie, pretese di entrare e al rifiuto di Ganesha di farlo passare, il padre gli mozzò il capo e sostituì la testa umana con quella di un elefante. La mutilazione di una zanna del dio è opera, invece, di Parashurama, settima incarnazione di Vishnu. Un giorno che questi voleva parlare a Shiva, Ganesha gli sbarrò il passo e Parashura lo punì. In quanto patrono delle lettere, Ganesha è il primo scriba e a lui Vyasa detto il poema del Mahabharata. Essendo un dio con un ventre assai prominente, gode di ottimo appetito e gradisce abbondanti offerte di vivande da parte dei suoi devoti.
Le due mogli di Ganesha, Siddhi (riuscita) e Buddhi (intelligenza), furono conquistate dal dio grazie alla sua immensa sapienza. Le contese, infatti, al fratello Karttikeya sfidandolo a chi avrebbe completato per primo il giro del mondo. Karttikeya si lanciò in una corsa poderosa e concluse rapidamente il giro mentre Ganesha non si mosse nemmeno. Quando Karttikeya pretese il premio, Ganesha gli diede una descrizione così accurata del mondo che si poteva senz’altro ritenere lo avesse osservato in ogni dettaglio; egli aveva infatti letto tutti i libri possibili e lo conosceva perfettamente.
Tra i miei assistenti di Corso più o meno regolari ne abbi uno che ben poteva definirsi un baldo giovane. Rimase per qualche anno al mio più completo “servizio” e poi sparì e per quel che mi concerne per sempre. Non saprei infatti dove possa trovarsi e non mi ricordo nemmeno il suo nome.
Era efficiente e sbrigativo.
Trattava con gli studenti disciplinando la coda al mio corso. Questa capacità la si doveva al suo carattere e da quell’ esperienza di vita che senz’altro dipendeva dal suo carattere, perché com’ io la penso, quel che nella vita ci occorre si può ,se non proprio dedurre, perlomeno desumere, anticipare dal carattere che ci è dato in sorte una volta per tutte dall’incontro genomico dei nostri genitori.
Aveva fatto parte della missione militare italiana in Libano. Lo aveva fatto perché lo stipendio era buono, consistente.
Era di complessione robusta, un pezzo d’uomo come si dice, un pargolo sviluppato di quel quartiere pieno di sorprese e degrado che è la Marghera di Venezia.
Mi raccontò episodi personali e illuminanti del suo essere stato militare in terra straniera.
Mi disse che il suo rapporto con i locali fu eccellente e produttivo e ciò concise con altre relazioni che mi furono confidenzialmente fatte dai vari studenti libanesi con cui ebbi a che fare e che coincisero con un esame, allora di moda, di “eating art” che feci insieme ai miei commissari in trasferta in un appartamento di Mestre. L’esame consistette in una degustazione di specialità arabo libanesi, di veri e propri manicaretti confezionati per me e quell’altro commissario d’esame, dopo che ci eravamo portati apposta, violando qualche disposizione formale certa che non sapevo, nella loro dimora affittata.
Altri miei studenti libanesi di allora mi dissero che un radio-registratore con cui mi accompagnavo, dopo averne sentito il costo, una roba così dalle loro parti si trovava a un prezzo ben inferiore, per assenza d’ imposizioni doganali credo, e non solo di questo mi riferirono anche che dalle loro parti si trovano banche disponibili e soldi con ulteriore facilità.
A dire il vero però conobbi altre narrazioni del Libano come quella di uno studente che si era formato presso una scuola superiore governata da Gesuiti. Costui ebbe per il mio esame un’idea semplicissima che premiai con il massimo voto e consisteva in un album, privo di ogni verbale didascalia, di personali foto ricordo inframmezzate con altre come brani di depliant turistico commerciali. Il tutto non aveva alcun riferimento verbale extra tema. La combinazione era perfetta estraniante, perché il personale dell’amalgama visivo del personale aneddotico con del comune patinato erano stati resi perfettamente omogenei.
Ebbene il mio baldo assistente mi raccontò degli ottimi rapporti che lui soldato della missione e i suoi commilitoni italici intrattenevano con il locali. Erano a quel che ho capito rapporti specialmente commerciali e confidenziali comunque.
Dopo questa missione in Libano ritornato in patria bazzicava all’Università e si era ancora proposto prima di me come assistente ad un altro mio collega sfortunato che ritrovai un giorno in una locanda di Belluno dopo molti anni. Ma non ebbi il piacere per la sua morte di rincontrarlo ancora invitato nella sua casa in riva degli Schiavoni. Ci eravamo persi di vista dal tempo di una fanciullezza trascorsa insieme, appena dopo la fine della guerra, dalle parti di San Giovanni Evangelista dove abitava allora. Accompagnati da mia madre andavamo in gita al Tronchetto per vedere l’ammasso dei camion Dodge degli alleati americani e per raccogliere non so che pezzi di vetro fuso rimasti sulle banchine del porto lungo la fondamenta.
Il mio baldo assistente ancora era dannatamente astuto ed efficiente. Era stato capace con la tecnica dei prestigiatori e degli zingari, una volta, a sfilarmi l’orologio dal polso senza che me ne accorgessi. Era superiormente in possesso di quella tecnica che nella sua massima generalità si definisce come “misdirecting” cioè la capacità di portare l’attenzione del succube da tutt’altra parte per potergli poi sfilare il portafoglio di tasca magari urtandolo fisicamente … fino a farlo cadere o semplicemente e meno traumaticamente distogliendo la sua attenzione da tutt’altra parte!
Stavo in perfetta solitudine nel mio eremo montano, da poco pervenuto all’efficienza, dinanzi al mio focolare danese, quando nel cuore dell’oscurità prematura della stagione quasi invernale incombente sentii battere all’uscio della porta. Non avevo ancora installato il mio campanello tirante che consiste nell’estrarre un pomolo di legno con attaccati all’estremità di una cordicella dei sonagli dentro casa che scossi mi avvertono di una estranea presenza.
Dove abitavo quei residenti, che ora non sono nemmeno quindici e un po’ sparpagliati, erano allora una trentina. Ciononostante mi chiesi chi potesse essere degli abitanti visto che da una certa ora in poi non si vedevano proprio e mi alzai curioso e andai ad aprire senz’alcun timore.
Bussava all’uscio del Maestro, come anche lui mi chiamò o Capo per usare un’espressione confidenziale più veneziana, il mio assistente che preso dalla curiosità di vedere dove stavo, era venuto a trovarmi. Ma non era solo! Si era portato con sé e non so proprio dove l’avesse recuperata, una giovane amica brasilera.
Feci loro una bella accoglienza.
In quella solitudine eletta vedermi comparire due belle immagini di giovinezza mi diede un piacere privilegiato data la combinazione degli eventi.
Ecco insieme un prof. stagionato, il suo assistente avventuriere e la sua bella a Ronch, frazione di san Tomaso Agordino, borgo dolomitico a 1247 metri di altitudine sul livello del mare.
Si parlò come si dice del più e del meno di quel che avevamo in comune.
Il mio assistente gioioso dell’avermi trovato e sicuramente orgoglioso della bella preda che si era portata dietro, volle per rendermi sicuramente ancor più soddisfatto della sua venuta lanciarmi un complimento inevitabile:
“Che bella casa che ha professore! “
Feci mostra d’incupirmi invece che di rallegrarmi come si aspettava e gli risposi:
“ Ma come .. chiami questa una casa?”
Mi rispose con parole d’interdizione o rimase in silenzio e il senso avrebbe potuto essere ma non è questa una casa e se non è una casa che cos’è …
“ Chiami questa una casa … ma non è una casa!”
“E allora che cos’è?”
“ Questa non è una casa è un mondo”
Si può chiamare una casa un luogo in cui si trovano enciclopedie d’ogni genere e lingua dal cinese al tedesco, dizionari, lessici monolingui e bilingui, classici e moderni, opere di medicina introvabili, di psicologia rare e di matematica e logica che non si trovano nemmeno nella biblioteca di facoltà di matematica dell’università di Padova, letteratura horror e specialistica di prestidigitazione e giochi d’azzardo ecc. ecc. ecc.
Io sono i miei libri, i libri sono il mio mondo, io sono Ronch uno sperduto borgo della montagna agordina in cui si trovarono un giorno un professore di scenografia, un baldo giovane suo assistente e la sua giovane amante brasiliana.
Non occorre certo come il dio Ganesha che mi sposti da qui per sapere il Mondo.
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