Mi siedo al margine della strada.
Il guidatore cambia la ruota.
Non sono contento di dove vengo.
Non sono contento di dove vado.
Perché guardo il cambio della ruota con impazienza?
[Bertolt Brecht]
Questa citazione apre un capitolo del libro Ciavete fatto caso? (People-Idee, 2024, € 12,00) di Marco Tiberi, scrittore, sceneggiatore per il cinema e la televisione, autore di documentari di divulgazione scientifica e copywriter.
Nelle 184 pagine del volume sono raccolti gli scritti “politici” dell’autore, a partire dai corsivi pubblicati nella rubrica Ossigeno della rivista People.
L’obiettivo della rubrica, secondo l’autore, “sarebbe quello di svelare piccole o grandi circostanze che, nonostante la loro evidenza, sono rimaste nascoste nel dibattito corrente e qualche volta corrivo”.
La modestia dell’enunciato fa parte dello stile dell’autore, seguace di quella “retorica” anti-narcisistica professata dal suo principale riferimento professionale e maestro, Furio Scarpelli, che sosteneva che non si dovesse usare la parola “io”, e per questo, errando, sosteneva che le “idee di Marco Tiberi non interessano niente a nessuno”. Invece interessano.
Gli argomenti toccati nel volume sono quasi esclusivamente relativi alla crisi della sinistra italiana. I drammi del mondo, la guerra in Ucraina e i crimini israeliani in Palestina, così come la crisi della democrazia americana e l’inabissamento della Unione Europea non hanno luogo. Giacciono sullo sfondo. Solo alla crisi climatica sono dedicate alcune pagine.
Sono certo che non si tratti di indifferenza o superficialità.
La cifra stilistica della critica e delle analisi di Marco è una ironia intelligente, esercitata con pacatezza “romana”, mai violenta o sopra le righe, mai indirizzata ad personam (tranne pochi, rari casi).
È chiaro che non è possibile sorridere se si parla della possibile guerra nucleare o della mattanza perpetrata da Israele in Palestina.
Invece il sorriso è d’obbligo per il titolo del primo capitolo del libro, dedicato alla caratteristica predominante della strategia (o della assenza di strategia) della sinistra negli ultimi decenni:
“Chi ferma è perduto”
Con l’abilità dei migliori titolisti del manifesto, Marco fotografa impietosamente il vuoto di proposta politica dei Democratici di Sinistra prima e del Partito Democratico poi.
Tutto è cominciato con Berlusconi. Fermare Silvio è stato l’imperativo infinito che ha caratterizzato gli anni migliori della vita di molti di noi, ma non ci siamo resi abbastanza conto che, mentre eravamo impegnati a fermare il Caimano, dilagavano comunque, inarrestabili, la delegittimazione culturale della politica e la delegittimazione politica della cultura.
Dopo, il fine ultimo della politica diviene “fermare il populismo” e, infine “fermare le destre”, con i risultati che tutti conoscono.
Sembra di vederli ancora oggi i visi dei leader della sinistra, tutti compresi della “responsabilità nazionale”, ammantata di (presunto) togliattismo, nella espressione di una pensosa e sofferta serietà di chi è costretto a svolgere i compiti ingrati che spetterebbero ad altri, agli incapaci di una destra inadempiente e arruffona.
Leader orgogliosi delle “lenzuolate” di privatizzazioni e liberalizzazioni di servizi e aziende, responsabili della cancellazione di interi settori industriali della produzione nazionale, e della trasformazione anarchica della struttura economica delle città e dei territori.
Incapaci di formulare, una volta al governo del Paese, una legge sul conflitto di interessi, o una regolamentazione della immigrazione che superasse la miseria della legge Turco-Napolitano, o della Bossi-Fini.
Tra le innumerevoli anomalie alle quali il nostro Paese ha dato vita nella sua lunghissima storia, c’è anche questa: a cavallo tra i due millenni tutte le spinte al cambiamento, anche se in peggio, sono arrivate da destra o dall’antipolitica e chi, invece, il cambiamento avrebbe dovuto promuoverlo si è dedicato più che altro a fermare.
Ogni intervento di Marco ha queste caratteristiche. Una visione “dall’alto” dei fatti, sintetica, apparentemente semplice, intelligente e critica, senza alcuna violenza né personalizzazione, formalmente pacata, ma che lascia trasparire la delusione, forse ben più della delusione, per il corso della storia.
Da un corsivo non ci si può attendere una analisi storica di un fenomeno così complesso. Una volta di più, dopo la lettura degli articoli di Marco, avvertiamo il silenzio che segue alla domanda:
Come è potuto succedere? Come, e a causa di chi, in meno di dieci anni il più forte, indipendente, organizzato partito della sinistra europea, saldo, anche nelle fasi più ambigue e problematiche della sua storia, nella linea anticapitalista e antimperialista, si è trasformato nel fautore più acritico e passivo delle riforme liberali e della presenza e attività della NATO, fino al punto da guidare i bombardamenti sulla Serbia e a cancellare la stessa idea di un possibile socialismo?
Bisogna tornare ai sorrisi. E probabilmente il vertice della intelligente ironia di Marco sulla storia recente della sinistra lo si può collocare nel momento in cui immortala in una battuta un vezzo linguistico di Veltroni (ma con antecedenti riferimenti berlingueriani). Il fondatore del Partito Democratico.
Per simulare una grande complessità dialettica, una superiore articolazione concettuale, uno spalancarsi di orizzonti di pensieri strutturalmente collegati, l’erede di Gramsci, Togliatti e Berlinguer usava ripetere ossessivamente la locuzione “MA ANCHE”.
Si, c’era stato Berlinguer che aveva cominciato, “Conservatori, ma anche rivoluzionari” ecc. ecc.
Ma con Veltroni l’ossessione dell’articolazione dialettica giungeva a un apogeo.
Per concludersi con il fulmine di Marco Tiberi:
“La banalità del MA”.
Una tesi felicemente provocatoria sostenuta dall’autore in uno dei suoi scritti più impegnati (Il Sequestro. Controstoria del Partito Democratico, novembre 2022) è quella secondo la quale “il PD ha da diverso tempo sequestrato più o meno il 20 per cento della popolazione italiana. Alcuni milioni di connazionali di orientamento progressista sono tenuti prigionieri e costretti contro la loro volontà a esprimere a ogni consultazione elettorale un voto sostanzialmente coatto”.
Per capire come sia potuto accadere, e chi siano quelli che “ci hanno stordito con il cloroformio, ci hanno messo un cappuccio in testa e ci hanno portato in un luogo politico a noi ignoto, isolato e segreto dal quale non siamo più riusciti a evadere”, Marco si rifà ad una celebre intervista a Giulio Santelli su RaiNews24 dell’andreottiano Cirino Pomicino, nel quale si riferiva del disegno del “salotto buono” del capitalismo italiano, con De Benedetti e Agnelli in prima fila, teso a fondare un centrosinistra al quale avrebbe dovuto partecipare il PDS, ma anche esponenti della ex-DC.
Qui penso che Marco faccia una confusione “zoologica”. Le belve che si riuniscono per dividersi le spoglie del più grande partito comunista dell’Occidente, e sequestrarne gli elettori, non sono quelle riunite sotto le bandiere di Giustizia e Libertà nella sede di Mediobanca. Queste hanno al massimo le parvenze, e la funzione, che la natura riserva agli sciacalli.
Le vere belve erano già passate e avevano già colpito prima. Con l’omicidio di Aldo Moro e di Piersanti Mattarella, e il conseguente tracollo della strategia di Berlinguer del compromesso storico, il colpo mortale era stato inferto. La caduta del Muro di Berlino e lo scioglimento dell’Unione Sovietica avevano terminato l’opera.
Il tentativo di un reset con la svolta della Bolognina aveva messo a nudo la fragile realtà del gruppo dirigente del PCI e la povertà della elaborazione teorica e politica degli intellettuali che intorno ad esso ruotavano. Nessuno, dagli ingraiani ai nipotini della scuola di Francoforte, dai riformisti filo craxiani all’aristocrazia del manifesto, seppe emettere un vagito politico.
Oggi appare chiaro perché lo “spirito del Lingotto”, come giustamente ricorda Marco, nasca non casualmente nel luogo dove, nel 1954, gli Agnelli avevano deciso di sgomberare la Casa del Popolo, radendola al suolo.
Molti erano finalmente sollevati: dopo aver passato la loro vita precedente a cercare di distinguersi dai russi, ora stavano imitando gli americani. Americani nel nome, nella postura, nella comunicazione… Quel 2008 è stato per il mondo l’anno di Barack Obama.
Tutti ricorderanno per sempre lo slogan della sua campagna: “Yes we can”. In quanti, invece ricordano lo slogan del PD per le elezioni lo stesso anno? Era “Si può fare”. Tra i due slogan una minuscola differenza. La differenza sta tutta in quel “we”, quel “noi”. C’era nello slogan di Obama l’urgenza di rappresentare delle persone, di rendere qualcuno partecipe di un grande processo di cambiamento… Si può fare, invece, a chi era rivolto? La scelta della forma riflessiva era una chiamata per il ceto medio altrettanto riflessivo? Quale popolo il Pd si candidava a rappresentare? Mancava un “noi” e manca ancora”.
La citazione di Brecht con la quale Marco inizia la redazione di questo capitolo (Il sequestro) ci porta a individuare un elemento di fondo del suo lavoro di analista politico (e di letterato): la speranza. Se da un lato non troviamo nei suoi scritti indignazione, rabbia, risentimento, o disinganno, sconforto, ma, come abbiamo già detto, ironia, pacatezza, pulizia formale, è perché al fondo rimane un potente elemento dinamico. La speranza appunto. Qualcosa che è in relazione con la categoria descritta nell’opera di Ernst Bloch (Il Principio Speranza) e che costituisce una fondamentale rilettura di Marx e della storia della sinistra occidentale.
È mia convinzione, peraltro, che la riluttanza a proseguire nella attività di critica, di ricerca delle cause lontane della crisi epocale della sinistra italiana (ed europea) nasce anche da un altro motivo:
Marco Tiberi è fondamentalmente uno scrittore. Uno sceneggiatore di professione, ma un romanziere nato. Chiunque abbia avuto la opportunità di leggere la sua opera meglio riuscita, L’ultima morte di Peppe Bortone (People 2020, € 15.00) non potrà che concordare.
Un romanzo breve perfetto, tenero e avvincente, equilibrato in tutte le sue componenti, formali e stilistiche.
Per questo sono convinto che la fine improvvisa e prematura di Marco poco meno di un anno fa, oltre al dolore indicibile per la sua famiglia, costituisca una perdita per cultura del nostro paese.
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