A Beirut,/ Dal mio cuore pace a Beirut / E saluti al mare e alle case / Alle rocce / Come se Il suo volto fosse un antico deserto… / È Un volto che somiglia al vino / È Il suo profumo è pane e gelsomino / E così com’è diventato / Un sapore di fuoco e fumo /A Beirut, /Un santuario dai mesi di Ramadan / A Beirut, / Dal suo sangue e dai suoi figli / Ha sollevato / sopra la sua mano / Le luci della sua città / Ha chiuso la sua porta… / È diventata nella sera e la sua notte / La sua notte e la notte
A Beirut, / Dal mio cuore pace a Beirut / E saluti al mare e alle case / Alle rocce / Come se Il suo volto fosse un antico deserto 7 Tu sei per me, tu sei per me, / Ah, abbelliscimi, tu sei per me / La mia bandiera e la ricompensa di domani e l’onda dei viaggi / Le ferite di un vicino sono apparse, le ferite sono apparse / Le lacrime delle madri sono scorse / Tu sei Beirut per me, tu sei per me, ah, abbelliscimi…
[“Li Beirut” – “A Beirut” in arabo – è stata scritta e interpretata da Fairuz durante la guerra civile libanese (1975-1990). Pubblicata negli anni Ottanta, la canzone è un inno di resistenza e speranza per i libanesi, ma anche un messaggio universale di sofferenza e amore per le città colpite dalla guerra].
Ci sono delle frasi, a volte molto semplici, che segnano la storia dei popoli, o degli Stati. La sera del nove gennaio 2025, quando il neo presidente della Repubblica del Libano, Joseph Aoun, ha detto nel suo discorso di insediamento davanti ai deputati che lo avevano appena eletto a larghissima maggioranza che lo Stato è il solo intitolato a controllare le armi nel Paese, non ha soltanto dichiarato chiuso il ventennio di egemonia armata di Hezbollah, ma ha anche annunciato il ritorno dello Stato come soggetto reale e non come surrogato di altri poteri.
Con il suo motto “armi, popoli, resistenza”, Hezbollah aveva infatti dichiarato, nel 2000, una curiosa resistenza armata contro un occupante che si era ritirato. Un sotterfugio aveva costruito nella notte un lembo di terra non liberato, l’appiglio al quale aggrappare la permanenza della più possente milizia khomeinista in armi, mentre tutte le altre le avevano deposte alla fine della guerra civile, dieci anni prima. Nasceva così uno Stato nello Stato, con il suo esercito, e il suo governo, che era l’ufficio della guida della rivoluzione iraniana, come indicato per scritto nell’atto costitutivo di Hezbollah. Dunque il Libano era il contenitore, debole, di uno Stati virtuale molto più forte: il terminale sul Mediterraneo dell’espansionismo persiano, giustificato religiosamente dall’obiettivo di esportare la teocrazia khomeinista.
Nel 2005 lo Stato di dentro, Hezbollah, ha lanciato la sua Offerta Pubblica di Acquisto su tutto lo Stato libanese, con l’assassinio dell’ex primo ministro, Rafiq Hariri. Non è stato solo un delitto politico seguito da molti altri, contro politici e intellettuali colpevoli di non pensarla come Hezbollah: è stato un delitto culturale. Hariri portava la responsabilità di aver ricostruito il centro di Beirut, restituendo al palazzo Libano il suo luogo comune, lo spazio che unisce narrative diverse se non opposte. Quello spazio subito dopo il delitto è stato posto sotto assedio da Hezbollah per determinarne il fallimento e imporre se stesso, come dice il citato slogan, “armi, popolo, resistenza”: non doveva esserci altro valore che l’asse della resistenza khomeinista.
Per ironia della sorte la vittoria di Hezbollah e del suo motto “armi, popolo, resistenza”, fu sancita dal presidente che riuscì poi a imporre, Michel Aoun, che appena eletto si accostò fiducioso proprio quelle tre parole, benedicendo armi non controllate dallo Stato, da capo dello Stato. Lo Stato rimaneva sulla carta, ma era un involucro strappato dal quale erompeva il vero Stato, Hezbollah, strumento regionale e regista dell’esportazione miliziana del khomeinismo e della milizianizzazione forzata delle comunità sciite, avamposto della khomeinizzazione dei Paesi coinvolti: Iraq, Siria, Libano, e poi Yemen.
Le cose sono andate avanti fino alla scommessa decisiva di hezbollah: dichiarare una guerra a bassa intensità di sostegno a Gaza subito dopo il 7 ottobre. Lo scopo era arrivare al cessate il fuoco della sua guerra a bassa intensità con Israele ma solo dopo quello di Gaza, per intestarsene la paternità e quindi rivendicare di aver “vinto” loro la tregua. Tutto questo non ha spostato di un centimetro la situazione bellica a Gaza, ma ha consentito a Israele, in base alla sua agenda, di intervenire quando ha ritenuto contro Hezbollah, che poi era il Libano, visto che Hezbollah ha unilateralmente avocato a sé la politica nazionale di difesa.
Joseph Aoun non è politico ordinario, come diversi suoi predecessori dalla fine della guerra civile era il comandante in capo dell’esercito. Anche Michel Aoun lo era stato, ma molti anni prima di diventare Presidente. Questa posizione sembrava porre il nuovo Aoun nel solco dei suoi predecessori, filo iraniani e filo siriani per lo più (non tutti), ora lui filo americano e filo saudita, visto il grande pressing che proprio americani e sauditi hanno fatto per far sì che dopo 26 mesi di paralisi il Libano si decidesse a eleggere un Capo dello Stato e che quel Capo dello Stato fosse lui.
Ma il discorso di Joseph Aoun ha raccontato una storia, forse, diversa: lo vedremo, ma i primi atti del suo mandato spiegano quale.
Se la prima emergenza è quella del cessate il fuoco, da attuarsi pienamente entro il 27 di gennaio per ottenere, adempiendo, anche il ritiro di Israele da tutto il territorio nazionale, Joseph Aoun dà le garanzie di farlo al meglio del possibile nonostante le resistenze di Hezbollah, che segni di disarmo reale non ne dà ancora. Ma siccome il Libano è in macerie istituzionalmente, economicamente e giuridicamente, e visto che queste macerie non le ha causate solo Hezbollah, ma tutti gli altri attori politici che mantengono il Libano paralizzato al tempo della guerra civile in un consociativismo confessionale spartitorio e feudale, lui ha indicato chiaramente anche l’atra priorità: ricostruire lo Stato per tutti i libanesi, veri cittadini di un Paese sovrano. Eletto un lunedì sera, in pochissimi giorni ha portato la larghissima maggioranza del Parlamento a indicare come nuovo primo ministro non un politico navigato, capace di smussare gli angoli con Hezbollah e magari con gli altri partiti urtati dalla sua ruvidità, ma un giurista formatosi in Europa, tra Harvard e la Sorbona, un liberal cultore di quel sistema detto “rule of law”, cioè il fumo negli occhi per tutta la casta libanese. Ma siccome lui si chiama Nawaf Salam, fino a quei giorni ancora Presidente della Corte Internazionale di Giustizia, chiaramente di uno dei pochi simboli viventi di un Libano di valore universalmente riconosciuto, l’entusiasmo popolare è stato tale e i consensi internazionali cos’ trasversali che nessuno ha potuto dire “no”. Anzi, per favorirne l’ascesa si sono mossi addirittura i sauditi di bin Salman, che non sono considerati di loro cultori appassionati dello Stato di diritto. Come mai? Anche su questo, come su Joseph Aoun, bisogna stare attenti a non confondere i propri desideri con la realtà. Ma sembra plausibile che a Riad, dove l’agenda politica non la dettano più gli oscurantisti wahhabiti, ma un principe che vuole vedere emergere intorno al suo Paese quella stabilità soddisfatta che consenta alla sua conversione economica di attrarre finalmente adeguati investimenti e turisti, dunque non vuole colonie politiche, ma Paesi tranquilli, non in preda a veemenze jihadiste o estremiste. E in Libano questo è possibile solo ricostruendo uno Stato e dei cittadini, che si rispettino e vivano insieme come possono, meglio se con un sistema affluente. E il Libano affluente prima della guerra civile lo era.
Nawaf Salam ha fatto anche lui un grande discorso di insediamento, ma ha detto una cosa stupefacente: ha fatto riferimento agli accordi pace, gli accordi di Taief, del 1990, dicendo come tutti che li rispetterà, aggiungendo però che rispetterà la parte attuata e quella non attuata di Taief. Cosa vuol dire? Una delle prima disposizioni di quegli accordi prevede il progressivo superamento del sistema confessionale. E questo ogni libanese sa che vorrebbe dire liberarsi da una casta che li ha immiseriti, ridotti a clienti, bloccati alla ritualità paralizzante dei partiti confessionali.
Questa ritualità si è vista all’opera confermando per 30 anni alla guida della Banca del Libano la stessa persona, Riad Salamah. La sua epoca è finita solo con il collasso economico e i mandati d’arresto spiccati da mezza Europa, ma non prima che disponesse con una mano il blocco di tutti i conti correnti in valuta pregiata e con l’altra, la non regolamentazione dei flussi di denari, consentendo poco prima del default una fuga di capitali all’estero enorme, stimata in 14 miliardi di dollari. I giornali libanesi li hanno definiti “i soldi della casta”.
Avviare la deconfessionalizzazione con un Parlamento confessionale non sarà facile, con l’ostilità di Hezbollah sarà ancora più difficile. Ma Nawaf Salam sembra aver un’idea: un governo tecnico, che impedisca a Hezbollah di nominare ministri pur in presenza di “tecnici” sciiti. Questo soddisfa e non poco avversari politici del partito di Dio, che però non potranno mettere loro uomini nel governo. Anche le quote degli altri saranno di tecnici. Tutti i nuovi ministri, si dice, non potrebbero candidarsi. Questo tranquillizza i partiti, ma libererebbe i futuri ministri dai loro condizionamenti. Non potendo candidarsi sarebbero “liberi”. Ovvio che tutto dipenda da quanto saranno anche “capaci” questi nuovi ministri: e autorevoli. E’ una sfida. Una sfida che però potrebbe produrre una nuova legge elettorale e aprire la strada alla rivoluzione.
La rivoluzione sarebbe l’attuazione di quanto previsto, come possibilità, dagli accordi di pace di Taif: e cioè passare al bicameralismo, con un Senato dove si vota come adesso, e cioè per appartenenza confessionali su quote prefissate e una Camera dove invece si vota come da noi, sulla base di preferenze per partiti politici. L’idea è semplice: dare garanzie a tutte le comunità e dare i diritti a tutti gli individui. La prima conseguenza è semplice: potrebbero nascere finalmente partiti interconfessionali, dove un sunnita, uno sciita e un cristiano militano insieme essendo tutti e tre socialisti, liberali, conservatori, o altro ancora. Ma non è tutto qui. Ci sarebbe finalmente un sistema che tutela e valorizza comunità e individui. E questo per Paesi complessi sarebbe una svolta. Sarebbe un esempio, al di là della formula, anche per noi, per immaginare una democrazia più inclusiva e articolata. Discorsi futuri, non immediati, ma che sono possibili e restituirebbero valenza politica e culturale al Levante.
Questo potrebbe riavvicinare Beirut e il Libano. Montanaro, identitario, il Libano non è come Beirut e con il valore interconfessionale della città, una città araba, occidentalizzata, mediterranea potrebbe tornare a essere faro culturale e commerciale, economico, anche per i paesi vicini, visto che il Mediterraneo potrebbe finalmente diventar il punto di approdo anche della Siria e, forse dello stesso Iraq.
Scenari futuri, certamente, ma Beirut, che Samir Kassir definì “città strana ma araba, araba ma strana” ha molto da offrire a tutto il Levante con la sua storia non montanara. Tutto sommato le montagne erano sì un luogo identitario, di orgoglio, ma i libanesi secondo Amin Maalouf, potevano difenderle un giorno e altrettanto naturalmente lasciarle il giorno dopo. E’ stata Beirut il luogo comune che ha saputo unirli per la forza dalla prospettiva economico-marittima, diventando il punto di arrivo di chi fuggiva dalle guerre tribali e li si è trasformato in borghese o operaio sindacalizzato. Questa radice antica è quella che emerge nel profondo della scelta di Aoun e Salam, ancora ai suoi esordi ma densa di possibilità, se non ci si incaglierà negli enormi scogli dell’oggi. L’aiuto della comunità internazionale non varrebbe solo per il Libano, ma per dare una prospettiva a tutta l’area del Levante arabo, e oltre. I primi a capirlo sembra siano stati i sauditi. Ma la visita di Emanuel Macron ha dimostrato che questa volta la Francia non va in direzione opposta.
L’articolo Li Beirut proviene da ytali..