Il 47° presidente degli USA Trump va alla guerra dei dazi. Dire però che questi sono una novità nella politica statunitense equivale a fare una narrazione immaginaria. In effetti, fin dalle origini, già Hamilton auspicava nel suo Rapporto sulle manifatture alla fine del Settecento l’adozione di una politica protezionistica per tutelare la nascente industria statunitense dalla concorrenza dei prodotti industriali inglesi. Tant’è che nel 1816 furono imposti dazi di circa il 35 percento su l’import di questi ultimi. Anche se va detto che, dopo la Seconda Guerra Mondiale e gli accordi monetari di Bretton Wood, Washington si sia presentata, almeno nella forma, con la voce del custode del libero commercio mondiale. Resta comunque che, ieri come ora, in ambito di commercio internazionale più che di libero scambio in antitesi ai dazi è meglio parlare di mercato politicamente trattato.
Negli USA oggi la questione del protezionismo va letta diversamente che dal passato. Allora si trattava di proteggere industrie nascenti (l’ha fatto pure l’Italia nella seconda metà dell’Ottocento altrimenti con le ricette liberiste sarebbe rimasta allo stadio agropastorale) mentre altra cosa è “chiudere le stalle” quando il bestiame è già fuggito. Come successo nella cosiddetta “cintura della ruggine”, l’area compresa tra i monti Appalachi settentrionali e i Grandi Laghi, vittima dell’emigrazione industriale verso aree dai costi più competitivi. Fenomeno che prende avvio, merita ricordarlo, prima del “tempo d’oro” della globalizzazione. Il punto è che con la deindustrializzazione oltre all’industria si perde capitale umano difficile da ricostruire. Quindi forse il danno è irreversibile, almeno nel breve. Mentre resta la rabbia dei “perdenti”. Insomma, un secchio d’acqua sul sogno americano.
Trump qui ha colto il businness politico grazie al quale ha conquistato la Casa Bianca. Alla base quel “Fare di nuovo grande l’America” (Make America Great Again, MAGA nell’acronimo inglese) che significa, non a caso, guerra annunciata al passivo commerciale degli USA. Una partita delicata per il presidente Trump che su questo ha preso il consenso di parte rilevante dell’America in rivolta. Il problema, passando dai comizi al governo, è che nel tempo il deficit commerciale ha stratificato interessi opposti interni alla stessa coalizione trumpiana. Ad esempio contro MAGA ci sono quelli di Wall Street e/o dell’immobiliare viceversa favoriti dal reimpiego in USA dal ritorno in USA dei dollari usciti per l’import di merci. Tra l’atro ciò implica un’alta domanda di dollari che nonostante il deficit commerciale garantisce un biglietto verde forte e la sua preminenza come valuta globale. Quindi le richieste di MAGA hanno costi politici.
Trump lo sa ma punterà a ottenere il possibile con trattative “dure”. Ma con un’opposta e più critica lettura del passivo commerciale degli USA rispetto alla “saggezza liberal” fin qui prevalente.
Un passo indietro nel tempo per inquadrare meglio la questione.
Punto di partenza le malandate economie dell’Europa occidentale dopo la Seconda guerra mondiale. Allora gli USA primeggiavano con quasi il cinquanta per vcento del PIL mondiale e conti esteri attivi sia per i movimenti di capitali che “reali”. Gli States potevano esportare merci e capitali. Come fecero con l’European Recovery Program, o piano Marshall, quando Washington finanziò con prestiti quell’export di beni (sia durevoli che no) sul quale si fondò la rinascita economica della parte sotto l’influenza statunitense del Vecchio Continente. Poi questi a loro volta iniziarono a esportare oltreatlantico. Fu così che il deficit commerciale degli States inizio a fungere da legame tra gli USA e la loro periferia.
Da allora il senso politico dell’apertura alle merci provenienti dai paesi alleati (ma non solo) è stato lo strumento di controllo/legame tra Washington e l’impero. Il problema è che questo nel tempo, specie con la globalizzazione, produce effetti che presto da economici diventano politici. Certo, nei paesi riceventi lo spostarsi della manifattura all’estero (altro sono gli investimenti puramente predatori) porta vantaggi. Qui merita ricordare le parole dell’economista ultra-keynesiana Joan Robinson per la quale lo “sfruttamento da sviluppo” per quanto terribile fosse preferibile al vuoto di speranze del sottosviluppo. Ma i paesi che perdono capitali e vedono degradarsi il capitale umano, specie se ai ritmi vorticosi del dopo ingresso della Cina nella WTO, entrano in sofferenza. Basta poi che un imprenditore politico sappia dare “voce” a questa rabbia sociale ed ecco pronto il fenomeno Trump.
Ecco perché il 47° Presidente degli USA ha preso consenso proprio per rilanciare il sogno della “Grande America”. Impresa ardua perché, come detto, la forza politica degli USA ha un suo punto di forza per i legami che il deficit commerciale crea. C’è inoltre un altro aspetto della questione. Ed è che gli USA, diversamente dagli altri paesi, possono accettare deficit commerciali ampi e di lungo corso grazie al fatto che il dollaro è la valuta regina del sistema economico internazionale. Questo perché i dollari che defluiscono dagli USA per pagare l’import sono ben accettati dai mercati. È l’effetto della forza di Washington garantisce politicamente il biglietto verde. Difatti o vengono reinvestiti in debito pubblico statunitense o in strumenti finanziari privati denominati in dollari. Pertanto nessun presidente, proprio per regioni di prestigio, può giocare la carta della svalutazione per correggere i conti esteri.
Vale pure per Trump che difatti in alternativa propone la strada dei dazi. Che poi è la strada della trattativa commerciale. Magari con più durezza con l’Europa che con la Cina che, come dimostra il “caso Nvidia”, può colpire duramente Wall Street. Anzi, per questo cercherà di assorbire quanti più capitali possibile dall’Europa. E pure reindustrializzare parzialmente gli States prima che coi dazi importando industrie dall’UE che qui ora hanno un costo dell’energia (la trappola ucraina) che minaccia di porle fuori mercato. La domanda è se Trump per i desiderata di MAGA possa o meno puntare all’azzeramento del deficit commerciale. Missione difficile ma coerente alla volontà presidenziale di rispondere alla fragilità geopolitica di una logistica troppo dispersa.
Per farlo al minimo ci vuole tempo. Anche se è certo che l’epoca che si apre presenta evidenti spinte de-globalizzanti. Di conseguenza è facile che si crei un mondo di aree meno aperte geoeconomicamente. Una possibile difficoltà per Trump, come detto precedentemente, è che attorno al deficit commerciale si sono stratificati diversi aree d’interesse diversamente favoriti/danneggiati dal deficit commerciale medesimo. Per questo la sua riduzione, ragionando per ipotesi, potrebbe creare una possibile frattura d’interessi tra MAGA e, ad esempio, l’immobiliare finanziato dai dollari che escono dagli USA per il deficit commerciale appunto per tornarvi impiegandosi nel mattone oltreché, naturalmente, a Wall Street. Operazioni ovviamente favorite dai bassi tassi d’interesse che favoriscono più la finanza a rischio che l’economia reale.
Il che significa che le scelte politiche concrete, vale per Trump come per tutti, obbligano a slalom per evitare di suicidarsi per il consenso. Quindi, come nel gioco dell’oca, si torna al punto di partenza. Ovvero alla politica dei dazi come deal, cioè alla politica commerciale contrattata. La cosa riguarda l’Italia che ha un attivo commerciale con gli USA. Il Belpaese in particolare esporta oltreoceano farmaceutica, macchinari industriali, autoveicoli e prodotti alimentari e bevande. La domanda è: quali conseguenze per i dazi? Dipende in primis se si tratti di beni sostituibili. Arduo, nell’immediato. Vale anche per i prodotti top (anelastici al prezzo se un elite di consumatori li compra pure se aumenta). In entrambi i casi (vicini alla realtà) i dazi si scaricherebbero sui prezzi. Un costo per Trump; Quindi c’è margine di trattativa. Ad esempio gas liquido e acquisti militari in USA.
Molta attenzione va pure posta agli effetti indiretti della politica commerciale di Washington. Sarebbe illusorio se Roma pensasse, grazie ai buoni rapporti intergovernativi oltreatlantico, di bypassare la “questione dazi” lasciando il fardello oltralpe. Perché eventuali “bastonate” di Trump all’industria tedesca, ad esempio, ricadrebbero in Italia data la forte integrazione tra i due sistemi industriali. Poi personalizzare troppo i rapporti politici dimentica erroneamente il peso delle logiche sistemiche. Pertanto l’Amministrazione Trump si annuncia come foriera di una esplicita politicizzazione dei rapporti economici internazionali. Anche con minor riguardo rispetto al passato con gli alleati tradizionali.
Una durezza antiretorica mai più sentita dal 1971 quando il Segretario al Tesoro USA John Connally ricordò agli alleati che il dollaro è la nostra moneta ma il vostro problema. Insomma, almeno se ci si limita al commercio internazionale, quello che spetta i vari partner degli States (Stati membri dell’UE compresi) è un “duro” deal perché sul deficit commerciale il 47° presidente degli USA ha vinto le elezioni. E senza i tradizionali formalismi almeno tra “amici” che funzionavano pure da ammortizzatori delle tensioni almeno nello spazio geopolitico della NATO.
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