L’avevano definito un pericolo per la democrazia. E poi, senza mezzi termini, “fascista”. A Joe Biden e a Kamala Harris fu rimproverato in campagna elettorale di aver alzato troppo i toni dello scontro con il rivale repubblicano. Avevano davvero esagerato? La domanda è tornata probabilmente nella testa dei due ormai ex che ieri ascoltavano Trump, lo sguardo spaesato, tra gli applausi sguaiati dei suoi sostenitori, mentre lui smontava con fredda furia, pezzo a pezzo, l’edificio politico del predecessore che gli aveva appena consegnato le chiavi della Casa bianca.
L’eversore, come lo dipinse ai suoi esordi politici una mitica copertina dell’Economist, è tornato, questa volta, per volere di Dio, che l’ha salvato, da un attentato ordito dai suoi nemici, “per fare di nuovo grande l’America”. Torna, Trump, non più solo contro tutti – i maggiorenti del suo partito, i pesi massimi di Silicon Valley, il grosso dei media e altri poteri forti – ma attorniato dai tutti questi suoi ex nemici, pigiati su un affollatissimo bandwagon che si rispecchia nella platea in estasi di fronte al comiziante presidenziale.
Consegnare la Nuclear football, la valigetta nucleare, a un commander-in-chief come il Trump che si è visto e si è ascoltato ieri nella Rotunda del Campidoglio è semplicemente traumatico e angosciante. Infatti il trasferimento dei poteri è molto drammatico, dietro l’apparenza di un tranquillo passaggio del testimone da un presidente uscente al suo successore. Il dramma è già condensato, prima della cerimonia dell’incoronazione, nell’atto di un presidente che esce dalla Casa bianca, avendo firmato solo poche ore prima una serie di pre-emptive pardon, atti di clemenza presidenziali “preventivi”. Tra i beneficiari personalità che hanno lasciato un segno – John Kennedy li avrebbe inseriti tra i suoi Ritratti del coraggio -: il dottor Anthony Fauci, l’uomo simbolo della battaglia contro il Covid, e Mark Milley, il top general che sventò il tentativo di golpe del 6 gennaio. Una torsione costituzionale del potere di grazia che, per ammissione dello stesso Biden, è motivato politicamente, uno scudo necessario per proteggere persone dello stato – assolutamente non colpevoli di nulla, anzi – e lo stesso Biden e la sua famiglia dalla vendetta più volte annunciata da Trump nei loro confronti. Intenti e minacce che, in quello che Trump definisce il Liberation Day, diventano paure palpabili e angoscianti, in un discorso che è un comizio tutto politico, preludio di un’altra presidenza, che, al pari di quella precedente, sarà un esercizio quotidiano di populismo in connessione diretta con la sua base, un nuovo serial di un’infinita, permanente campagna elettorale.
Parole, quelle ascoltate ieri, a cui seguiranno fatti nel segno della vendetta. Che sarà immediatamente consumata nei confronti delle città guidate da sindaci democratici, le città santuario dove trovano protezione immigrati senza permesso, a cui sarà data la caccia poche ore dopo l’insediamento. Poi seguirà una raffica di direttive draconiane volte a frantumare l’ancora fragile edificio di diritti acquisiti faticosamente negli ultimi due decenni, che rispecchiano la nuova chimica demografica, con l’uscita alla scoperto di minoranze duramente e oppresse e represse e l’affermazione dei loro diritti, insomma tutto quello che ha consentito la costruzione di una società americana più aperta e plurale. L’America delle diversità che via via ha ridotto il potere, un tempo totale, dell’America bianca, è la nemica da mettere in ginocchio dall’amministrazione Trump.
La cerimonia d’insediamento e, il giorno prima, la manifestazione per la vittoria di fronte ai suoi sostenitori, sono serviti a comunicare plasticamente l’ingresso in questa nuova epoca: la platea del Capital One Arena, con i sostenitori di Make America Great Again, il popolo bianco, e il pubblico nella Rotonda, un parterre dove sono rare le persone di colore e del tutto assenti quelle che dovrebbero incarnare il “common sense” che predica il miliardario di Manhattan, mentre è fitta la presenza di maschi alfa e di miliardari, un concentrato di ricchezze e di ricchezza, in quello piccolo spazio, pari al pil di grandi paesi. In prima fila non solo Musk e la cricca dei tech billionaire, ma anche straricchi vecchio stile, come Mariam Adelson, la più importante donor sia di Trump sia di Netanyahu, e cruciale liaison tra loro.
Per Trump hanno votato oltre 77 milioni di elettori, per Kamala oltre 75. Non una vittoria a valanga, come il re dei presuntuosi ha anche ripetuto ieri, non un significativo spostamento di “pesi”, come affermano anche guru blasonati. Sono cifre che fotografano un’America democratica che c’è, e che ha i numeri per contare e per uscire dal comprensibile spaesamento di una dura sconfitta. Politica, certo, ma non epocale.
il manifesto
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