Renzo Guolo ha in libreria la sua ultima fatica, Una missione civilizzatrice (Meltemi), 2024). Il libro, come i tre precedenti, affronta con le categorie della sociologia della conoscenza e della sociologia della scienza un aspetto cardine della cultura francese del primo Novecento: lo sviluppo dell’etnografia. Nonché dei suoi rapporti con la Teoria sociale coeva e precedente a Èmile Durkheim e a Marcel Mauss. Questo è l’orizzonte concettuale di partenza entro qui si muove il protagonista del lavoro di Guolo: Marcel Griaule, poi primo titolare di cattedra di etnografia alla Sorbona.
Una missione civilizzatrice fa una scelta precisa: far parlare direttamente l’etnologo e i suoi scritti disciplinari. Ciò consente al libro di far emergere il mondo sociale e intellettuale che accompagnava l’avventura dell’etnografia in Africa: dagli specialisti della materia, ad altri portatori d’interessi (lo Stato coloniale francese, ad esempio); alle popolazioni studiate; al contesto storico/politico.
In ragione di questa strategia espositiva la letteratura scientifica sulla disciplina, certo decisiva per impostare il lavoro, poi lascia il campo alla “voce” di Griaule. Attraverso la quale Una missione civilizzatrice porta a nuova vita un mondo che pareva sepolto.
Il Continente Nero, il “gioco africano”
delle potenze europee e l’etnografia
Il lavoro di Guolo ha come perno narrativo la Dakar-Gibuti, che è dei primi anni Trenta (1932) del Novecento, sebbene poi tratti eventi degli anni seguenti. Da subito si evidenzia come la Dakar-Gibuti sia una missione difficile in quanto viene a toccare una complessa scacchiera di interessi delle potenze coloniali, certo in Africa, ma con risvolti in Europa. In particolare segnati dall’attivismo africano del regime fascista. Una partita la cui posta per Roma incideva pure sulla scacchiera europea nei rapporti tra Parigi, Londra e la Berlino di Hitler. Erano i lampi che annunciavano la seconda grande tempesta europea.
Al contempo, è un periodo decisivo pure per l’etnografia francese. Impegnata proprio con Mauss in una profonda svolta. Da un lato l’intenzione è di superare la riduzione dell’etnografia all’antropologia fisica (misurazione a-storica dell’evoluzione di gruppi umani “semplici”); e, dall’altro, a dare spazio alla ricerca sul campo. È una soluzione di continuità rispetto a una visione meramente libresca della disciplina nel nome dell’esplorazione fuori dalle aule degli istituti di ricerca. È l’abbandono di un’etnografia letteralmente intesa come “da camera”. Dunque il crisma della nuova scientificità è la ricerca sul terreno anche in polemica con l’idealismo filosofico e il suo riduzionismo di tutto a storia della cultura.
Una missione civilizzatrice analizza il contributo di Marcel Griaule a questo cambio di paradigma della disciplina. Lo fa a partire dalla Dakar-Gibuti concepita come fase seminale del pensiero di Griaule. Peraltro l’intento di Guolo è altro dal voler ricostruire pensiero e vicende del Francese con uno sguardo esterno, ovvero da storico della disciplina antropologica. Viceversa il sociologo patavino lavora per linee interne. Vuole, piuttosto, che la disciplina e l’autore parlino in prima persona.
L’idea è di fare emergere un auto-resoconto dell’evoluzione dell’etnologia a partire dalle sfide metodologiche che incontra la ricerca di Griaule pressato sia dalle ambizioni africane dell’Italia fascista sia dal tradizionale colonialismo di Parigi. Va pure detto che si tratta di avvenimenti a modo loro affascinanti, tali perfino da consentire, volendolo, una lettura, certo meno “scientifica”, delle pagine di Una missione civilizzatrice quasi si trattasse di una narrazione storico/avventurosa.
D’altronde, implicitamente, talvolta lo stesso Guolo accetta il “gioco letterario”. Accade, ad esempio, quando nel volume si affronta la vicenda dell’omicidio di un “misterioso colonnello”, supposto ufficiale italiano in congedo e dedito in apparenza al commercio. Ma che in realtà è un agente operativo italiano. Qui, addirittura, alcune pagine del libro paiono assumere le sembianze della spy story. Ma è tutto meno che un cedimento dell’autore al fascino dell’esotismo misterico. Sebbene le vicende vi si prestino.
Piuttosto, sono le stesse vicende politico-spionistiche ad avere interesse teorico per meglio definire i condizionamenti cui è sottoposta la ricerca sul campo e la sua retroazione sul formarsi della disciplina. Cosa che emerge a partire dalla complessa trama dei rapporti politici incontrati dallo stesso Griaule con autorità locali (autoctone ed europee) sia durante la Dakar-Gibuti sia negli anni seguenti. Finanche esplicitando la fallacia del mito della “neutralità dell’osservatore”, quasi un mito fondativo del primo positivismo, quale premessa necessaria al conoscere.
Si rende così evidente la costante tensione tra “volontà di sapere” del ricercatore e, riflessivamente, l’impatto su questo dell’ambiente in cui si muove. La riflessione di Marcel Griaule lo comprova. Anche nell’affrontare questa complessa problematica Guolo conferma la sua scelta iniziale: evita di sovrapporre l’analisi dell’osservatore, la propria, al pensiero di Griaule; all’opposto opera affinché sia il Francese a far parlare l’etnografia.
Di conseguenza, Una missione civilizzatrice evidenzia come la stessa identificazione dell’oggetto della ricerca etnologica, prima che dipendere dall’osservazione, sia un momento proprio alle strategie conoscitive della disciplina (vale logicamente pure per l’abbandono dell’antropologia fisica). Nel senso che è la stessa costruzione del “cosa sono le popolazioni indigene a essere un fatto teorico”. Che poi però ha un impatto sullo stesso ricercatore. Non a caso sarà proprio la visione delle popolazioni indigene a rendere il Griaule sempre più ostile alla politica del regime fascista nel Corno d’Africa.
L’ombra dell’ideologia preservazionista
nell’etnografia di Griaule
Griaule rigetta la concezione che lega colonialismo a civilizzazione delle comunità indigene. Che al tempo assumeva persino la forma di l’ideologia “antischiavista” (significative alcune parole della paradossalmente censurata Faccetti nera”) con cui Roma si presentava nel Corno d’Africa. Il punto è che le motivazioni politiche dell’etnologo rimandano a questioni concettuali. Che, aiutati da Guolo, vediamo affiorare dai ragionamenti del Griaule medesimo.
Vi si arriva individuando due punti teoricamente determinanti della costruzione dell’”oggetto etnografico”. Il primo riguarda – anticipato di Mauss e la sua idea di “fatto sociale totale” incidente sull’intera struttura sociale coinvolta – l’abbandono dell’idea ingenua di società primitive come “semplici”. Insomma, l’etnografia francese di quel periodo supera la dicotomia semplice/primitivo e complesso/moderno e, di conseguenza, abbandona l’attribuzione di semplice/primitivo all’organizzazione delle comunità indigene. Il secondo, particolarmente incidente nella visione politica del Griaule, sta nel concepire queste comunità come espressioni di una storia autoctona. In particolare egli nega l’idea universalista di sviluppo umano destinata a ricalcare il modello eurocentrico di sviluppo.
Per l’etnologo si tratta pertanto di società capaci di esprimere valori autoctoni ma meritevoli di conservazione. Di qui nasce il suo atteggiamento preservazionista e, di conseguenza, la collisione col fascismo che in una logica sviluppo moderno contro arretratezza vuole dare senso di “missione civilizzatrice all’intervento nel Corno d’Africa. A ogni modo, oltre il conflitto valoriale del Griaule con la Roma fascista, merita sottolineare come vadano intesi come conquiste rilevanti dell’etnografia del tempo sia il superamento della dicotomia semplice/complesso sia la negazione di un’unica via alla crescita.
Il sociologo patavino fa emergere entrambi questi concetti in diversi momenti del suo dialogo/scavo col pensiero di Griaule. Lo fa, ad esempio, mostrando attraverso le parole di questi la complessità del pensiero religioso delle popolazioni studiate il cui necessario corollario è che esso rifletta una sottostante struttura sociale a sua volta complessa. Analogamente lo fa richiamando lo studio di Griaule titolato Il regime delle terre abissine. Opera che, oltre a voler essere “scienza impegnata” contro le pretese del colonialismo italiano, ben chiarisce attraverso lo studio della proprietà fondiaria la complessità del mondo africano studiato dal Francese.
In definitiva, il “primitivo” può essere tanto “complesso” (anche nelle forme di pensiero, teologico compreso) del moderno che del primo sarebbe un esito necessario. La qualcosa, seguendo il pensiero dell’etnologo francese, può portare a esiti paradossali. Il motivo è che il suo approccio preservazionista lo porta a mettere in discussione un aspetto chiave di quell’illuminismo di cui egli stesso, in quanto scienziato sociale, è figlio e l’etnologia un prodotto: i valori della modernizzazione. Con qualche spunto, per dire con Marx (Manifesto) “social-reazionario” visto che così Griaule propone alla Francia di adottare una forma di “colonialismo preservazionista” che rischia di essere distopico. Perché tende a ipostatizzare l’oggetto sociale dell’etnologia idealizzandolo e negandogli mutamento.
L’etnografia africana di Marcel Griaule
come studio di sociologia della scienza.
Una missione civilizzatrice è il resoconto di come l’etnologo sviluppa la propria disciplina in un contesto iniziale vincolato all’epistemologia positivista la cui premessa è che ’osservazione antecede la teoria. Dove quindi si deve partire “dalla ricognizione dagli “oggetti sul campo”. In questa prospettiva Una missione civilizzatrice studia dal punto di vista di sociologia della cultura e della scienza come nel primo Novecento francese prenda quella particolare forma di sapere sociale chiamata etnologia. E di come la disciplina si sviluppi in quella particolare “zona di frontiera” tra scienza e società e della loro reciproca coevoluzione data dal “vecchio” mondo coloniale europeo.
Il libro di Guolo, per la sua stessa impostazione, evita il tema della scientificità dell’etnografia ricercando misure astratte/normative di quest’ultima. D’altronde, questo pertiene a una ricerca di demarcazione (secondo la filosofia neopositivista e oggi discussa) tra scienza/non-scienza estranea a Una missione civilizzatrice. Ma impossibile anche per l’irriducibilità dell’etnologia (quantomeno quella d’allora, ma vale tuttora) a un insieme di proposizioni in forma logico/deduttiva, come viceversa è possibile per le scienze dure. Lo chiarisce stesso Mauss (in questo criticato da Levi Strauss particolarmente vicino al formalismo neopositivista), con l’autorevolezza di essere uno dei suoi padri fondatori. Tant’è che addirittura vuole gli etnografi lontani da eccessive suggestioni teoriche e, viceversa inclini all’osservazione e classificazione dei “fatti sociali” fatta sul terreno.
Difatti, sono altri gli aspetti su cui si concentra la ricerca sull’etnografia di Marcel Griaule, una disciplina allora allo stato nascente come scienza della cultura. Non a caso, come già richiamato, è sottolineata l’importante soluzione di continuità dell’etnografia che si allontana da un’idea di ricerca tutta centrata sulla “fisica antropometrica” per aprirsi appunto allo studio delle forme culturali e della loro evoluzione storica, pur con le preoccupazioni nell’ideologia preservazionista dello stesso Griaule. Il risultato è l’avvicinarsi della disciplina alla sociologia; però una sociologia “francese” d’oltremare.
Resta la questione dello sfondo concettuale di riferimento in cui si muove il Griaule: è il clima filosofico del primo positivismo. Cosa che da qualche apprensione teorica a Griaule medesimo. Il problema è che nella disciplina predomina un evidente “positivismo classificatorio” per il quale il fatto sociale è immediatamente rilevabile dall’osservazione e classificazione di vari reperti. Mentre il Francese dubita del pieno valore conoscitivo per la ricerca sociale di un approccio meramente osservativo.
Il tema è affrontato dallo stesso Griaule, ad esempio nel terzo capitolo titolato “Trionfale ritorno”, quando, rispetto all’imprimatur scientifico parigino, decide di compiere un salto epistemologico criticando il “carattere mortifero dei dati”. In altre parole mette in discussione il mero “descrittivismo” come prevalente metodologia sociale. Tant’è che giunge a richiedere l’ausilio della letteratura, una forma di sapere diversa ma che può essere complementare allo studio sociale.
Tema affrontato per il vero con grande prudenza onde evitare gli strali della comunità scientifica. In sociologia della scienza si chiama “effetto San Matteo” che tanto aiuta la ricerca “ortodossa” quanto può avere effetti negativi per ricerche/ricercatori troppo fuori linea. Griaule, pur nulla sapendo di ciò, è prudente nel parlare di letteratura evitando scomuniche come capitò al collega Leiris. Ma ridurre tutto ciò all’opportunismo del ricercatore sarebbe ingiusto. Il fatto è che, come Guolo fa ben emergere, il Griaule nel cuore resta un positivista legato in ciò alla tradizione prevalente dell’etnologia. Quindi, se da un lato capisce che repertare “fatti morti” è quantomeno insufficiente dall’altro resta convinto che la scienza debba descrivere riducendo al minimo l’interpretare.
Una contraddizione che il Griaule supererà solo pragmaticamente scrivendo, e così giustificandosi, di etnografia per un pubblico non specialistico. Con più libertà espressiva, in altri termini. Insomma, Una missione civilizzatrice narra di un’importante avventura intellettuale vissuta da protagonista dal Griaule nel pieno della tempesta chi si viene caricando negli anni Trenta del Novecento. Lo fa portando alla luce per l’etnografia quelli che il filosofo/microbiologo Ludwik Fleck (tra l’altro ispirandosi a Durkheim) chiama “stili di pensiero” (da ipotesi scientifiche a teologico/religiose) e “collettivi di pensiero” (la comunità di studi e ambientale con specialisti e profani). In altri termini, Guolo costruisce una sorta di archeologia (con richiami a Foucault) della disciplina per dare conto degli schemi concettuali con cui la disciplina medesima ha costruito il proprio “mondo conoscitivo”.
Una lettura originale
della storia europea del primo dopoguerra
Guolo ci presenta momenti di storia dell’etnografia evitando il rischio di astrattismo epistemologico. Che consiste nel mostrare le vicende di una disciplina come un continuo progresso di teorie, una migliore delle altre, e conseguentemente mostrando la storia di questa come un “cimitero di teorie” in una lunga sequenza di progressive falsificazioni di tesi precedenti. Certo, il controllo delle teorie è fondamentale. Ma, come insegna l’epistemologia storica, il pensiero umano, quindi la storia di ogni disciplina, è il continuò sovrapporsi di visioni. Com’è evidente seguendo le vicende di Una missione civilizzatrice.
La storia del sapere, in particolare in ambito della Teoria sociale, è più sfaccettata di quanto preveda il pur importante “falsificazionismo”. Oltretutto il contesto sociale conta. In ragione di ciò lo studioso fa bene ad accompagnarci con attenzione letteraria nella Parigi e in quel Corno d’Africa vero palcoscenico degli eventi narrati. E nulla toglie al valore epistemologico di una ricostruzione di una disciplina se nel farlo si incontrano agenti segreti e intrighi internazionali. Perché in qualche modo ne fanno parte. Guolo ci porta in un percorso dove scienza ed avventura s’incontrano. Sarebbe possibile altrimenti. No. Basta pensare al “caso Oppenheimer” di pochi anni dopo.
Infine, Una missione civilizzatrice, attraverso l’etnografia e il suo protagonista, il Griaule, offre una lettura originale della storia europea del primo dopoguerra e di come in esso già si sviluppassero i germi del Secondo conflitto mondiale.
Immagine di copertina: Malvina Hoffman, Marcel Griaule, 1935, Smithsonian American Art Museum, Gift of the Charles Lamson Hoffman Family
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