Alberto
Se si prescinde dal residuo monumentale inteso come Venezia, nome sommamente equivoco che induce la formazione di discorsi, argomentazioni, dimostrazioni infine pseudo oggettive, e ci si volge alla definizione di chi è veneziano sia nel senso di proprietario che in quello di erede psicologico mentale del formante Venezia, non si può che testimoniare la fine a distanza di qualche secolo definitiva di una specie, varietà o razza, perché no, di individui sommamente educati e partecipi di una forma distrutta una volta per sempre. È questo il senso profondo del venir meno degli abitanti. Mi piacerebbe suggellare questa riflessione con una barzelletta squisitamente veneziana, che, come tutte le barzellette, come i funghi, cresce di un humus anonimo senza una filiazione certa ma che come una spora testimonia di una vitalità residua alimentata da umide ombre.
Il metodo della mia disamina del caso Venezia si prefigge un’alternanza fattiva che è quella tra deduzione e induzione. L’induzione viene quivi, in contesto definita, come l’esame di alcuni pochi casi di autentici veneziani in via di scomparsa, quelli che meglio conosco, me compreso.
Il più sensibile, veramente straordinario cantautore che abbia inteso la grandezza possibile e perduta di questa città se n’è andato non perché sia morto ma perché non avrebbe veramente avuto alcun senso che vi rimanesse.
La sua fede politica rimasta intatta l’ha condotto a Santiago di Cuba.
L’ultima volta che l’ho visto mi ha fatto ridere come sempre quando ci si trovava insieme, quella volta in un bar all’aperto di Santa Margherita che è, e in parte rimane anche ora, un particolare concentrato di venezianità indotta e recuperata.
Ricordo in modo particolare una serata in cui dalla terrazza dell’appartamento che gli era stato concesso in affitto da una tale organizzazione partitica che non ricordo proiettammo sulla facciata incompiuta di pietre di San Pantalon le diapositive di alcune sue amanti nude. Era uno spasso osservare l’arresto stupito delle persone che salivano il ponte sorprese dai corpi felici di quelle amanti con cui anch’io avrei provato la gioia del sesso.
Per il mio amico trascorrere dai santi e dalle madonne, dalle acque alle statue, dal sacro al profano, i canali, le lagune, storia e leggenda, piacere fisico e coltura vera cultura era sinfonico. Suonava la chitarra e si accompagna con altri dando loro quel genio che non possedevano i suoi compagni soltanto di nome e partito. Quel complesso di cui faceva parte e che fu anche storia urbana e militanza politica veneziana si esibì persino in Giappone! Il suoi racconti sull’esperienza giapponese sono indimenticabili per me e andrebbero ricordati e fissati meglio che non nella personalissima memoria amicale.
Egli non era solo ma trafficava ancora con il cosiddetto mondo di mezzo o mezzo mezzo di una malavita veneziana ricca di ironia e saggezza.
Che dire?
Non era nemmeno veneziano di nascita ma era qui giunto dalla lontana Sicilia portato da un padre funzionario o poliziotto, ma era cresciuto a Venezia, a Venezia si era formato per calli e acque ed è a parer mio l’emblema di un imprinting perfetto.
Non saprei veramente immaginare chi potesse essere più primordiale veneziano di lui.
Lo era diventato perché lo era di chissà quanti secoli.
Non può ritornare e più starà lontano e meno potrà riconoscere in questo presente l’eco di un passato che l’ha rivoluto con sé cancellando l’orrore di una monocultura che non sa apprezzare nemmeno la varietà vulvare dei meandri umidi della mona Venezia, che non è un pesce ma come bene intese Apollinaire che di poesia se n’intendeva, ma proprio quella cosa lì come avrò modo di dimostrare.
Bebo
A. non nacque veneziano ma lo diventò. Non diversamente ora da B. Egli B è un veneziano esule o ciclico. I veneziani esuli costituiscono una specie a sé stante. Si distinguono dai veneziani stanziali e dagli esuli di ritorno. Per tutti costoro si possono prevedere dei nomi o non prevederli. Questa è una faccenda del tutto personale e nient’affatto condivisa. L’importante è che ognuno ne renda ragione. Per me i veneziani stanziali se sono dei possidenti li chiamo “tarme”. Che cosa sia una tarma, la sua metafora la tralascio per ora. Per quanto concerne gli esuli di ritorno non ho approntato un nome ma potrebbero chiamarsi Checco, dei Checchi o delle Checche. Di questa mia personale denominazione non offro ragione per quanto ve ne sia una di ben circostanziata.
Affibbiare a dei Veneziani, residenti e possidenti il nome di tarme non è completamente personale ma è un termine che ho già sentito in uso da altri con lo stesso significato che io gli attribuisco e sul quale soprassiedo.
Io insieme ad A e a B mi ritengo della specie degli esuli nel senso che non risiedo già più a Venezia e ne provo soltanto una qualche forma di nostalgia.
Sono un non possidente di Venezia veneziano.
Non mi va più di risiedervi per un carico di malinconia che mi risulterebbe intollerabile. Di Venezia non ne posseggo nemmeno un pezzettino nonostante che i miei ne avessero uno persino di Rialto, del suo mercato.
Veniamo a tracciare il ritratto di B.
B è nato veneziano ed è diventato pienamente veneziano, ma a differenza di altri veneziani egli è un veneziano atavico, ancestrale. I suoi lo erano e come la mia linea paterna dovevano essere di Chioggia.
Per il suo cognome e le sue predilezioni, delle quali renderemo conto ordinatamente, B appartiene a una vera nobiltà e schiatta marinara.
Secondo un catalogo edito dalla pregiatissima casa editrice Forni di Bologna la sua famiglia ha stemma e lo stemma mostra una ruota di timone su di uno sfondo che è il bianco inscritto della pagina dell’albo stampato.
Egli è uomo di mare, veneziano di mare e qui s’impone una differenza che non ho finora congetturato ed esposto.
I veneziani sono grosso modo di terra o di mare. Quelli di terra vengono da meno generazione dai dintorni piuttosto alpini del confine della Repubblica e sono nostalgici del Nord. Io appartengono a questo subordine. L’esemplare che più spesso cito è quello di Giacomo Casanova sui tetti del Palazzo Ducale in fuga che mira il Nord dell’ Europa, l’orizzonte mitico transalpino franco o germanico che sia.
I veneziani di mare sognano il mare e l’oltremare immediato o distante, Adriatico Mediterraneo o Atlantico.
B è un veneziano perfetto di questa tempra d’uomini.
Devo a lui il sentimento del mare.
Adolescenti grazie alla generosità di suo padre che volle e progettò quel vascello, noi gli amici nati ed educati dal formante Venezia potemmo ricevere un vero battesimo del mare e quasi reincarnarci nei nostri antenati.
A vela e a remi soltanto percorremmo le coste istriane e dalmate, incrociammo le motovedette jugoslave che c’ispezionarono un giorno mitra in pugno, e fummo persino accolti e onorati dal Principe di Duino, che incuriosito dalle vele giallo rosse e dalla sagoma di una “bragagna” lagunare veneziana, specie di bragozzo, costruita a Chioggia da un vero mastro d’ascia residuale, volle conoscerci.
Eravamo belli e giovani splendidi esemplari di venezianità sconfinata: Io, Bebo, Gino detto Zecca, Giulio e Pipino a correre sotto la pioggia improvvisa con il Principe nel parco del Maniero per poi raggiungere la Sala dei Cannoni in cui l’ospite ci avrebbe fatto gustare il miele delle sue api con il te e le fette di una torta deliziosa che nello scambiarci i gusti Gino lasciò cadere alcune briciole sulle spalle del cugino della regina Elisabetta che tale era il suo rapporto di parentela coi reali d’Inghilterra.
Bebo volle poi in età più adulta da super veneziano di mare attraversare l’Atlantico fino alle Americhe nell’anniversario della scoperta con un trabaccolo*, altro naviglio veneziano che faceva la spola con l’Istria battendo stavolta bandiera jugoslava. Questo trabaccolo che finì i suoi giorni semi depredato nelle Antille lo si vede in due film: “La chiave” di Tinto Brass e “La sposa promessa “ di Franc Roddam.
Bebo ora fa parte di quei profughi pensionati che preferiscono il Portogallo all’Italia per risiedervi e che trascorre buona parte dell’anno a pescare nel Costarica. Non vi è ovviamente in tutto ciò nessun discredito dell’Italia da parte di B come A e come colui che scrive perché non si sono mai sentiti italiani!
Un veneziano per lignaggio ed educazione non potrà mai e poi mai sentirsi italiano ma veneziano soltanto tale è la forza ancorché residua di quel formante imprinting che si chiama Venezia.
*Si tratta di un trabaccolo costruito nel 1939 nella laguna sud di Venezia. Usata come barca da pesca, si chiamava
“San Giorgio”. Durante la Seconda Guerra mondiale, i tedeschi la utilizzano per il trasporto di armi e di truppe militari. Negli anni Ottanta del secolo scorso il suo proprietario, il notissimo veneziano «Bebo» Alberto Voltolina, lascia le acque italiane e il “San Giorgio” diventa iugoslavo e cambia nome in Kraljica Moria (Regina del Mare). Nel 1991, nasce la Repubblica di Slovenia e Kraljica Morja batte bandiera slovena. Nel 1992 “Bebo” decide di attraversare con la sua barca l’atlantico, in occasione del “Columbus day”, giorno di commemorazione dell’arrivo di Cristoforo Colombo sul continente americano nel 1492 e poi a fine anno approda a Miami. Un trabaccolo non era mai andato cosi lontano.
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