![“Civil war”, il grande escluso](https://ytali.com/wp-content/uploads/2025/02/dab0a048513b4345648640d5d824ce8f66026d8cb604b16c2f634be1802a1bb6-1024x576.jpg)
Con un budget totale vicino ai cinquanta milioni di dollari, briciole per Hollywood, “Civil war” è il film più costoso mai prodotto dall’A24, la casa di produzione che negli ultimi anni sta rivoluzionando il cinema americano, rendendo la qualità e l’indipendenza creativa un fenomeno di costume. Un punto d’arrivo per quel cinema indipendente che sta faticosamente tentando di trascinare Hollywood fuori dal “pantano” in cui sembra essere imprigionata.
Eppure, nonostante il suo grande valore artistico e produttivo, “Civil war” è stato completamente snobbato dai principali premi e festival internazionali. Con un incasso totale al botteghino di circa centoventi milioni di dollari, non particolarmente alto per gli standard americani, e un’accoglienza della critica piuttosto tiepida, il film diretto da Alex Garland, già regista di “Ex machina” (2015) e sceneggiatore del cult “28 giorni dopo” (2002), è finito per sparire rapidamente dal dibattito pubblico.
“Stati divisi d’America”
Sembra impossibile che “Civil war”, la cui trama ruota fortemente attorno alle divisioni interne degli Stati uniti e alle tensioni politiche radicalizzatesi nell’ultimo decennio, possa essere stato così velocemente accantonato in un momento storico, come quello che stiamo vivendo, in cui sembra più attuale che mai.
La storia racconta le vicende di Jessie, Lee, Joel e Sammy (rispettivamente Cailee Spaeny, Kirsten Dunst, Wagner Moura e Stephen McKinley Henderson), quattro giornalisti impegnati nel seguire l’evoluzione della seconda guerra civile americana che decidono di lanciarsi nella corsa verso lo “scoop del secolo”, ovvero intervistare il presidente degli Stati uniti (interpretato da Nick Offerman e platealmente ispirato a Trump) prima della caduta di Washington.
Quello che ci viene offerto è un viaggio on the road attraverso un’America violenta, razzista, divisa e arrabbiata. Uno scenario di guerra iperbolico ma dannatamente verosimile, che racconta di ferite profonde nella società americana.
Nel film non mancano la suspence e l’azione, messe in scena in maniera cruda e realistica, lontana dalle spettacolarizzazioni hollywoodiane, ma la vera forza della regia di Garland sta nella volontà di rendere lo spettatore allo stesso tempo testimone e vittima di una violenza politica fuori controllo.
È qui che diventa fondamentale l’occhio del giornalista o, meglio, la sua macchina fotografica, ovvero la lente, in questo caso letterale, attraverso cui entriamo in contatto con questo mondo, contribuendo al tono quasi documentaristico dell’opera. La fotografia, anche in questo contesto di finzione ed esagerazione, si dimostra veicolo di verità. Ci racconta i problemi che attraversano l’America contemporanea.
La volontà di Garland di raccontarci la guerra attraverso l’esperienza di quattro reporter, ovvero una figura che siamo abituati ad associare a servizi da zone di crisi o Paesi del terzo mondo, offre una profondità ulteriore alla pellicola. La guerra è qualcosa di tangibile, può succedere anche qui a casa nostra, nel mondo occidentale. La sensazione inquietante che pervade lo spettatore durante la visione è la consapevolezza di quanto sia verosimile lo scenario che vediamo portato in scena.
Non un film di guerra, ma un film sulla guerra. Un mix perfetto tra azione e riflessione, grande contesto sociopolitico e intimo dramma umano, tra l’avvincente avventura di un film di genere e la forza espressiva del cinema d’autore.
Ma allora perché “Civil war” è stato snobbato?
Il limbo dei “film medi”
Recentemente l’articolo pubblicato su ytali da Andrea Cracco, nel quale si analizza il caso mediatico scoppiato attorno alle tredici candidature all’Oscar di “Emilia Pérez”, ha fatto emergere l’importanza fondamentale assunta dai social nel decretare il successo di un film.
Nell’epoca in cui maggiormente risuona il celebre aforisma di Oscar Wild: “non importa che se ne parli bene o male l’importante è che se ne parli”, sembra non esserci più spazio per i “film medi”, quei famosi “film da sette su dieci” che invece per molti critici del settore rappresentano la più grave assenza nella cinematografia contemporanea. Sebbene molto apprezzato da parte della critica e da molti cinefili (compreso chi sta scrivendo) “Civil war” è stato tendenzialmente percepito come un film piuttosto modesto, bello ma non straordinario, cadendo a pieno titolo in questa categoria. In realtà i film medi esistono, ma vengono ignorati.
Oggi per creare scalpore, e portare la gente al cinema, un film deve essere percepito come un capolavoro assoluto o come un prodotto estremamente, e spesso volutamente, trash. Una dinamica che spesso si riproduce nel dibattito stesso attorno a certe pellicole, come negli ultimi anni “Emilia Pérez”, “Barbie” o “Babylon”, al centro di giudizi estremamente divisivi sui social e, di conseguenza, sulla stampa.
Si potrebbe obiettare che un film così “politico” e dal messaggio forte come “Civil war” non dovrebbe rispondere a queste dinamiche più legate ai blockbuster di largo consumo. Va tuttavia evidenziato come la comunicazione mediatica contemporanea, che sia digitale, televisiva o cartacea, dipende strettamente dalla contingenza temporale del momento. Una contingenza che negli ultimi anni è diventata sempre più stringente. Su internet dopo due settimane un argomento è già vecchio.
Se da un lato questo fenomeno, nel caso del cinema, permette di creare film evento improvvisi, in grado di cavalcare il momento storico, aumentando enormemente gli incassi (si veda la vicinanza temporale tra il successo di “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi e il femminicidio di Giulia Cecchettin) dall’altro rischia di penalizzare enormemente chi sbaglia la data d’uscita. Chi parte troppo prima o troppo dopo perderà comunque la gara contro chi partirà nel momento giusto.
Da questo punto di vista la decisione dell’A24 di far uscire il film ad aprile 2024, lontano dalle elezioni americane, si è rivelato senza dubbio un grave errore di valutazione.
Nonostante un iniziale discussione esplosa, solo negli Stati uniti, su X circa il messaggio politico ritenuto controverso del film, la polemica è andata presto scemando. Non ha certo aiutato in tal senso la volontà di Garland di non prendere una posizione politica forte, nonostante sia il dibattito lo richiedesse, sia l’opera lo rendesse già evidente. Il regista ha infatti dichiarato:
Ho una posizione politica e ho buoni amici dall’altra parte. Onestamente, non sto cercando di indorare la pillola: cosa c’è di così difficile in questo? Perché stiamo impedendo la conversazione? Sinistra e destra sono argomenti ideologici su come gestire uno stato. Questo è tutto ciò che sono. Non sono giusto o sbagliato, o buono e cattivo. Quale pensi che abbia maggiore efficacia? Questo è tutto. Ne provi uno e, se non funziona, lo voti e riprovi in un modo diverso. Questo è un processo. Ma l’abbiamo trasformato in buono e cattivo. Ne abbiamo fatto una questione morale, ed è dannatamente idiota e incredibilmente pericoloso.
Un messaggio che, sebbene a qualcuno potrebbe sembrare condivisibile, sembra cozzare con quella consapevolezza con cui il film osserva la radicalità raggiunta dalla società americana. Come si può fare un film (nei fatti) politico senza schierarsi?
Si pensi al dibattito culturale che “Civil war” avrebbe potuto alimentare nella battaglia elettorale tra Harris e Trump, o ancora di più oggi, dopo l’insediamento di quest’ultimo.
Nonostante il film sia rientrato pienamente dei costi di produzione, e Alex Garland stia per presentare il suo nuovo film “Warfare”, sempre realizzato con l’A24 e in cui ancora una volta affronterà il tema della guerra, “Civil war” è stata una sconfitta.
Nessun riconoscimento, nessun grande successo di botteghino, ma, soprattutto, nessun dibattito creato. Una perla già dimenticata, precipitata nel limbo oscuro dei film medi. Il minimo che si possa fare allora è parlarne.
Immagine di copertina: Kirsten Dunst e Wagner Moura (sullo sfondo) in una scena del film.
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