Nel dibattito qui aperto dal testo Una nuova Paideia nel tempo della complessità, la Lectio tenuta da Mauro Ceruti in occasione della Laurea Honoris Causa ricevuta dall’Università di Foggia, emerge l’urgenza di affrontare oggi il tema della cittadinanza. Educare alla cittadinanza è, infatti, una finalità costitutiva della scuola pubblica fin dalle sue origini. E per discutere seriamente di una questione tanto cruciale e delicata come quella della cittadinanza, che coinvolge la vita di milioni di persone e che riguarda la possibilità stessa della convivenza democratica, è importante riflettere sul significato che la cittadinanza ha assunto storicamente e sul modo in cui oggi si sta trasformando.
La cittadinanza è stata il risultato dell’ordinamento politico dello stato nazionale. Nell’età moderna lo stato esercita la propria autorità politica su un territorio separato dai territori limitrofi attraverso confini netti: lo stato esercita, dunque, la propria autorità solo sul proprio territorio e non sul territorio che si estende al di là dei suoi confini. Allo stesso modo, la cittadinanza è caratterizzata da un vincolo stretto con i territori e con le autorità politiche definite territorialmente: chi è cittadino in uno stato non può esserlo in un altro stato.
È interessante notare come l’istituzione del confine abbia un ruolo centrale in questa architettura politica e giuridica: il confine è pensato come una linea statica di demarcazione fra interno ed esterno, fra inclusione ed esclusione, linea che è volta a garantire ordine. Il confine è il limite dell’autorità e della giurisdizione politica dello stato, che decide chi è cittadino e chi non lo è.
Le comunità politiche statali europee dell’età moderna si sono fondate sull’idea che i confini fra noi e gli altri dovessero essere netti e visibili, e che questa visibilità dei confini esterni potesse favorire le coesioni e le solidarietà interne.
Attraverso i confini, lo stato ha potuto svolgere un doppio compito: accanto alla funzione di separazione verso l’esterno, verso i territori di altri stati, ha potuto svolgere una funzione di integrazione al proprio interno. Per integrare individui e collettività entro una comunità, lo stato definitosi come nazionale, non solo ha realizzato una struttura istituzionale e amministrativa, ma ha messo in atto anche un grande progetto pedagogico, volto a formare un mondo culturale e simbolico comune per costruire appunto l’identità nazionale: a questo scopo, lingua, letteratura, memorie, miti, tradizioni e monumenti sono stati elaborati e diffusi per generare un patrimonio condiviso di significati, di racconti e di memorie.
Ma le narrazioni di questo processo ne hanno individuato le motivazioni cercando di volta in volta di trovare nel passato le presunte radici etniche o territoriali su cui fondare la presunta “essenza” della nazione. E sono proprio queste narrazioni che oggi sono messe in discussione da un intreccio di eventi storici prodotti dall’accelerazione inedita della globalizzazione e dalla conseguente crisi del ruolo degli stessi stati nazionali.
Questa crisi obbliga a riconoscere che la nazione non è riducibile a presunte statiche e isolabili radici etniche o territoriali (terra, sangue, pelle), ma costituisce la più efficace invenzione moderna tesa a costruire l’appartenenza a un ordine politico statale: lingua, tradizioni, memorie, simboli, monumenti costituiscono quella trama di significati condivisi che portano a legare i diversi membri di una comunità. Un ruolo decisivo, in questo senso, è stato svolto dalla scuola.
Da qualche decennio, la mobilità di persone, beni materiali, capitali e culture ha ridisegnato le geografie del pianeta, mettendo in discussione la rappresentazione dello stato come “contenitore” statico di una società segnata da una omogeneità linguistica, culturale, etnica, religiosa.
Processi globali, migrazioni transnazionali, sviluppo delle tecnologie della comunicazione, molteplicità delle appartenenze e dei mondi culturali accadono oggi “dentro” le nostre città, “dentro” tutti i nostri contesti di vita: a causa di queste complesse trasformazioni, diventa necessario reinventare la cittadinanza.
Ripensare e rigenerare la cittadinanza significa innanzitutto riconoscere che il rapporto fra cittadinanza e stato-nazione è un rapporto storico, e quindi può essere riconfigurato. Ripensare e rigenerare la cittadinanza significa oggi estendere lo spettro delle sue esperienze e dei suoi significati.
La cittadinanza storicamente si configura come l’associazione a una comunità politica, che regola e anima la vita comune. Più precisamente, “cittadinanza” è il nome della relazione che lega un individuo e l’ordine politico-giuridico nel quale si inserisce, nonché il sistema di diritti e di doveri che ne scaturisce. È interessante, allora, riflettere sul modo in cui ogni società nella storia ha impostato e risolto il problema del rapporto fra l’individuo e l’ordine politico-giuridico, attraverso quali diritti e doveri. Proprio come la democrazia, la cittadinanza è costitutivamente dinamica, soggetta a continue modificazioni, segnata da tensioni, contestazioni e rivendicazioni, che consistono per lo più nel forzarne i confini.
L’attuale crisi della cittadinanza evidenzia che essa non è riducibile al suo semplice riconoscimento formale (l’attribuzione di uno status), ma è un processo articolato e complesso. Possiamo infatti riconoscere nella cittadinanza l’intreccio di diverse dimensioni.
La prima dimensione è quella dell’appartenenza a uno stato, ossia l’essere riconosciuti parte della comunità politica, attraverso l’acquisizione di uno status legale.
Una seconda dimensione essenziale è quella dell’insieme dei diritti (e dei corrispettivi doveri), che devono essere garantiti.
Una terza dimensione riguarda il sentirsi “soggettivamente” parte della comunità politica, attraverso processi di identificazione che portano alla consapevolezza di un’identità politica e sociale.
Infine, una quarta dimensione è quella della partecipazione attiva alla vita sociale e politica, ossia il concorso dei cittadini alla definizione e alla messa in opera delle finalità e delle regole della vita comune. È, in particolare, questa dimensione a rendere più problematica la distinzione fra cittadini e non cittadini e a generare una tensione cruciale: anche chi non possiede lo status formale di cittadino, come gli stranieri, può prendere parte alla vita pubblica partecipando attivamente e impegnandosi nel proprio contesto di vita, ma anche manifestando, avanzando rivendicazioni… Qui prende forma la pratica di una cittadinanza attiva, responsabile, partecipe della vita sociale, anche al di là della cittadinanza formale.
Queste dimensioni sono profondamente interconnesse e si condizionano reciprocamente. La storia della cittadinanza è anche la storia delle lotte per la cittadinanza: è attraversata dalle battaglie e dalle rivendicazioni che interessano in particolare la contestazione dei suoi confini (le frontiere degli stati, ma anche quelle di genere, etnia, classe sociale, ricchezza, capacità…) da parte di chi si considera escluso, o incluso solo parzialmente, in forme subordinate.
La cittadinanza non è solo la conquista o l’attribuzione di uno status, ma è un insieme di pratiche sociali, di comportamenti soggettivi che, sebbene iscritti entro il suo perimetro formale, possono metterlo in discussione, forzandone i confini. Allora non basta distinguere semplicemente fra la figura compatta del cittadino e quella di colui che è escluso dalla cittadinanza.
In questo orizzonte, l’aspetto più vistoso del processo di ridefinizione della cittadinanza riguarda certamente l’esperienza migrante. L’arrivo e l’insediamento degli immigrati nelle città non solo mettono in discussione la presunta omogeneità della nazione, ma delineano una sorta di “via locale” alla cittadinanza reale.
La “residenza”, il fatto abitare in una città, definisce l’esigibilità di alcuni diritti, la fruizione di taluni servizi (municipali, locali), ma non la possibilità di accesso ai diritti e doveri che la cittadinanza formale sancisce. Eppure, queste persone, pur senza essere cittadini giuridicamente riconosciuti, agiscono già da cittadini in molteplici contesti, dai luoghi di lavoro alla scuola, alle reti e alle organizzazioni sociali, dalle associazioni al mondo del volontariato, prendendo parte attiva alla costruzione della comunità di appartenenza.
L’insediamento sociale delle persone e delle famiglie di origine straniera precede il riconoscimento politico dell’appartenenza formale: molte pratiche di cittadinanza si sviluppano al di fuori della cornice della cittadinanza legale, ma proprio queste pratiche possono favorire il percorso che muove dall’esclusione all’inclusione.
Ripensare e rigenerare la cittadinanza, quindi, significa prendere atto del fatto che la popolazione di una società non è immobile, ma si trasforma incessantemente attraverso scambi, apporti nuovi e intrecci imprevisti, perché è legata a un mondo in continuo e profondo movimento. Non possiamo, infatti, parlare semplicemente di cittadini e immigrati come “categorie” compatte e contrapposte.
È non solo profondamente ingiusto, ma anche miope e persino pericoloso per il benessere di una comunità pensare che possano continuare a convivere sullo stesso territorio popolazioni legalmente distinte, una delle quali titolare di diritti pieni e l’altra titolare solo di diritti parziali.
Ciò che politicamente si insiste a non comprendere è che il ruolo dello stato nazionale, proprio perché in crisi e in profonda trasformazione, è tanto più forte quanto più accetta di ridefinirsi e di rigenerarsi a partire dalle interazioni con nuovi mondi e da lì comincia a progettare nuove possibilità di convivenza. Non è forse questo il senso più autentico della politica? Allora, la questione della cittadinanza potrebbe diventare una preziosa opportunità per reinterpretare e ricostruire il nostro patto di convivenza in senso più libero, più creativo e più giusto per tutti.
Il nuovo processo di formazione della cittadinanza appare tutt’altro che compiuto, come mostra il dibattito che, nel nostro paese, periodicamente si apre per poi venire ben presto accantonato da questioni considerate ogni volta più urgenti: è un processo dinamico, non privo di ambiguità, ricco di suggestioni interessanti, ma anche incerto e sfuggente. Intanto nuovi attori, nuovi spazi di possibilità emergono e disegnano un quadro estremamente più eterogeneo e per certi versi problematico.
Sono, in particolare, i figli delle famiglie di origine straniera a sfidare l’istituto della cittadinanza “nazionale” intesa in termini “identitari”, etnici.
In questo momento, nel nostro paese, una quantità di bambini e ragazzi che nascono qui o che vi giungono da piccolissimi, parlano la nostra lingua, frequentano le nostre scuole, chiede che il delicato processo di ricerca e costruzione del sé, cui la crescita cerca di dare risposte, possa contare almeno su un punto fermo: quello del riconoscimento della cittadinanza.
Di fronte alle trasformazioni del mondo che abitiamo, in base a cosa chiamiamo straniero un ragazzo che è nato in Italia o vi è giunto nella primissima infanzia? La qualità di “migrante” si tramanda forse di padre in figlio? Come possiamo continuare a imporre a questi ragazzi di sentirsi stranieri nel loro paese (spesso l’unico paese che conoscono), di non godere degli stessi diritti di cui godono i loro coetanei autoctoni, in un momento cruciale della propria vita, in cui ne va dello sviluppo del senso di sé e del proprio ruolo nel mondo? Come non comprendere che la loro pratica di cittadinanza è già in atto nel percorso educativo e di socializzazione che conducono a scuola, sui campi da gioco, in tutti i contesti formali e informali in cui vivono quotidianamente?
Per questo diviene oggi ancora più urgente e decisivo educare alla cittadinanza. A patto di intenderci seriamente su cosa questo significhi. Senz’altro l’educazione alla cittadinanza non è una disciplina fra le altre: l’educazione alla cittadinanza si configura come un laboratorio vivo di integrazione di saperi, valori ed esperienze e di problematizzazione riflessiva; essa si esprime nel fare scuola quotidiano, in cui si allenano pensiero critico, dialogo, impegno, partecipazione attiva, responsabilità verso gli altri e verso ciò che è comune. L’educazione alla cittadinanza, dunque, intesa come formazione del cittadino criticamente partecipe alla vita pubblica, si configura come un compito ineludibile e urgente per la scuola del terzo millennio.
È, infatti, sul terreno decisivo dell’educazione che oggi è possibile progettare quel cambiamento di paradigma che il tempo che abitiamo esige: immaginare «una Paideia che riconosca l’indivisibilità e nello stesso tempo la pluralità dell’umanità», come suggerisce Mauro Ceruti.
Certo, il riconoscimento della cittadinanza non basta. Non risolverebbe, ad esempio, i problemi molteplici di povertà – educativa e non solo – e di marginalità sociale, che colpiscono molti di questi ragazzi. Tuttavia, sarebbe un atto, ad un tempo oggettivo e simbolico, capace di rafforzare il loro senso di appartenenza a una storia. Alla loro storia che è anche la nostra storia.
Immagine di copertina: foto di Steve Johnson su Unsplash
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