
Al circo, ci andavo bambino, portato dai miei genitori, le domeniche di una vita fa. Forse a San Polo, o in Riva degli Schiavoni, il classico tendone. Intorno aromi di pop corn e di zucchero filato. Ricordo poco e male. Un senso di noia diffuso, comunque. Doveva trattarsi di edizioni casarecce, non di rango. Immagini confuse anche dall’episodio traumatico di uno chapiteau che aveva preso fuoco altrove, con stragi e madri che nella fuga per salvarsi travolgevano i propri figli. Episodio funesto, non so se letto in un racconto o in un giornale. Ci sono tornato solo da padre giovane, al circo, con i miei figli, e poi con i nipoti. Grazie a loro, mi sono in qualche modo liberato da sgradevoli associazioni, condividendone l’entusiasmo specie davanti alle clowneries che venivano a provocare in platea, e i trasalimenti di fronte alle zampate irrequiete di qualche leone, magari non ben sedato prima. E poi i giocolieri e gli inchini dei cavalli e degli elefanti, e gli orsi, le scimmie, i cammelli, e ancora animali esotici o quelli domestici, e gli acquatici, e i rettili, e pure la falconeria che discende dai gusti di Federico II. La gabbia metallica quando occorre, oppure i giri di pista con giraffe e rinoceronti. Animali cooptati nella carovana itinerante dei nomadi, nelle lunghe file di camion e di roulotte. Non si era ancora affermata evidentemente la sensibilità animalista. Perché le bestie soffrono in spazi ristretti, umiliati a saltare a comando sullo sgabello di turno o a pedalare su biciclette. Da qui, l’affermazione del modello senza animali, come nel 1984 con la creazione del mirabile canadese Cirque du soleil. Del resto, i sorrisi forzati che mandano le creature umane, nonostante fatica e paura, ti stringono il cuore.
Ottavio Canestrelli. Nell’immagine di copertina con la moglie Genoveffa
Nondimeno, opera d’arte totale, il circo, come ostenta il film Il più grande spettacolo del mondo nel 1952 di Cecil B. De Mille. In fondo, una risposta popolare la sua, rivolta a infanzia e a famiglie riunite, rispetto alla Bayreuth che Wagner impiantò nel 1876. Il trionfo della velocità, dell’equilibrio e della precisione da parte di corpi giovani e ben addestrati, esce dalla ginnastica artistica, tra lanci di cerchi, palle, nastri, o dalla ginnastica pura, a base di sbarre, anelli, verticali, salti doppi. Il culmine dalle scale che si reggono su piramidi sospese per miracolo ai contorsionismi della donna dentro la valigia. Si aggiunge la parte aerea, quella mozzafiato per il pubblico, con i voli funambolici di novelli Tarzan e Jane da un trampolino all’altro, su trapezi oscillanti nel vuoto minaccioso, cui restano appesi per i denti, mentre la presenza molto al di sotto della rete riduce in minima parte l’ansia della ricezione. Il cielo sopra Berlino nel 1987 di Wim Wenders e Ombre e nebbia nel 1991 di Woody Allen suggellano sullo schermo lo sguardo panoramico dall’alto nel primo e quello ironicamente neogotico, nel secondo (qualche rimando a It, lo spaventoso pagliaccio del romanzo di King del 1986). Ma tra le spezie del circo, tanto teatro con l’entrata in pista, come sulla scena, con l’epifania spettacolare dei clown. La tradizione contrappone la maschera seria, il cosiddetto Bianco, al pasticcione, Augusto. Una rifrazione fra loro, il clown triste, che accosta un comportamento dimesso dell’attore a situazioni risibili, figura rilanciata da Buster Keaton nelle sue pellicole mute, più beckettiane e desolate dell’astuto The Circus nel 1928 di Charlie Chaplin.
Il clown, si veda il trio dei Fratellini a partire dal 1909, è stato studiato con amore in Grandeur et décadence du clown, 1946, da Tristan Rémy. Costui stempera le sue convinzioni di giovane comunista durante il Front populaire e la guerra di Spagna, per poi figurare da storico ormai anziano nel felliniano Les Clowns del 1970. Fellini alla ricerca di atmosfere oniriche, basti pensare a Le notti di Cabiria del 1957, li esalta nel momento stesso in cui ne canta la fine. Quello che apparenta il tendone del circo al teatro è la natura itinerante dei cerretani, dei guitti sempre in viaggio alla ricerca di piazze e di corti, nei casi fortunati. E ancora la chiusura frequente tramite farse quali sequenze di uscita, i personaggi in costume, il clan familistico, ovvero la forte componente dinastica. Tanto più che il circo ha elaborato nel tempo una sua grammatica allo stesso modo del palco, e una terminologia da addetti ai lavori, come attestato nel vocabolario in calce al volume firmato da Alessandra Litta Modignani e Sandra Mantovani, Il circo della memoria del 2002. Ad esempi il generico, o la coppia nell’acrobatico-il porteur e l’agile. Allo stesso modo del teatro, anche il circo organizza i suoi festival e le sue scuole per chi appartiene ai fermi, ossia i nati da famiglie sedentarie con altri mestieri. Di prestigio quelle in Francia e in Russia.
Nel 1768, l’ufficiale di cavalleria britannico (largo ai cavalli in primis) Philip Astley inaugura il circo moderno, una pista circolare, l’arena, con platea relativa (prima en plein air e poi al chiuso). Qui, vengono mostrati in successione i singoli numeri. Importante la scansione in pezzi staccati, come nel Varietà. A fine Ottocento Georges Seurat ne eterna un episodio, la cavallerizza che corre a braccia alzate su un bianco cavallo, senza sella dunque, facendo lo slalom tra equilibristi e pagliacci. L’aria è azzurrina, gli spettatori incantati e la pista paiono legarsi in accordi cromatici delicati. L’origine, arretrando indietro, risale però agli anfiteatri della Roma imperiale, centrati sulle corse dei cavalli, arricchite da ricostruzione di battaglie, specie le naumachie, esibizioni di animali ammaestrati, esercizi di giocolieri e di acrobati. Una qualche contiguità con il Colosseo, gli spettacoli sanguinosi dei gladiatori, e i drammi basati sulla mitologia classica. Nel Medioevo, artisti girovaghi viaggiano per l’Europa proponendo esibizioni quali giochi di abilità, intermezzi comici o esibizioni di animali ammaestrati. Nel XV secolo, su questa stessa scia giungono in Europa, dall’attuale Pakistan, i Sinti, etnia di origine gitana che aveva fatto dello spettacolo da strada il proprio lavoro. Imparentata cogli zingari insomma, la gente del circo ha saputo però farsi accettare come artista.
Tra le 266 dinastie delle famiglie circensi, a fianco degli Orfei, vedi Moira e Liana, e dei Togni, i Canestrelli occupano due pagine nel detto volume. I fratelli Riccardo e Oreste, veneziani e palestranti, formati cioè nelle palestre di ginnastica, fondano in laguna nel 1903 il loro circo, pendolare tra Nord Italia e Austria. Il loro padre, Ottavio, era stato un orfano abbandonato nella classica ruota della Chiesa di Ognissanti a Padova nel 1843, ipotizzato figlio di una relazione clandestina tra il Vescovo locale e una bella gentildonna. Ottavio si chiama pure il figlio di Riccardo, in omaggio al nonno, e nato sempre a Venezia nel 1896 (la madre Teresa Fumagalli, altra gens del circo). Se le qualità richieste a un circense sono quelle di essere un provetto cavaliere, la destrezza del giocoliere e la comicità del pagliaccio, le prime due competenze si ritrovano alla grande nell’inquieto Ottavio.
Elio Canestrelli è un compito signore, mio coetaneo e mio collega cafoscarino, prestigioso economista specializzato in modelli matematici. Il fratello Paolo, autorevole esperto nel campo idrologico, a lungo direttore del Centro previsione e segnalazioni maree, da noi spesso consultato con panico in attesa di qualche nuova aqua granda, prima che il controverso Mose interrompesse le ondate aggressive al mio piano terra dove tengo la biblioteca. Anche Elio oggi è quiescente (eufemismo per pensionato), con molti hobby. Mi riceve nella sua casa a Rio Marin. Scale impervie, che temprano il cuore a lui e alla moglie Elena. Quest’ultima, un’affabile signora, ogni tanto si sporge per correggerci le traduzioni inglesi del testo su Ottavio, e offrire calde tisane. Nel salotto, ciacolo con lui e con il figlio Giulio, attore che abita in un appartamento del medesimo caseggiato. Elio mi indica alcuni mobili originari del negozio, in Campiello Barbaro, del padre Angelo, restauratore di antico, all’inizio falegname in sinergia con lo zio Emilio, abile intagliatore, laboratorio sito nella Calle longa di San Barnaba. Il nonno Ernesto aveva aperto un bugigattolo, su cui si sviluppa poi il negozio, in quel campo. Mia moglie mi ha trascinato spesso in questa bottega, di fronte Ca’ Dario, il palazzo dalla fama sinistra, per i morti che si sono succeduti al suo interno, e che ha sconsigliato al superstizioso Woody Allen di procedure all’acquisto. Al di là del ponticello, la calletta che conduce alla Fondazione Guggenheim, un tempo dimora della mitica Marchesa Luisa Casati, amante tra le tante di D’Annunzio. E Luisa, tra le varie stramberie concesse dall’immenso patrimonio accumulato dal padre nell’industria laniera, portava a spasso, nuda sotto la pelliccia, un leopardo. Frequentatrice di animali, anche la Marchesa, come Ottavio. Lo si vedrà tra breve.
Ora, c’è qualche relazione tra chi vende gioielli, quadri e statuette, e chi si appassiona dei livelli dell’acqua o di matematica? Tra Angelo e Paolo/Elio? Si chiamano numeri le varie prestazioni dell’artista da circo. Ecco un ponte con la matematica di Elio. Intanto, lo interrogo su questo Ottavio, cugino del padre. Nella sua carriera di circense di gran successo e di continuo in viaggio dall’Italia del primo dopoguerra, Medio Oriente, Iraq, India, Giappone, Sud America, ogni volta con un circo diverso, si fissa negli States nel 1932, passando per le maglie dell’onnipotente Ringling Brothers Circus. Un suo nipote, Ottavio Gesmundo, ne ha pubblicato nel 2016 il libro di memorie, The Grand Gypsy auto-agiografico come in questi casi succede. Alcune foto lo esaltano in una imitazione di Rodolfo Valentino, sagomato come un faraone, per il copricapo sontuoso, in pose seduttive, almeno nelle intenzioni, petto nudo e pancia in dentro, un leggero accenno di pinguetudine (ho un occhio esperto nel settore). Le braccia sono incrociate, come l’uomo forte che abbia appena spezzato le catene, le labbra serrate, lo sguardo fiero e ducesco, pronto a passare in qualche pellicola kitch. Oppure, eccolo in piedi sopra cavalli a fare Ben Hur, e con una gentile donzella, la moglie napoletana Genoveffa, una Lentini, altra gens circense, e cantante lirica, che vigila a fianco in una attitudine altrettanto teatrale. Elio, gran raccoglitore di memorie tiene i contatti con i parenti di oltre Oceano. Tra i quattro figli di Ottavio, Riccardo, Federico, specializzato sul letto elastico, smanioso di fare in pista Robin Hood, e Celeste ancora viva, sfavilla Tosca, poi stroncata da un tumore, che avrebbe voluto far carriera nel cinema. Volto e fisico gliel’avrebbero certo consentito, ma Ottavio demonizzava l’ambiente degli Studios, tanto da rifiutarle il via libera. Forse, lo spettro della femme fatale, dalla Lulù di Wedekind, del 1904, musicata poi da Berg e in scena nel ’37, all’Angelo azzurro 1905 di Heinrich Mann, poi trascritto sullo schermo nel 1930 con la fatale Marlene Dietrich. Tosca si è allora scatenata con la corda e con i doppi salti mortali, e esponendo le sue beltà in modo generoso con le posture in rivalsa di una pellerossa, quasi a rivalutare, (lei di famiglia italiana di emigranti) i nativi. Il curatore delle memorie, Gesmundo, venuto su tra gli stunt man, ovvero acrobazie in auto in grado di attraversare una serie di bidoni, si è specializzato nel tiro con la balestra, ospitato anche in programmi televisivi italiani. Nel libro, le prime foto dei carretti ambulanti, che si scambiano cavalli cogli zingari, confermano la parentela col mondo dei paria sociali, prima del balzo in avanti verso i tendoni e poi gli chapiteaux sfavillanti. Mi rimiro le icone impressionanti di Ottavio alle prese con il serpente Satana, a Singapore nel 1928. Senza dubbio, nell’immagine di un Laocoonte stavolta vincitore dei rettili, il circo si incrocia con i freaks da luna park, le attrazioni più fascinose nell’etimo della parola, ossia la bellezza dell’orrore, i mangia fuoco, i nani Bagonghi, gli uomini proiettili, la donna cannone e quella barbuta, il gigante, i gemelli siamesi in un solo corpo, quelli analizzati nella società americana ottocentesca da Lesley Fiedler nel 1978 e sciorinati con morbosità voyeuristica nell’omonimo film nel 1932 di Tod Browning. A loro volta, gli animali divengono spesso partner privilegiati, totem protettivi e insieme magici, nel cosiddetto pensiero selvaggio. Dai cavalli e dai rettili, invecchiando, Ottavio passa a scimmie, e scimpanzé focosi ammaestrati, fatti marciare come indomiti soldatini. In compenso, dopo tanto narcisismo, ma siamo a Los Angeles signori! la foto struggente che lo riprende vecchio, davanti al fonte battesimale di San Giacomo dell’Orio. Anche su lui, in barba alle pose viriloidi, Chronos ha lavorato. Ma, nel frattempo, tipico caso di ascensore sociale, Ottavio ha fatto la sua fortuna, creando una sorta di impero famigliare, ottimo impresario di se stesso e dei suoi cari, patriarca autentico tra tendoni di circo e apparizione nei più importante show televisivi negli USA. Ha ricevuto medaglie per il valore di circense, ma anche di soldato, avendo fatto l’addestratore nei reparti di cavalleria in Friuli nel nostro esercito, sfiorando i giorni tremendi di Caporetto.
Come un ricco albero, i Canestrelli si sono sparpagliati in vari rami, per lo più nel settore circo, imparentati pure colla gens Togni. Uno di questi rami, mi racconta Elio, è finito tragicamente a Vasto, dopo il ’43, sotto un bombardamento americano. Sedici i fratelli del padre Angelo, il nonno Ernesto gran seminatore. Ne sono morti tanti, ma altrettanti hanno provveduto a formare nuove linee in giro per l’Italia. Mi indica da un suo ricco album all’improvviso una foto in cui lui è un bimbo nel 1954. Sta a casa sua, in mezzo a un gruppo allargato di persone in festa e me ne indica alcune. La zia Genoveffa e la bella Tosca tra gli altri. Sono venute, le donne di Ottavio rimasto a Sarasota in Florida, per vendere una casa lasciatagli in eredità da una sorella nubile alla Salute. Ma di quel ricavato, lo stesso Ottavio l’anno dopo ha spiegato al nipote Elio di non aver visto nemmeno un dollaro. Le donne avevano infatti speso tutto tra viaggi e shopping in giro per l’Italia. Poco male, perché nella sua vita l’uomo ha accumulato una fortuna, invitato dai più gettonati show televisivi americani, e anche grazie al ristorante a Sarasota, in cui il pubblico mangiando assiste al circo. Un po’, ancora teatro, come nel cafè chantant, da cui nasce il termine portata che indica sia cibarie che battuta brillante.
Giulio nei panni di Casanova
Il figlio di Elio, Giulio, è un prestante giovanotto, dal sorriso contagioso. Fa l’attore, ed è reclutato attualmente nella provincia veneta con uno spettacolo su Casanova in cui interpreta il protagonista, libertino illuminato e godereccio quant’altri mai, impostore e appassionato di vita, in moto perpetuo per le corti europee, ogni tanto in caduta libera, tra cui i Piombi della Serenissima, con celebre fuga dai tetti del Ducale. Quest’anno ricorre il tre-centenario della nascita e si sa quanto il calendario aizzi le celebrazioni accademiche e municipali. Ebbene, tra Ottavio e Giulio qualche generazione di mezzo, lingue diverse e geografie lontane. Eppure, noto nella sua faccia attenta e cordiale, qualcosa che riscontro pure nei dagherrotipi del suo prozio, dall’espressione vincente. La smorfia difensiva e sicura di sé davanti all’obiettivo del fotografo innanzitutto? Ci eravamo incrociati molti anni fa quand’ero direttore di dipartimento, per un mio progetto di teatro entro l’università, non realizzato poi faute d’argent, per mancanza di contributi da parte della severa Amministrazione. Anche le immagini che lo ritraggono nei panni di Casanova, sguardo intenso e fiducioso, possiedono la luce che promana da Ottavio, giovane eroe balzachiano a caccia di fortuna in America. Gli occhi in entrambi ti guardano per conquistarti. Ottavio, alle spalle la fatica di resistere di una famiglia di pseudo-gitani. Giulio viceversa scaldato dal respiro protettivo dei genitori della buona borghesia cittadina, che gli abitano accanto, un poco ansiosi per le sorti oggi di un attore nella giungla dello spettacolo in Italia. Una laurea al Dams bolognese, un lungo spostarsi per teatri anche importanti, vedi Le Briciole a Parma, dove scopre in Bercini un parente dei Canestrelli. Artista indipendente, in una parola, diplomato alla scuola Galante Garrone, in cui ha messo su una voce dalla dizione musicale ma pure capacità espressive del corpo mimico (affinità con i grandi acrobati, suoi parenti). Ha fatto spettacoli anche in carcere. E adesso integra con lavori in legno da artigiano designer, a ritrovare e rilanciare il dna del nonno. Giulio è single, e la sorella medico al Lido a sua volta non ha progenie. Elio è preoccupato. Se non si danno una mossa, chiosa mestamente, il ramo veneziano dei Canestrelli rischia di estinguersi. Invece, gli zingari con il loro circo ambulante figliavano come lanciassero un partito, il loro partito, in cerca di sicurezza. Una nidiata che corrispondeva a forza lavoro, a metter su un’azienda. Gli chiedo salutandolo sulla porta di definire in un aggettivo lo zio Ottavio, varie volte venuto a Venezia, e morto nel 1984, un anno dopo la nascita di Giulio. Ci pensa un po’, il matematico, e poi mi sussurra “affidabile”, credo il marchio dell’intera gens Canestrelli.
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