
Il Manifesto di Ventotene, scritto da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni nel 1941 durante il confino sull’isola di Ventotene, sta conoscendo in questo momento una grande visibilità, sia a seguito della manifestazione per l’Europa del 15 marzo in Piazza del Popolo, in cui è stato il documento politico di riferimento; sia per essere stato l’oggetto di un attacco strumentale alla Camera da parte della Presidente del Consiglio, che ha scatenato le reazioni durissime dell’opposizione.
Mentre le polemiche (e l’attenzione) sul Manifesto non si placano, è assolutamente importante che questo scritto politico e la battaglia “per un’Europa libera e unita” (titolo originale del documento) che ne è scaturita non cadano ora preda di divisioni tra la destra e la sinistra sulla base di criteri che nulla hanno a che fare con i principi e le analisi che l’opera contiene. Se è diventata una pietra miliare del processo politico europeo dal dopoguerra ad oggi, è perché non parla alle opposte fazioni della politica, ma traccia un nuovo spartiacque spiegando come l’interesse genuino dei cittadini, a maggior ragione in un momento pericoloso come l’attuale, dipenda dalla costruzione di un’Europa federale. Questo vale come indicazione per tutte le forze politiche, ciascuna con il proprio contributo e le proprie priorità, perché la divisione in Stati nazionali ci rende deboli e impotenti, e mortifica qualsiasi obiettivo politico si voglia realizzare che non sia il vassallaggio nei confronti di Mosca e (in questo momento) anche di Washington.
È importante quindi cercare di fare un pochino di chiarezza e inquadrare storicamente e politicamente il Manifesto.
Bisogna ricordare innanzitutto che questo testo risente delle diverse radici culturali e politiche dei tre autori, accomunati dall’opposizione al regime fascista, ma arrivati da percorsi diversissimi tra loro; e ritrovatisi a convergere sugli scritti sull’Europa e la politica internazionale di Luigi Einaudi con cui avevano un interlocuzione diretta e nelle analisi elaborate dagli autori di Federal Union (il movimento britannico sviluppatori alla fine degli Anni Trenta per l’unità federale dei paesi europei democratici e l’alleanza delle democrazie nel mondo contro il totalitarismo). Inoltre, è stato scritto in un momento, il 1941, in cui era impossibile prevedere l’esito della guerra, se non facendo supposizioni. Hitler stava vincendo, resisteva solo la Gran Bretagna, gli Stati Uniti non erano ancora entrati in guerra, e i tre autori ipotizzavano la vittoria delle democrazie con l’ingresso degli USA, ma non potevano immaginare nessuna delle condizioni concrete verificatesi al termine del conflitto. Pensavano quindi che le democrazie vittoriose e le forze democratiche dell’opposizione interna al nazifascismo si sarebbero ritrovate al tavolo negoziale per la pace, e avrebbero potuto ricostruire l’Europa direttamente con un assetto federale. Molte delle considerazioni contenute nel terzo e ultimo capitolo del breve testo che compone il Manifesto (che è la parte da cui sono tratte le citazioni fatte in Aula dalla Presidente Meloni) nascono in e da questo contesto, insieme a riflessioni (a cura soprattutto di Ernesto Rossi, che era un economista di matrice liberale, uno dei fondatori di Giustizia e Libertà, poi confluito nel Partito d’Azione) sulla riforma del sistema economico in contrapposizione al regime instaurato dal fascismo e sulla base di una visione ancora ottocentesca, che poi sarà superata nel dopoguerra dall’affermarsi delle teorie di William Beveridge sul moderno Stato sociale.
Questa parte del Manifesto è quella che gli stessi autori abbandoneranno nella loro rielaborazione e attività successiva, mentre manterranno il nocciolo dell’analisi contenuto nei primi due capitoli, che conservano tutta la loro attualità e sono quelli per cui il Manifesto resta un testo così significativo.
Nel primo capitolo (La crisi della civiltà moderna) si analizza, pur brevemente, il drammatico processo involutivo dello Stato nazionale in Europa, degenerato – da “potente lievito di progresso” e da ideale volto alla liberazione dei popoli e istituzione preposta a tutelare la libertà dei cittadini – fino a diventare “padrone di sudditi, tenuti a servirlo con tutte le facoltà per rendere massima l’efficienza bellica”. Le ragioni di tale trasformazione si trovano nel principio stesso della “sovranità assoluta degli stati nazionali”, che a fronte della crescente interdipendenza reciproca provocata dallo sviluppo dell’economia,
ha portato alla volontà di dominio sugli altri e considera suo ‘spazio vitale’ territori sempre più vasti che gli permettano di muoversi liberamente e di assicurarsi i mezzi di esistenza senza dipendere da alcuno. Questa volontà di dominio non potrebbe acquietarsi che nell’egemonia dello stato più forte su tutti gli altri asserviti.
È questo processo che è alla radice dell’ascesa dei totalitarismi e della guerra. Per questo lo Stato nazionale ha esaurito la sua funzione storica propulsiva ed è diventato un ostacolo al progresso, alla libertà e alla democrazia.
Nel secondo capitolo (I compiti del dopoguerra: l’unità europea) Spinelli, in particolare, approfondisce la questione del perché la ricostituzione degli Stati nazionali europei sarebbe destinata a far ricadere gli europei “nelle vecchie aporie” e perché
il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani.
Il Manifesto fissa, così,
la nuova linea di divisione fra i partiti progressisti e partiti reazionari (che) cade ormai, non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa coloro che concepiscono, come campo centrale della lotta quello antico, cioè la conquista e le forme del potere politico nazionale, e che faranno, sia pure involontariamente il gioco delle forze reazionarie, lasciando che la lava incandescente delle passioni popolari torni a solidificarsi nel vecchio stampo e che risorgano le vecchie assurdità, e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale.
Da questo deriva una nuova indicazione per l’azione politica che,
con la propaganda e con l’azione, cercando di stabilire in tutti i modi accordi e legami tra i movimenti simili che nei vari paesi si vanno certamente formando, [dovrà mobilitare le forze] per far sorgere il nuovo organismo, che sarà la creazione più grandiosa e più innovatrice sorta da secoli in Europa; per costituire un largo stato federale, … pur lasciando agli Stati stessi l’autonomia che consente una plastica articolazione e lo sviluppo della vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli.
L’importanza del Manifesto di Ventotene risiede dunque in questi due principi, radicalmente nuovi, che immette nella storia del pensiero e dell’azione politica; ossia che (i) le battaglie politiche per l’emancipazione dell’umanità – se si vuole che siano orientate verso i valori fondamentali della libertà, della democrazia, della giustizia e della costruzione di una vera pace – devono porsi come priorità assoluta il superamento del nazionalismo e la costruzione di una Federazione; (ii) la Federazione non è più un’utopia, né una semplice aspirazione, ma è la battaglia politica del nostro tempo.
Se il Manifesto di Ventotene ha ancora oggi una forza evocativa così potente è perché ha portato la politica nazionale a doversi confrontare con la necessità di sviluppare (anche se questo è successo in modo incompleto) il processo di unificazione europea. Spinelli non ha condiviso le scelte che, dopo la caduta del progetto della Comunità Europea della Difesa nel 1954, hanno portato ai Trattati di Roma e alla nascita della Comunità Economica Europea. Eppure questo non gli ha impedito – così come non lo ha impedito al Movimento Federalista Europea da lui e dagli altri estensori del Manifesto fondato in clandestinità a Milano nel 1943 – di continuare a battersi per l’Europa federale, contribuendo concretamente allo sviluppo di questo grandioso progetto. E se oggi il Manifesto torna di attualità è perché è fortissimo il rischio che gli Stati europei cadano vittime della loro stessa inadeguatezza e contribuiscano, con le loro ormai velleitarie sovranità nazionali, a far trionfare i nuovi imperi e la loro ideologia dispotica. Nessuna forza politica del nostro Paese dovrebbe dividersi su questo.
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