Venerdì scorso, dieci senatori democratici — per lo più senatori di Swing States prossimi al ritiro dalla politica — hanno votato a favore della proposta di finanziamento repubblicana, fornendo un supporto decisivo per la sua approvazione. Tra loro c’era anche Chuck Schumer, capogruppo della minoranza democratica al Senato, il cui voto ha scatenato una crescente rivolta interna al partito.
L’adesione di Schumer ha infatti sorpreso molti. Inizialmente, diversi senatori democratici avevano messo in guardia sul rischio di creare un pericoloso precedente, soprattutto mentre Donald Trump e Elon Musk continuavano a smantellare il governo federale. Tuttavia, altri sostenevano che respingere la proposta repubblicana e permettere lo shutdown avrebbe finito per danneggiare i lavoratori federali, offrendo al contempo a Trump e Musk mano libera nel chiudere agenzie governative senza ostacoli.
Il rischio non era solo politico, ma anche pratico. Uno shutdown si verifica quando il governo federale non riesce a rinnovare o approvare il budget per le proprie agenzie, costringendole a interrompere le attività. Il blocco colpisce milioni di lavoratori federali, che si trovano a dover prendere congedo o a lavorare senza stipendio, con effetti a catena su numerosi servizi e programmi governativi.
Schumer, almeno inizialmente, sembrava deciso a opporsi. Aveva dichiarato che i senatori democratici avrebbero respinto la proposta repubblicana, consapevole che il loro voto era cruciale per evitare il filibustering. Per superare l’ostruzionismo servono infatti almeno sessanta voti, soglia necessaria per far avanzare certi provvedimenti legislativi senza il rischio di blocchi da parte dell’opposizione.
Eppure, nel giro di pochi giorni, il capogruppo democratico ha cambiato posizione. Non solo ha votato con i repubblicani, ma lo ha fatto senza tentare alcuna negoziazione — senza chiedere concessioni, senza ottenere modifiche, senza strappare impegni formali su alcuna misura. Altri nove senatori democratici lo hanno seguito, consentendo ai repubblicani di evitare lo shutdown.
Per Schumer, alla guida dei Democratici al Senato dal 2016, la scelta si è ridotta a una scommessa strategica: evitare un blocco governativo che, a suo avviso, avrebbe solo rafforzato Trump, lasciando ai democratici l’onere della colpa per i disservizi. Il rischio, nella sua visione, era che chiudere il governo per chiedere restrizioni su Musk avrebbe finito per ritorcersi contro il partito, aggravando la situazione dei lavoratori federali e bloccando servizi pubblici essenziali — proprio le stesse cose per cui i Democratici accusano Trump.
La decisione di Schumer ha scatenato tuttavia un’ondata di polemiche all’interno del Partito Democratico. I deputati dem, che alla Camera avevano votato contro il disegno di legge (con una sola eccezione), si sono uniti in una furia bipartisan contro il leader della minoranza al Senato. L’indignazione ha attraversato ogni corrente del partito, coinvolgendo persino alleati storici di Schumer e figure di primo piano come Nancy Pelosi.
L’ex Speaker della Camera non ha usato mezzi termini. “Chiaramente, nessuna delle due opzioni è buona per il popolo americano,” ha dichiarato. Ma ha anche aggiunto: “Questa falsa scelta che alcuni stanno accettando invece di combattere è inaccettabile.” Pelosi ha poi esortato i senatori democratici ad ascoltare le figure che guidano per il partito le commissioni per gli stanziamenti di bilancio: la deputata Rosa DeLauro del Connecticut e la senatrice Patty Murray dello stato di Washington. Entrambe avevano proposto un piano provvisorio di trenta giorni come alternativa alla proposta repubblicana, che invece estende il finanziamento fino a settembre.
A rendere il clima ancora più teso ci ha pensato Alexandria Ocasio-Cortez, che ha annunciato l’intenzione di mobilitare la sua vasta base di seguaci per contrastare quella che ha definito una resa incondizionata di Schumer alla Camera repubblicana. “C’è un profondo senso di indignazione e tradimento,” ha dichiarato la deputata di New York, che alcuni hanno invitato a sfidare Schumer per il seggio senatoriale di New York, sottolineando come molti elettori democratici si sentano traditi dai senatori del proprio partito. Secondo Ocasio-Cortez, i democratici al Senato hanno “completamente rinunciato alla battaglia” e si sono arresi senza condizioni, abbandonando il loro dovere di proteggere la Costituzione.
Nemmeno Hakeem Jeffries, leader della minoranza democratica alla Camera, ha nascosto il suo disagio. Il successore di Pelosi e controparte diretta di Schumer ha evitato di esprimere pubblicamente un giudizio netto, ma la sua posizione è stata eloquente: ha ripetutamente rifiutato di rispondere a domande dirette su Schumer e sulla sua fiducia nella leadership del Senato.
Le tensioni non si limitano alla Camera: anche al Senato il consenso attorno a Chuck Schumer, un tempo solido, sembra ora vacillare. Secondo la stampa statunitense, molti senatori democratici avrebbero deliberatamente evitato di difendere la sua scelta, un segnale che il sostegno nei suoi confronti potrebbe sgretolarsi.
Il senatore della Georgia Raphael Warnock ha addirittura suggerito che il partito debba iniziare a guardare a una nuova leadership. Anche Chris Coons, senatore del Delaware e stretto alleato di Joe Biden, ha fatto eco a questa posizione, pur senza attaccare apertamente Schumer. “Una serie di corti federali ha chiarito che, secondo loro, il presidente Trump sta agendo illegalmente e non rispetta il ruolo del Congresso nell’assegnazione dei fondi,” ha dichiarato Coons, aggiungendo che i democratici si trovano oggi “in una situazione diversa rispetto a quella in cui si sono trovati nei miei quindici anni al Senato.”
Il problema, per molti, è che la leadership democratica sta operando con un vecchio manuale, incapace di adattarsi a una politica americana profondamente cambiata. Un tema su cui si è soffermato anche il New York Times in una recente intervista proprio a Schumer, nella quale il leader democratico è stato descritto come un “istituzionalista”: un uomo che ha guidato il partito in un’epoca in cui le regole erano chiare e i politici di entrambe le parti seguivano norme condivise. Un’epoca che, sottolinea la giornalista del quotidiano newyorchese, non esiste più.
Se il partito vuole sopravvivere, serve una trasformazione radicale. È questo il messaggio di Bernie Sanders, un altro veterano del Senato, che ha chiesto ai democratici di abbandonare l’impronta da “partito dei consulenti” per trasformarsi in una forza autenticamente multigenerazionale. Per Sanders, l’attuale leadership è troppo distante dalla base e incapace di rispondere alle nuove sfide poste da Trump e dal cambiamento del panorama politico americano.
Le accuse di essere distaccati dalla realtà non sono nuove per la leadership democratica. Risalgono all’ultima fase dell’amministrazione Biden, quando una serie di errori strategici ha contribuito alla sconfitta alle elezioni presidenziali. Tra questi, uno dei più gravi è stata la sottovalutazione dello stato di salute dell’ex presidente Biden, un tema che ha alimentato divisioni interne ancora lontane dall’essere risolte. Schumer ha cercato di minimizzare la questione nell’intervista al New York Times, respingendo le critiche sulla lucidità di Biden.
Al di là delle dichiarazioni di Schumer, il problema di fondo resta: i democratici non hanno una strategia chiara, né una visione condivisa, su come affrontare Donald Trump. Le tensioni interne al partito si riflettono anche nelle inchieste elettorali. I sondaggi mostrano un crollo della popolarità dei Democratici, superati dai Repubblicani persino tra segmenti di elettorato tradizionalmente progressisti.
Un recente sondaggio Quinnipiac mostra un elettorato diviso sull’immagine del Partito Repubblicano (43% favorevole, 45% sfavorevole), ma sorprendentemente negativo nei confronti dei Democratici. Solo il 31% degli intervistati ha un’opinione favorevole del partito, mentre il 57% ne ha un’opinione negativa. Un dato confermato anche da un sondaggio CNN, che registra un indice di gradimento per i Democratici al 33%—il più basso dal 1992.
Ma il malcontento non si limita all’elettorato generale: serpeggia anche tra gli stessi elettori democratici. Secondo lo stesso sondaggio, il 58% dei Democratici e degli indipendenti vicini al partito ritiene che siano necessarie “modifiche profonde” alla leadership e alla strategia politica. A rendere ancora più cupo il quadro, un’indagine New York Times-Ipsos ha rivelato che molti elettori vedono i Democratici come eccessivamente focalizzati su battaglie culturali considerate secondarie, mentre ignorano le questioni economiche che più preoccupano il Paese.
La corsa alla presidenza del partito, il D.N.C., lo scorso febbraio, ha messo in luce la mancanza di una strategia politica ampia e coerente da parte del Partito Democratico, un messaggio che vada oltre l’opposizione a Trump e sappia offrire una visione per il futuro. I due principali candidati, Ken Martin, presidente del Minnesota Democratic-Farmer-Labor Party, e Ben Wikler, presidente del Partito Democratico del Wisconsin, hanno delineato due approcci diversi al ruolo. Martin ha insistito sulla necessità di un attacco diretto a Trump, presentandosi come un candidato più vicino alla working class rispetto a Wikler. Quest’ultimo, invece, ha puntato sulla necessità di rendere visibile l’opposizione democratica solo nel momento in cui l’amministrazione repubblicana adottasse politiche impopolari su temi come sanità, istruzione e previdenza sociale. Alla fine, Martin ha prevalso, sostenendo che il vero problema del partito non fosse però tanto il contenuto del messaggio, quanto il modo in cui veniva comunicato. Il rivale Wikler, va aggiunto, godeva dell’appoggio di figure di primo piano come Chuck Schumer, Hakeem Jeffries, Nancy Pelosi e di finanziatori influenti come Reid Hoffman e Alexander Soros.
L’elezione di Martin tuttavia non ha risolto nulla. La dirigenza democratica resta divisa su come affrontare l’era Trump, e il voto sullo shutdown ne è stata la dimostrazione più lampante. Dopo una campagna elettorale interamente incentrata sulla retorica della difesa della democrazia, i Democratici si sono ritrovati a confermare in blocco i membri del gabinetto trumpiano—una scelta di cui alcuni si sono poi amaramente pentiti. Uno degli episodi più clamorosi è stata la conferma di Marco Rubio come Segretario di Stato, approvata con 99 voti su 100 (con Rubio stesso impossibilitato a votare). Solo poche settimane dopo, quando l’ex senatore della Florida è rimasto in silenzio nello Studio Ovale mentre Trump e il suo vice umiliavano pubblicamente il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, diversi senatori democratici hanno espresso rammarico per averne avallato la nomina. Dichiarazioni che, anziché placare la rabbia della base democratica, hanno contribuito ad alimentarla ulteriormente.
Questa situazione ha rafforzato la percezione di un partito allo sbando, privo di una direzione chiara. Non a caso, il New York Times che ha seguito e segue la crisi del Partito democratico ha descritto riunioni private ed eventi pubblici nei quali “i democratici eletti appaiono senza leader, senza direzione e divisi”:
Non sono d’accordo su quanto spesso e quanto strenuamente opporsi a Trump. Non hanno una comprensione condivisa del perché hanno perso le elezioni, per non parlare di come possono vincere in futuro. […] Più di 50 interviste con i leader democratici hanno rivelato un partito che sta lottando per definire ciò che rappresenta, quali questioni privilegiare e come affrontare un’amministrazione Trump che sta portando avanti un programma di destra con una velocità da capogiro.
All’interno del Partito Democratico, le varie fazioni hanno idee molto diverse su come affrontare la situazione attuale. Da un lato, vi sono coloro che ritengono che la situazione non sia così “anormale” come prospettato anche durante la campagna elettorale. Questa corrente sostiene un approccio istituzionalista, che guarda ai repubblicani come al partito di un tempo, con cui è ancora possibile trovare accordi. Dall’altro lato, alcuni adottano un approccio pragmatico, rivolgendosi agli elettori indipendenti e moderati. Pur non negando la pericolosità di Trump per la democrazia americana, credono che l’unico modo per contrastarlo sia concentrarsi sull’economia, riconquistando quegli elettori che hanno sostenuto Trump nella speranza di vedere una riduzione dei prezzi e un miglioramento delle proprie condizioni di vita. Esiste poi una terza fazione che invoca azioni più incisive, come proteste e interruzioni. Un esempio è stato l’intervento del rappresentante Al Green, che ha interrotto il discorso congiunto di Trump al Congresso.
Tra queste diverse posizioni, emerge una visione intermedia rappresentata da James Carville, storico stratega democratico che ha condotto Bill Clinton alla vittoria nel 1992. Il suo editoriale sul New York Times ha scatenato forti polemiche all’interno del partito. Carville ha suggerito infatti una strategia provocatoria: “Fate finta di essere morti”. Secondo lui, è il momento che i Democratici adottino la manovra politica più audace della loro storia: arrendersi e restare in disparte. “Lasciamo che i Repubblicani crollino sotto il loro stesso peso e facciamo in modo che il popolo americano senta la nostra mancanza”, ha dichiarato.
Carville ritiene che Trump e i suoi alleati abbiano sottovalutato la tolleranza del pubblico americano per il caos, l’incompetenza e le esibizioni di forza con altri leader mondiali, che potrebbero finire con il crollo dell’economia. La strategia migliore, dunque, sarebbe attendere che Trump goda ancora per un po’ dell’onda della vittoria elettorale, fino a quando il suo indice di approvazione non crollerà. A quel punto, sostiene Carville, i Democratici dovrebbero “comportarsi come un branco di iene e attaccare la giugulare”. Il suo timore è che gli allarmi continui, lanciati già durante la prima amministrazione Trump, abbiano finito per desensibilizzare il pubblico, rendendo inefficace uno scontro frontale e radicale.
Tuttavia, questa posizione ha sollevato molte critiche. David Graham, giornalista di The Atlantic, sostiene che non sia un grande consiglio. Secondo lui, i Democratici hanno passato l’ultimo anno e mezzo a parlare del Progetto 2025, della dissoluzione della democrazia e dell’autoritarismo imminente. “Quando si dice alla gente che l’inferno sta arrivando, alcuni ci credono davvero e si aspettano che i loro leader facciano tutto ciò che è in loro potere per fermarlo”, ha scritto Graham.
Anche Reed Galen, uno dei fondatori del Lincoln Project, una delle organizzazioni create da repubblicani per contrastare Trump durante il suo primo mandato, ha criticato i consigli di Carville. Secondo Galen questa strategia ha infatti molti problemi. Innanzitutto, dice, i Democratici hanno perso le elezioni presidenziali del 2024 – la loro seconda sconfitta contro Trump – non solo a causa dell’età di Joe Biden o delle politiche di Kamala Harris, ma soprattutto “per lo spostamento pluridecennale del partito dal mondo del lavoro all’élite costiera benestante”:
Questo cambiamento ha eroso il consenso democratico non solo tra la classe operaia bianca, ma anche tra i lavoratori latini. Inoltre, milioni di elettori in Stati cruciali hanno scelto di non votare, contribuendo alla sconfitta.
Se i Democratici decidessero di seguire il consiglio di Carville e di restare a guardare mentre il Paese brucia, nella speranza che gli elettori li ricompensino per i danni provocati da un secondo mandato di Trump, significherebbe che non hanno imparato nulla, avverte Galen:
Il principale errore politico del partito nella campagna presidenziale dell’anno scorso è stato quello di passare troppo tempo a parlare del perché Trump è cattivo, e non abbastanza a spiegare i loro piani per il popolo americano. Se il vecchio adagio “non si può sconfiggere qualcosa con niente” è vero, allora suggerire al Partito Democratico di fare il gioco dell’opossum è solo un’altra delle solite cattive politiche.
Ma allora, quale strategia adottare? Potrebbe essere più efficace un approccio pragmatico? Non tutti sono d’accordo. Jay Caspian Kang, scrittore e giornalista del New Yorker, mette in guardia Carville dal sottovalutare la rabbia che molti elettori liberal provano nei confronti del loro stesso partito, non solo per la sua inattività nell’ultimo mese, ma anche per aver permesso la vittoria di Trump:
Molti colleghi dei media hanno sostenuto che c’è un’ondata di rabbia nell’elettorato liberal e che potrebbe essere in arrivo un “momento Tea Party”. Secondo questa linea di pensiero, presto emergeranno una serie di nuovi candidati che sfideranno gli attuali membri del Congresso in tutto il Paese. In uno scenario di Tea Party, questi numeri così bassi, uniti all’insoddisfazione generale degli indipendenti, a un partito di opposizione senza leader e a un presidente uscente impopolare, potrebbero portare a un cambiamento radicale. Molti di questi nuovi candidati saranno cittadini comuni, stufi della politica inconcludente e nulla dell’establishment democratico. Si saranno fatti conoscere nelle piccole ma crescenti proteste e nei momenti di disobbedienza civile che sono iniziati in tutto il Paese.
Ancora dalla pagine del New Yorker, Susan B. Glasser, editorialista di punta del magazine, ha criticato i suggerimenti di Carville, che ritiene una sorta di “disarmo unilaterale”:
Che senso ha avere due partiti politici nella nostra democrazia se uno di essi non è più fedele alla Costituzione e l’altro è così debole e consumato dalle lotte intestine che la sua risposta è dire: “Non importa, non riusciamo a metterci d’accordo. Ci dispiace che Trump stia rovinando il Paese, ma torneremo l’anno prossimo in tempo per le elezioni di metà mandato?
Secondo Glasser, molti, incluso Carville, giustificano la loro scelta di non fare nulla con l’argomentazione che la “resistenza” a Trump sia stata inefficace durante il suo primo mandato. Ma questo, a suo avviso, è un errore di prospettiva:
Hanno forse dimenticato che i Democratici hanno ripreso il controllo della Camera dei Rappresentanti nelle elezioni di metà mandato del 2018? O che molti degli incaricati di Trump al primo mandato si sono opposti con successo dall’interno, impedendogli di portare avanti le sue idee più dirompenti di ridurre il governo americano, attaccare lo Stato di diritto e riorientare la nostra politica estera, molte delle quali sono ora in atto? Hanno forse dimenticato che Trump è stato sconfitto nel 2020 in un’elezione che si è conclusa con il controllo da parte dei Democratici non solo della Casa Bianca ma di entrambe le camere del Congresso?
Ma se l’inazione non è la soluzione, quale dovrebbe essere la direzione del partito? Ed è qui che emergono divisioni profonde tra chi vorrebbe spostarlo più a sinistra e chi crede che la salvezza stia in un ritorno al centro. Una parte significativa del mondo democratico ritiene che la deludente performance del 2024 non sia stata determinata principalmente dai soliti dibattiti su questioni sociali, diritti civili o politiche ambientali, ma da un fallimento più profondo: una crisi di identità e di messaggio. La questione, dunque, non sarebbe tanto dove posizionare il partito nell’asse politico, ma come renderlo nuovamente coerente nella difesa della working class.
Lo sostiene per esempio Alexander Nazaryan di MSNBC. Gli elettori nel 2024 sono rimasti confusi e delusi. “Non avevano idea di dove si trovassero su nessuna delle cose che interessano davvero alla gente normale”. Il messaggio del Partito Democratico era confuso, privo di un’identità chiara. Diviso tra donors miliardari da una parte e elettori della classe media dall’altra, i Democratici non sono riusciti a comunicare in modo efficace una visione che risuonasse con un ampio spettro dell’elettorato. Questo fallimento di identità ha portato a un crollo della fiducia e del supporto, in particolare tra gli elettori della classe lavoratrice, che tradizionalmente erano il pilastro del partito.
Austin Sarat, The Hill, ha mosso quasi la stessa critica, sottolineando l’ossessione continua del Partito Democratico nel corteggiare i “repubblicani suburbani che piacciono a Liz Cheney e che sono favorevoli alla deregolamentazione”, piuttosto che concentrarsi sugli elettori della classe lavoratrice che si sono sentiti sempre più abbandonati da entrambi i partiti principali. Per Sarat, i Democratici hanno cercato di conquistare una piccola fetta di repubblicani moderati, quelli disillusi da Trump ma non necessariamente allineati con i valori fondamentali del partito. Questa strategia può aver portato qualche voto nelle zone suburbane benestanti, ma ha alienato la base lavoratrice del partito, specialmente nelle regioni rurali, dove il sostegno ai Democratici è drasticamente diminuito.
A supporto di questa tesi, John Nichols di The Nation ha aggiunto che la perdita dell’America rurale è stata uno degli indicatori più evidenti del disordine interno al partito. La vicepresidente Kamala Harris, che avrebbe dovuto galvanizzare diversi segmenti della classe lavoratrice, ha visto il suo gradimento precipitare al 34% nelle zone rurali—un tracollo rispetto al già modesto 42% di Biden nel 2020. Per Nichols, questo calo non è un semplice problema di popolarità della candidata, ma il sintomo di un fallimento più profondo del partito nel rispondere alle reali preoccupazioni economiche e sociali delle piccole città americane.
A conferma della sua analisi, Nichols riporta le parole dell’ex Commissario all’Agricoltura del Texas, Jim Hightower, che mette in guardia i Democratici dal cercare di essere tutto per tutti, a scapito di un’identità politica chiara. Il partito, sostiene, dovrebbe concentrarsi su “sollevare la maggioranza che lavora ogni giorno” e affrontare in modo concreto i problemi economici che riguardano la vita quotidiana degli americani comuni. Questo significa non solo opporsi all’estrema destra, ma proporre soluzioni reali: investire nell’istruzione pubblica, garantire il funzionamento degli uffici postali nelle piccole città e creare opportunità di lavoro per le comunità della classe lavoratrice.
Questa critica al “neoliberismo” democratico, nota Nichols, non proviene solo dalla sinistra radicale, ma anche da esponenti più convenzionali del partito. Tra questi, il senatore Chris Murphy, che ha recentemente ammesso che i democratici non hanno ancora affrontato pienamente le conseguenze di cinquant’anni di politiche economiche neoliberiste. Secondo Murphy, il partito ha esitato troppo a lungo nell’offrire proposte economiche audaci e trasformative. Senza un cambio di passo in questa direzione, il rischio è quello di apparire irrilevanti agli occhi di una fetta sempre più ampia dell’elettorato.
Ma mentre una parte del dibattito interno al partito invoca un ritorno alle radici economiche per riconquistare la working class, un’altra preoccupazione emerge tra gli analisti: l’immagine sempre più spostata a sinistra che il Partito Democratico proietta all’esterno. Daniel A. Cox sottolinea come questa percezione non sia solo una costruzione dei media conservatori, ma una realtà radicata nei cambiamenti tangibili della retorica e dell’agenda democratica negli ultimi anni. Dal 2016 al 2024, l’evoluzione del linguaggio e dei temi proposti ha contribuito ad allontanare il partito dal centrismo tradizionale, spingendo molti elettori indipendenti a considerarlo troppo liberal.
I dati che Cox cita sono eloquenti: tra gli elettori indipendenti, il 53% ha una visione favorevole del Partito Democratico se lo percepisce come “moderato”, ma questa percentuale scende al 44% tra coloro che lo considerano semplicemente “liberal” e crolla al 6% tra quelli che lo vedono come “molto liberal”. Anche secondo un recente sondaggio Gallup, rispetto al 2021, il sostegno a un Partito Democratico più moderato è aumentato di 11 punti percentuali, raggiungendo il 45%, mentre la percentuale di coloro che preferirebbero un partito più progressista è scesa al 29%. Anche il numero di Democratici che vorrebbero mantenere lo status quo è in calo, segno di una generale insoddisfazione per l’attuale direzione del partito. Tra i Democratici più progressisti, quasi la metà (45%) vorrebbe un partito ancora più spostato a sinistra, mentre solo il 30% preferirebbe una svolta moderata. Al contrario, tra i moderati del partito, il 62% auspica un riposizionamento al centro, un dato che riflette le ansie di un elettorato che teme che un’eccessiva radicalizzazione possa allontanare gli elettori chiave nelle prossime tornate elettorali.
Il problema, secondo Cox, non è però necessariamente nelle singole proposte politiche, ma nella loro presentazione: il partito si è frammentato in un elenco di cause e battaglie – cambiamento climatico, diritti LGBTQ+, giustizia sociale, sanità pubblica – senza riuscire a trasmettere una narrativa coesa capace di parlare a un pubblico più ampio.
A complicare ulteriormente il quadro, Tanner Stenning della Northwestern University osserva come il Partito Democratico stia tentando di bilanciare la spinta progressista con posizioni più centriste nel tentativo di attrarre un elettorato più ampio. Tuttavia, questo sforzo rischia di non essere sufficiente per colmare il crescente divario tra le diverse anime del partito. Alcuni democratici potrebbero adottare posizioni più conservatrici su temi come l’immigrazione o politiche economiche più populiste per espandere il proprio appeal, ma questa strategia, se non accompagnata da una visione chiara e coerente, rischia di risultare inefficace.
Questa tensione interna lascia il Partito Democratico di fronte a un bivio: raddoppiare la scommessa su una politica progressista e identitaria, oppure ricostruire una piattaforma più centrata sulle questioni economiche che interessano direttamente la working class. Quel che è certo è che, senza una direzione chiara e una leadership capace di unificare queste diverse correnti, il rischio è quello di rimanere impantanati in una crisi di identità che potrebbe favorire ancora una volta un Partito Repubblicano sempre più radicalizzato.
Lo scontro tra la prospettiva progressista e quella centrista all’interno del Partito Democratico trova un chiaro esempio nel dibattito tra Eric Levitz di Vox e Osita Nwanevu, collaboratrice di The New Republic e autrice del libro in uscita “The Right of the People”. Levitz sostiene che i progressisti commettano un errore a interpretare la sconfitta di Kamala Harris come la prova che la moderazione e il centrismo non abbiano alcun valore elettorale. Per Nwanevu, invece, l’idea che i Democratici possano superare le loro attuali difficoltà semplicemente moderando le loro politiche è fuorviante. Tuttavia, aggiunge, nemmeno il populismo di sinistra rappresenta una soluzione chiara per il rinnovamento del partito.
A suo avviso, se la sinistra avesse davvero un approccio politicamente efficace, Bernie Sanders sarebbe già stato presidente. Nwanevu riconosce il ruolo delle dinamiche interne al Partito Democratico nel limitare il successo della sinistra, ma sostiene che la mancanza di una vera maggioranza progressista sia dovuta anche a fattori strutturali nell’elettorato. La moderazione, argomenta, si sta rivelando sempre meno efficace, ma ciò non significa che una virata netta verso il populismo di sinistra garantirebbe risultati migliori. Citando il trend elettorale degli ultimi vent’anni, sottolinea come il partito abbia spesso candidato moderati in distretti difficili senza ottenere grandi successi, segno che la questione è più complessa di una semplice scelta tra centro e sinistra.
Questa tensione tra le diverse anime del partito è al centro anche dell’analisi di William Galston ed Elaine Kamarck del think tank centrista Third Way. Secondo i due ricercatori, il problema più grande del Partito Democratico è la frammentazione della sua coalizione elettorale. Sebbene il declino del sostegno della classe lavoratrice ai Democratici sia iniziato decenni fa, l’era Trump ha accelerato ed esteso questo fenomeno, coinvolgendo non solo gli elettori bianchi, ma anche lavoratori ispanici e afroamericani, in particolare uomini.
Per Galston e Kamarck, la principale linea di frattura politica oggi è rappresentata dal livello di istruzione. I Democratici sono diventati sempre più il partito degli elettori con un titolo universitario, ma il problema è che la maggioranza degli americani non ha una laurea. Finché il partito non riuscirà a ricostruire un solido sostegno tra gli elettori senza istruzione universitaria, il suo futuro rimarrà incerto. Questo scollamento si è riflesso nelle elezioni del 2024: secondo le analisi post-voto, Trump ha vinto tra gli elettori con redditi inferiori ai 50.000 dollari e tra quelli nella fascia tra i 50.000 e i 99.999 dollari, mentre Harris ha ottenuto il maggior sostegno tra le famiglie con redditi superiori ai 100.000 dollari. Questo ha segnato una svolta storica: per la prima volta dal 1992, un candidato repubblicano ha vinto tra gli elettori a basso reddito, mentre per la prima volta dal 1996 un Democratico ha prevalso tra quelli più abbienti.
Galston e Kamarck identificano anche altre due aree critiche per i Democratici: l’immigrazione e le politiche economiche. Ritengono che Biden avrebbe dovuto agire più rapidamente e con maggiore decisione per controllare il flusso di immigrati irregolari dopo che le sue prime mosse in materia avevano portato a un aumento degli attraversamenti al confine meridionale. A sostegno di questa tesi, citano il lavoro di Michael Tesler, politologo dell’Università della California a Irvine, che ha evidenziato un aumento significativo, tra il 2020 e il 2024, del numero di elettori neri e ispanici che percepiscono gli immigrati come un peso per le risorse nazionali. Questo cambiamento di opinione avrebbe contribuito all’incremento del sostegno a Trump tra queste fasce demografiche.
Se molti Democratici sostengono che il partito debba migliorare le sue politiche economiche e il suo messaggio per riconquistare la classe lavoratrice, Galston e Kamarck sottolineano che il problema va oltre. Le questioni culturali sono altrettanto decisive: molti elettori della classe lavoratrice percepiscono il Partito Democratico come distante dai valori della società americana più tradizionale, e persino alcune delle sue politiche economiche sembrano favorire le élite urbane e istruite piuttosto che le loro comunità.
La tentazione di inseguire la moderazione per riconquistare la classe lavoratrice potrebbe scontrarsi tuttavia con la realtà di un elettorato sempre più polarizzato, dove i giovani e le minoranze, colonne portanti della coalizione democratica, chiedono risposte più radicali su temi economici e sociali. Ma forse sono sempre dati per acquisiti. Perché in ogni caso una parte dei dem sembra già avere scelto una strada precisa.
Che una parte della classe dirigente democratica abbia già tracciato la linea da seguire di fronte alle domande degli elettori delusi è però evidente. La prova sta nel sostegno che numerosi esponenti del partito hanno espresso verso le politiche della nuova amministrazione Trump, in particolare su commercio, immigrazione e diritti civili. Un segnale che, più che un ripensamento strategico, sembra suggerire un tentativo di adattamento a un vento politico che soffia sempre più forte da destra.
Sebbene i dazi doganali imposti dalla nuova amministrazione repubblicana abbiano incontrato una diffusa opposizione tra i democratici, non tutti nel partito sembrano allineati su una condanna netta. Alcuni esponenti di spicco, infatti, adottano un approccio più sfumato, convinti che il Partito Democratico debba sviluppare una propria agenda commerciale. L’obiettivo? Riconquistare il consenso della working class, evitando che il tema dei dazi resti un’esclusiva della destra populista.
I democratici della Rust Belt e di diversi distretti del Congresso, insieme ai leader dei sindacati storicamente democratici, hanno espresso il loro sostegno a molti dei dazi di Trump, anche se ritengono che li stia attuando in modo disordinato. Come riportato da Axios, il deputato democratico Jared Golden del Maine ha presentato una legge per imporre un dazio del 10% su tutte le merci che entrano negli Stati Uniti: “Il mondo sta cambiando e alcuni democratici non si sono ancora resi conto di questo fatto”. Golden, il cui distretto, in gran parte rurale, ha votato per Trump nel 2020 e nel 2024, ha aggiunto:
Penso che Trump abbia identificato il problema. […] Alcuni hanno detto che il nostro commercio con il Canada è davvero sano, e io non sono d’accordo. Non sto sostenendo che dovremmo adottare i dazi come parte di una strategia di campagna elettorale. Sto sostenendo che dovremmo farlo sulla base dei meriti della politica e di ciò che è buono per gli americani della classe operaia.
Anche il sindacato United Auto Workers, che l’anno scorso ha appoggiato l’allora presidente Biden, ha dichiarato questo mese:
Siamo lieti di vedere un presidente americano intraprendere un’azione aggressiva per porre fine al disastro del libero scambio che è caduto come una bomba sulla classe operaia.
E non sono solo alcuni sindacati o deputati di aree trumpiane. Anche la sinistra non sembra dispiaciuta di alcune misure. Per esempio, Faiz Shakir, uno dei più stretti collaboratori di Sanders per il quale ha gestito la sua campagna presidenziale per il 2020, ha dichiarato sempre ad Axios:
Non sono d’accordo con i Democratici che vivono nell’idea che abbiamo solo bisogno di merci a basso costo dalla Cina e dal Messico, e il loro messaggio è: ‘Lavatrici e avocado diventeranno più costosi”. […] C’è un desiderio di dazi per un motivo. Gli elettori sentono che Trump sta facendo pagare a queste aziende un prezzo per aver spedito posti di lavoro all’estero.
Il deputato Chris Deluzio della Pennsylvania ha criticato l’attuazione “caotica” delle tariffe da parte di Trump, ma ha sostenuto che “la risposta non è condannare le tariffe su tutta la linea”:
I democratici devono liberarsi dall’orda di zombie sbagliati da decenni di economisti neoliberisti che pensano che le tariffe siano sempre negative,
ha scritto in un articolo sul New York Times.
Un altro esponente importante della sinistra dem, Ro Khanna della California, sostiene che siano necessari dei dazi strategici contro la Cina come parte di una politica industriale più intelligente.
Ma è sul tema dell’immigrazione che qualcosa sta cambiando profondamente. Qualche settimana fa dodici senatori democratici si sono uniti ai repubblicani per approvare una legge sull’immigrazione, un tema che da anni paralizza il Congresso e che rimane al centro della retorica trumpiana.
Il provvedimento, noto come Laken Riley Act, prende il nome da una giovane donna assassinata lo scorso anno mentre faceva jogging all’Università della Georgia. La legge prevede misure più severe per gli immigrati irregolari che commettono crimini negli Stati Uniti, ampliando il potere delle forze dell’ordine nell’arresto e nella detenzione. Ma il punto di rottura rispetto alla normativa vigente è netto: il testo introduce la possibilità di detenzione e deportazione per gli immigrati privi di documenti anche solo accusati – e non condannati – per reati minori come il taccheggio. Un cambiamento radicale rispetto all’attuale requisito di almeno due condanne per reati di “turpitudine morale” prima che scatti l’espulsione.
John Fetterman, senatore democratico e co-sponsor della legge, ha difeso il provvedimento affermando che “assicurerà la detenzione e l’espulsione degli alieni criminali prima che possano commettere crimini orribili come quello che è accaduto a Laken Riley”. Questi dodici senatori democratici – in gran parte provenienti da stati in bilico o alle prese con difficili rielezioni – hanno fatto una scelta politica chiara, abbracciando una stretta securitaria sull’immigrazione che fino a pochi anni fa sarebbe stata impensabile tra le fila del loro stesso partito.
Si tratta sicuramente di un tentativo di adattarsi ai desiderata degli elettori. Come ha scritto Greisa Martínez Rosas del New York Times, l’erosione del consenso dei Latinos nei confronti dei Democratici non dipende da un improvviso spostamento ideologico verso destra di questo gruppo elettorale:
Il problema è più semplice e, allo stesso tempo, più profondo: il partito sta facendo l’offerta sbagliata. Molti latinos non si vedono come vittime di un sistema razzista, bensì come lavoratori instancabili in cerca di opportunità, proprio come gli irlandesi, gli italiani e gli ebrei che li hanno preceduti nel grande sogno americano. È questa auto-narrazione a renderli più ricettivi ai messaggi conservatori sulla sicurezza e sull’immigrazione, soprattutto quando i Democratici insistono a incorniciare il dibattito politico come una battaglia morale contro il razzismo invece che come una lotta populista per la sicurezza economica delle famiglie lavoratrici.
L’America sembra aver peraltro già deciso: l’immigrazione irregolare non è più un tema di nicchia, ma una priorità politica trasversale. Un’inchiesta Axios/Ipsos di gennaio ha rivelato che il 66% degli americani sostiene l’idea delle espulsioni, anche se il consenso cala di fronte a misure più drastiche—solo il 38% approverebbe l’uso della forza militare e appena un terzo accetterebbe la separazione delle famiglie.
Anche un sondaggio dell’Associated Press-NORC Center mostra che metà degli adulti americani ritiene che rafforzare la sicurezza alla frontiera debba essere una priorità assoluta per il governo federale. Altri tre su dieci la considerano comunque una questione di media importanza. Persino tra i democratici, l’opposizione alle espulsioni di massa coesiste con un dato rivelatore: l’80% degli elettori del partito sostiene l’espulsione degli immigrati irregolari condannati per crimini violenti.
Non sorprende, dunque, che senatori democratici come Ruben Gallego, vincitore in Arizona, stato vinto da Trump, abbiano sostenuto misure come il Laken Riley Act. Gallego si difende dicendo di rispecchiare semplicemente la volontà dei suoi elettori, inclusi molti latinos. E forse è proprio qui che sta il punto: l’idea che la comunità ispanica sia monoliticamente pro-immigrazione è una narrazione politica che la realtà sta rapidamente smantellando.
Anche la recente corsa alle primarie per trovare il candidato governatore del New Jersey, stato democratico, sta dando indicazioni di come i democratici stiano in parte modificando le loro posizioni sull’immigrazione. Se anche nel liberal New Jersey i democratici in corsa per la carica di governatore prendono le distanze dalla tradizionale linea progressista sull’immigrazione, il sentimento che il vento stia cambiando c’è. Alcuni candidati si sono avvicinati alla retorica dura di Donald Trump, accettando in parte la sua impostazione securitaria. Altri, forse consapevoli del rischio politico, hanno preferito spostare l’attenzione su economia e costo della vita, evitando il tema dell’immigrazione quasi fosse un campo minato.
Ma il vero test sarà l’esito delle elezioni del New Jersey. Se in uno stato storicamente democratico come il New Jersey prevarrà la linea dura, il messaggio per il partito sarà chiaro: l’approccio tradizionale non basta più. I democratici che correranno in altri stati, soprattutto in quelli in bilico, dovranno rivedere le proprie strategie per non rischiare di perdere il contatto con il loro stesso elettorato.
Stessa piega stanno prendendo le cose in California dove la parola sanctuary è sparita dal vocabolario del governatore democratico Gavin Newsom. Durante il primo mandato di Trump, il governatore della California l’aveva evocata spesso, facendone quasi un baluardo politico contro le politiche migratorie dell’amministrazione repubblicana. Oggi, con Trump di nuovo alla Casa Bianca e più determinato che mai a portare avanti la più grande operazione di espulsione nella storia americana, il tono è cambiato.
Newsom ha già posto il veto su leggi che avrebbero ampliato le protezioni per gli immigrati irregolari in custodia statale e ha promesso di farlo ancora. Non è il solo: molti Democratici californiani stanno adottando una strategia più prudente, cercando di difendere le tutele esistenti senza allargarle ulteriormente, soprattutto a chi si trova in carcere. Il motivo è chiaro: lo scontro con l’amministrazione Trump potrebbe diventare più costoso che in passato. Trump ha minacciato di tagliare i fondi federali alle città e agli stati che rifiutano di collaborare con le autorità dell’immigrazione e ha persino ventilato l’idea di perseguire penalmente i funzionari locali che si oppongono alle deportazioni. E la California, reduce dai devastanti incendi di gennaio, dipende più che mai dagli aiuti federali per la ricostruzione.
Segnale di una svolta o solo di realismo politico? In ogni caso in California si stanno sperimentando tentativi di riavvicinamento alla piattaforma repubblicana non solo sull’immigrazione ma anche sulla pelle della comuntià LGBTQ+. Da quando è tornato alla Casa Bianca, Trump ha infatti firmato una serie di ordini esecutivi che prendono di mira esplicitamente le persone transgender. Tra questi, uno che nega del tutto l’esistenza delle identità trans. Altri provvedimenti, già in fase di attuazione da parte delle agenzie federali, mirano a impedire alle persone transgender di servire apertamente nelle forze armate, escludere le atlete trans dalle competizioni femminili, limitare l’accesso a documenti d’identità corretti e ridurre drasticamente i finanziamenti federali per l’assistenza sanitaria di affermazione di genere destinata ai giovani.
Il dibattito sulla partecipazione delle atlete transgender nelle competizioni femminili ha visto emergere anche divisioni all’interno del Partito Democratico. I deputati democratici Tom Suozzi di New York e Seth Moulton del Massachusetts si sono smarcati dalla linea tradizionale favorevole del partito, dichiarando al New York Times che le atlete transgender non dovrebbero gareggiare in squadre femminili. A gennaio, i rappresentanti texani Vicente Gonzalez e Henry Cuellar sono stati gli unici democratici ad affiancare i repubblicani nel votare a favore di una legge per escludere le atlete transgender dallo sport femminile a livello scolastico e universitario.
Come per l’immigrazione e le politiche commerciali, queste prese di posizione politiche sembrano riflettere un sentimento diffuso tra l’opinione pubblica americana. Secondo un sondaggio New York Times/Ipsos condotto a febbraio, il 79% degli americani ritiene che le persone transgender non dovrebbero partecipare alle competizioni sportive femminili. Un’altra indagine del Pew Research Center ha evidenziato come l’opinione pubblica statunitense sia diventata progressivamente più favorevole a politiche restrittive sui diritti trans.
E il tema continua a catalizzare il dibattito pubblico: nel primo episodio del suo podcast, proprio Gavin Newsom—considerato un probabile candidato alla nomination democratica per le presidenziali del 2028—ha sorpreso molti dichiarando di essere d’accordo con il commentatore ultraconservatore Charlie Kirk nel ritenere “profondamente ingiusta” la presenza di atlete trans nelle competizioni femminili.
Dietro le quinte, alcuni democratici condividono le perplessità di Newsom, mentre altri insistono sulla necessità di difendere le persone transgender e le altre comunità prese di mira dalle nuove politiche dell’amministrazione Trump. Ma il governatore californiano non si è fermato allo sport. Nel corso del podcast, ha criticato anche l’abitudine di alcuni esponenti democratici di presentarsi specificando i propri pronomi. “Una volta ero a una riunione e la gente ha iniziato a presentarsi con i propri pronomi”, ha raccontato. “Mi sono chiesto: ‘Ma davvero? Perché mai questa dovrebbe essere la questione più importante?’”.
Le tensioni su questi temi non riguardano solo Newsom. Rahm Emanuel, ex sindaco di Chicago e ambasciatore statunitense in Giappone—che alcuni vedono come un altro possibile candidato alla Casa Bianca nel 2028—ha espresso un’opinione simile, dicendo ad Axios: “Ci sono ragazzi in classe che discutono su quali pronomi usare, mentre il resto della classe non sa nemmeno cosa sia un pronome. Questa è una crisi”. Persino Pete Buttigieg, ex segretario ai Trasporti e possibile candidato alle presidenziali del 2028, sembra aver preso le distanze da certe battaglie culturali. Di recente, ha rimosso i suoi pronomi dal profilo su X, come riportato da Axios.
L’onda lunga di questo dibattito sta spaccando il Partito Democratico su più fronti, incluse le politiche di Diversità, Equità e Inclusione (DEI) e il modo in cui si affrontano i temi legati alla razza. Il deputato Adam Smith, membro di spicco della Commissione Forze Armate della Camera, ha dichiarato a The New Yorker che alcuni programmi DEI “sbandano pericolosamente quando suggeriscono che razzismo, bigottismo e colonialismo siano prerogative uniche dei bianchi… Non è necessario implicare che tutti i bianchi siano razzisti o oppressori”. Anche Newsom ha messo in chiaro la sua posizione su certi linguaggi inclusivi, dichiarando a Kirk: “Nel mio ufficio, nessuno ha mai usato la parola ‘Latinx’”.
Come ricordato, Newsom per anni è stato uno dei più accesi oppositori democratici di Donald Trump, costruendo la propria immagine di combattente progressista di nuova generazione, capace di guidare il partito nell’era post-Biden. Negli ultimi mesi, però, il suo atteggiamento nei confronti di Trump si è fatto appunto più sfumato, mentre le sue critiche si sono rivolte sempre più spesso ai Democratici e alla loro strategia.
Sono in gioco infatti le ambizioni presidenziali per il 2028. Tra i potenziali candidati, alcuni come Newsom hanno optato per un approccio più moderato, nel suo caso compiendo un notevole cambio di rotta nel tentativo di guadagnare credibilità presso elettori indipendenti e conservatori. Altri esponenti del partito, al contrario, rimangono fermi nella convinzione che solo un’opposizione intransigente possa efficacemente contrastare l’avanzata dell’influenza trumpiana.
Gretchen Whitmer, governatrice del Michigan, è tra coloro che vogliono dimostrare pragmatismo. Ha mandato truppe della Guardia Nazionale al confine per contrastare l’immigrazione irregolare e ha aperto alla possibilità di nuove tariffe per proteggere l’industria americana. Anche sulle politiche identitarie ha scelto una linea più sfumata: si è rifiutata di unirsi a una causa legale contro il tentativo di Trump di abolire la cittadinanza per nascita, nonostante il coinvolgimento del suo procuratore generale. Nel suo discorso al Detroit Auto Show, ha ribadito una visione centrata sul lavoro e sulla produzione americana. Anche Jared Polis, governatore del Colorado, sta cercando di posizionarsi come un leader moderato. Ha parlato della necessità di un percorso verso la cittadinanza per alcuni immigrati, ma allo stesso tempo ha sottolineato l’urgenza di un controllo più severo del confine. Ha persino elogiato la nomina di Robert F. Kennedy Jr. a Segretario alla Salute, una mossa che non è passata inosservata.
Dall’altro lato, c’è chi non ha alcuna intenzione di cercare compromessi con Trump. JB Pritzker, governatore dell’Illinois, ha addirittura evocato la Germania degli anni Trenta per descrivere il momento politico attuale: “Il seme che ha portato alla dittatura in Europa non è germogliato in una notte. È iniziato con persone comuni, arrabbiate per l’inflazione e alla ricerca di qualcuno da incolpare.”
Poi c’è chi sta scegliendo un approccio più attendista. Josh Shapiro, governatore della Pennsylvania, Wes Moore, governatore del Maryland, e Andy Beshear, governatore del Kentucky stanno osservando la situazione con cautela, scegliendo le loro battaglie con attenzione. Criticano Trump su alcuni punti, ma non si lanciano in una guerra aperta.
Qualunque sia l’esito del dibattito interno tra i Democratici, l’impatto di Trump e del trumpismo sembra non solo sconvolgere il Partito Repubblicano, ma minacciare anche il Partito Democratico, rischiando di trasformarlo profondamente rispetto a come lo abbiamo conosciuto in questa fase storica.
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