
Niente miracolo: anche stavolta festeggiano loro. Come nel 2016, del resto, quando l’Italia di Antonio Conte dovette arrendersi ai rigori a una Germania campione del mondo in carica e mostruosamente più forte di noi. All’epoca si giocava in terra di Francia per i quarti di finale di un Europeo che sarebbe poi stato vinto dal Portogallo di Cristiano Ronaldo. Ieri sera si giocava, invece, in Germania, nel ritorno dei quarti di Nations League, in uno stadio che rievoca comunque dolcissimi ricordi. Era, infatti, il 4 luglio 2006 quando al Westfalenstadion di Dortmund gli Azzurri di Lippi ebbero la meglio sulla Germania di Klinsmann, padrona di casa, nella semifinale dei Mondiali che ci saremmo aggiudicati cinque giorni dopo contro la Francia. Era la Nazionale di Buffon e Cannavaro ma, soprattutto, di un terzino sinistro fino a quel momento sconosciuto ai più: Fabio Grosso, gettato nella mischia dalla sagacia del tecnico viareggino e capace, a un soffio dai rigori, di bucare la porta tedesca con un tiro imparabile, seguito, poco dopo, da un gioiello di Alessandro Del Piero che ci avrebbe proiettato nell’Empireo.
Perché Italia-Germania, storicamente, non è una partita come le altre e non lo sarà mai. E se del mitico 4 a 3 dell’Azteca ne abbiamo parlato ormai fino allo sfinimento, così come del 3 a 1 di Madrid, quando Nando Martellini poté esclamare tre volte “Campioni del mondo!”, vale la pena di soffermarsi su quella battaglia di diciannove anni fa, se non altro per riflettere su come siamo cambiati da allora. Era l’estate di Calciopoli, quella che avrebbe condotto in B la Juventus e a penalizzazioni notevoli Fiorentina, Lazio e Milan. La spedizione azzurra, proprio come nell’82, era partita alla volta della Germania fra contestazioni e scetticismo, essendo oltretutto una NazioJuve, a cominciare dal condottiero. E lì era avvenuto un miracolo, non dissimile da quello di ventiquattro anni prima, senza neanche bisogno del silenzio stampa. Colpita da critiche feroci, la truppa lippiana si era compattata, fino a diventare inaffondabile. Difesa di ferro, centrocampo a prova di bomba, un attacco tra i migliori al mondo e in porta semplicemente lui, Gigi Buffon, autore, quella sera a Dortmund, ma diciamo in tutto il Mondiale, di prestazioni per cui avrebbe meritato il Pallone d’oro al pari di Cannavaro. Ma soprattutto il carattere, ciò che forse manca ancora alla discreta compagine di Spalletti, ricca di buone individualità ma incapace di esprimersi al meglio contro avversari rodati come i tedeschi. E così, nello stesso stadio che due decenni fa ci aveva mandato in estasi, nel primo tempo siamo sprofondati nell’incubo, incassando tre gol, uno dei quali inspiegabile se non con un black out collettivo, per poi risorgere nella ripresa grazie a una doppietta di Moise Kean, sempre più protagonista tanto in maglia viola quanto in azzurro, e a un rigore di Giacomo Raspadori, che da promessa si sta trasformando in una piacevole certezza. Insomma, a Spalletti, in vista delle qualificazioni mondiali, non mancano né il gioco né gli interpreti, al massimo un po’ di “cazzimma”; senza dimenticare che stiamo pur sempre parlando di un girone che ci vedrà contrapposti a Estonia, Moldavia, Israele, Norvegia: nessuno va sottovalutato ma se non dovessimo riuscire a superare questi rivali, ci meriteremmo di saltare il terzo Mondiale di fila, e quella sì sarebbe una tragedia.
Molto si è detto e scritto sulla nostra ennesima delusione. A parer mio, uno dei grandi temi da affrontare, anche in vista dell’imminente calciomercato, riguarda la ricostruzione di blocchi italiani all’interno delle squadre principali. Più che la forza dei singoli, difatti, a fare la differenza in passato è sempre stata la coesione dei blocchi: quello juventino, certo, ma anche quello interista e quello milanista, per non parlare poi dell’epoca aurea di Roma e Lazio, del Parma e della Fiorentina. In tal senso, si è mosso bene Beppe Marotta: non a caso, l’Inter è in corsa per tutti gli obiettivi e fornisce alla Nazionale alcuni dei campioni più rappresentativi. Non male neanche il Napoli, mentre latitano un po’ Milan e Juve e le romane non hanno più da offrire un Oddo, un Totti o qualcosa di paragonabile. E poi l’Under 21, egemone negli anni Novanta, ancora in spolvero nei primi Duemila ma da allora davvero evanescente, incapace di costituire un serbatoio apprezzabile di risorse per la Nazionale maggiore.
Sarebbe dunque opportuno che qualcuno, ai vertici della FGCI, prendesse in considerazione il fatto che l’indimenticabile notte di Berlino non è nata dal nulla ma da oltre un decennio di lavoro collettivo di altissimo livello. I fuoriclasse condotti da Lippi sul tetto del mondo, infatti, altro non erano che i cuccioli di Maldini nel biennio ’94-’96 e quelli di Tardelli e Gentile fra il 2000 e il 2004. Per l’appunto: Maldini, Tardelli e Gentile, tre miti. Oggi, se veramente vogliamo imparare qualcosa dai nostri errori, dovremmo riscoprire i tecnici federali e rafforzare il rapporto fra le giovanili e le prime squadre. Perché di Yamal ne è nato uno e gioca nel Barcellona, d’accordo, ma non è detto che non ci siano in giro degli ottimi talenti, magari non potenzialmente da Pallone d’oro ma comunque in grado di tingere d’azzurro qualche altro cielo.
Lo hanno capito nelle altre discipline. Al calcio, evidentemente, manca il coraggio di osare.
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