
Chissà se è vero che Jeff Bezos e Lauren Sanchez celebreranno il loro matrimonio a Venezia. La data che circola, dal 24 al 26 giugno, è ancora lontana, ma i tanti dettagli messi a punto – 250 ospiti per ognuno dei tre giorni, cinque alberghi prenotati, ingaggiati tutti i taxi cittadini… – fanno presumere che il fondatore e proprietario di Amazon, editore del Washington Post, titolare di un patrimonio personale che supera i duecento miliardi di dollari, e la sua fidanzata, giornalista di origine messicana, debbano solo decidere se affittare un intero isolato su Canal Grande oppure chiedere ospitalità in un museo oppure ancora imbandire, dentro o fuori Laguna, il loro yacht.
In attesa di conferme, non è sbagliato pensare a una qualche reazione. Ma prima vediamo perché.
Bezos è uomo di punta dello schieramento di miliardari che fa da corona a Donald Trump. Probabilmente gli importano solo i vantaggi economici che la Casa Bianca può garantirgli. E gli è quindi indifferente se dallo studio ovale si autorizzi il massacrante tormento cui è sottoposta Gaza, oppure si smantelli pezzo dopo pezzo il bilanciamento dei poteri e dunque l’assetto democratico, o si promuova la deportazione di migliaia e migliaia di persone migranti. Ma l’indifferenza è complicità. Bezos ha presenziato sorridente e in prima fila, insieme ai suoi pari, al giuramento del nuovo presidente e gli ha offerto in dono un Washington Post privo dei commenti sgradevoli, un omaggio pari alle tante misure prese da Trump in appena pochi mesi contro la stampa libera e alle intimidatorie volgarità di Elon Musk contro il giornalismo in sé stesso.
Bezos sceglie di sposarsi a Venezia, città europea aperta da secoli agli scambi commerciali e culturali nel Mediterraneo e soprattutto verso il medio e il lontano Oriente: un concentrato di caratteristiche sulle quali, pubblicamente e in chat, gli uomini di Trump, a cominciare dal suo vice, hanno vomitato biliose e represse insulsaggini. Perché, dunque, Venezia se di Venezia si misconosce l’essenza? E poi, si parva licet componere magnis, come si concilia la città lagunare con gli arredi tipo Casamonica o Gomorra del palazzo imperiale di Mar-a-Lago?
Come ogni cosa al mondo, ha pensato Bezos, anche Venezia, nonostante sia Venezia, ha un prezzo e il prezzo è alla sua portata. Al pari della Groenlandia, del canale del Messico e delle terre rare in Ucraina. È una città che, sebbene per tre giorni, si può comprare o anche affittare in virtù di un privilegio coloniale. E i veneziani? I veneziani si arrangino, sono rimasti in pochi, per tre giorni saranno limitati negli spostamenti, s’imbatteranno in transenne che recintano zone rosse, sopporteranno un incremento del moto ondoso. Oppure si accontenteranno di guardare miliardari in passerella, come bambini davanti a una vetrina di pasticcini. D’altronde saranno felici alcuni albergatori, soprattutto quelli con passaporto americano.
“Questo evento avrà ricadute economiche milionarie per il nostro territorio”, ha sentenziato il sindaco Luigi Brugnaro, “e c’è il senso di Venezia come un luogo dove si può stare e incontrare. Abbiamo di fronte sfide importanti da affrontare e Venezia può giocare un ruolo importante per questo paese”. Le convinzioni del primo cittadino si potranno misurare solo a matrimonio avvenuto. Nel frattempo si sente comunque l’eco di un consumato ritornello: Venezia ha bisogno di grandi eventi per promuovere sé stessa nel mondo. Anche se questi eventi riducono una città, non delle più anonime, al rango di palcoscenico agghindato per una sontuosa recita Maga.
Ci sono tutte le ragioni, da quelle che drammaticamente investono lo scenario internazionale, la convivenza e la democrazia a quelle che toccano da vicino Venezia e la dignità della sua civitas, per organizzare nei giorni del matrimonio Bezos-Sanchez un’azione di protesta, civile, pacifica e gioiosa, ma anche fragorosa.
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