
La situazione è quella che è. Viene in mente una frase che ripeteva Giancarlo Pajetta, esprimendo perfettamente il senso d’impotenza che si può provare di fronte a vicende senza precedenti e confuse. Come quelle che si squadernano sotto i nostri occhi, scombussolati e spaesati. Che fare di fronte al terremoto Trump? “Fare il morto”, suggerisce James Carville. Dice sul serio, lo stratega politico di Bill e Hillary Clinton. I democratici, sostiene, non possono far altro che stare a guardare. È il momento che adottino la manovra politica più audace della loro storia: arrendersi e restare in disparte.
Lasciamo che i repubblicani crollino sotto il loro stesso peso e facciamo in modo che il popolo americano senta la nostra mancanza.
Non un paradosso, e neppure una provocazione fine a se stessa. Tant’è che l’invito di Carville, dalle colonne del New York Times, ha dato vita a un dibattito serio, vivace e interessante, che rompe in parte il perdurante silenzio dei massimi esponenti del Partito democratico, dopo la batosta elettorale dello scorso novembre.
Quando l’architetto della vittoria di Bill Clinton nel 1992, richiamò all’ordine il Partito democratico perché ci si concentrasse sui temi che stanno veramente a cuore agli elettori e che decidono l’esito elettorale, fu categorico: It’s the economy, stupid.
Ebbe ragione. Ma questa volta la posta in gioco è troppo alta per rischiare l’operazione “audace” che suggerisce la testa pelata di New Orleans. Eppure ha una sua forza, anche se si è nella sponda opposta dell’Atlantico e di qui si osserva il cambiamento impresso dalla seconda elezione di Donad Trump che avviene in una fase tumultuosa in tutto il pianeta, scuotendo anche assetti considerati ormai irreversibili, come l’Europa e più precisamente l’Unione Europea.
Le parole di Carville sembrano trovare risonanza dopo la lettura de Il dovere della speranza (Rizzoli), il recente libro/intervista di Romano Prodi e Massimo Giannini. Non che il professore e il giornalista auspichino – neppure implicitamente – un wait and see da parte dei perdenti di questo ciclo storico, i progressisti, la sinistra, i democratici. Ma certamente, invocare la speranza – come dovere, addirittura – suggerisce il riconoscimento di un quadro, drammatico fino alla disperazione, che è tale perché sono in crisi consolidate certezze ma anche per l’inadeguatezza degli strumenti d’interpretazione della realtà e di intervento su di essa. Un quadro di fronte al quale si direbbe che non resta altro che attendere la fine della nottata: non una scelta ma uno stato di fatto.
Il dovere della speranza non indica vie d’uscita. Non è il suo compito. Racconta piuttosto come si è arrivati fin qui, più che come se ne possa venir fuori. Nel farlo fa però emergere un metodo che ha consentito, nel corso del tempo narrato nel dialogo, di analizzare, affrontare e risolvere situazioni problematiche. Il metodo è la “Politica”, di cui Romano Prodi è stato impareggiabile interprete in una varietà di fasi e condizioni: quella Politica – che è dialogo, negoziato, ascolto, tessitura – in netto contrasto con il crescente affermarsi e diffondersi di una politica ridotta a “teologia”, a manicheismo, come sovente ripete nel libro l’intervistato. La stessa biografia di Prodi ne è la migliore testimonianza, sia sulla scena domestica sia su quella internazionale. Ed è forse qui il “segreto” della sua popolarità, perfino del suo perdurante carisma non carismatico, che neppure agguati squadristici, spacciati per giornalismo, possono intaccare. La sua vittoria contro quello che considera il precursore di Trump – Berlusconi – fa pensare che anche questa fase di buio che oscura le menti dei governanti possa infine essere illuminata da un ritorno alla “Politica” con la p maiuscola: è questa la speranza a cui aggrapparci?
Con l’abilità di un esperto maieuta, Massimo Giannini dà modo al prof. di percorrere il tragitto della sua vita rendendolo il filo del racconto di diverse epoche dell’ultima parte del Novecento e del nuovo millennio di cui è stato importante protagonista. Prodi è tra le rare figure della politica italiana che ha percorso in lungo e in largo il pianeta, ha incontrato leader e personalità di mezzo mondo, ha ricoperto ruoli internazionali e non ultimo è stato al centro della più interessante stagione politica italiana – l’Ulivo – ed è stato alla guida del governo italiano, in uno dei rari periodi in cui il nostro paese è stato considerato e rispettato all’estero. Economista, una lunga esperienza alla guida dell’industria di stato, prima dell’ingresso in politica, Prodi si muove su diversi registri, con la capacità di porre in interazione tra loro le sue diverse competenze e conoscenze. Giannini, a sua volta, sa come condurre il gioco, forte della sua esperienza di giornalista economico e di giornalista politico, oltre che di direttore di giornale, e quindi esperto di “macchina”, del costruire e fare un giornale. Qui costruisce molto bene un libro che si legge agevolmente dall’inizio alla fine lungo le sei parti che lo compongono, scendendo dal quadro internazionale che esce dalla caduta del Muro fino all’avvento di Trump, per arrivare allo sciatto pianerottolo di casa nostra, e qui anche la speranza perde colpi…
Un incontro fruttuoso, dunque, un volume corposo. Con un sottotitolo che descrive le montagne russe su cui rotola ormai da tempo il mondo odierno, con l’impressionante accelerazione prodotta dalla seconda elezione di Donald Trump: Le guerre, il disordine mondiale, la crisi dell’Europa e i dilemmi dell’Italia. La storia del libro inizia dalla Fine della storia, il fortunato e assai controverso titolo del saggio di Fukuyama che fotografa il collasso dell’Urss e del sistema bipolare, non l’alba di un mondo di interdipendenze costruttive ma di conflitti, con il progressivo venir meno di organismi internazionali autorevoli, che in un mondo multipolare avrebbero esercitato al meglio le loro funzioni. Oggi, nel momento del loro massimo bisogno, se ne constata lo svuotamento e la perdita di autorevolezza.
E anche un’organizzazione sovranazionale come l’Unione europea, che pure si allarga dopo l’’89, anche per impulso dello stesso Prodi, sembra beneficiare della fine della guerra fredda. Eppure il Muro, cadendo, non si rovescia solo dalla parte desiderata dall’Occidente, decostruendo l’edificio sovietico. Nel corso di soli pochi decenni, anche dalla nostra parte. I rischi di disgregazione che corre oggi la UE sono legati alla mancata comprensione – anche da parte dei leader europei più convintamente europeisti, e dello stesso Prodi – di quanto la forza dell’unità e la coesione tra i paesi del Vecchio continente siano state in larga misura frutto del mondo bipolare. Caduto il quale la UE ha dovuto cercare al suo interno l’unica vera ragione della sua esistenza e permanenza nel futuro. La crisi della Nato non fa che rendere ancora più evidente la dipendenza della UE dal suo essere (stata) dentro un assetto bipolare.
Trump – ma anche i suoi predecessori – fa cadere ogni alibi. Il futuro dell’Europa dipende solo da se stessa.
A complicare le cose è la questione principale che percorre la conversazione tra Giannini e Prodi, nelle sue varie parti, ed è non tanto la svolta a destra senza precedenti di molta parte dell’Occidente, e non solo. Essa è soprattutto l’estrema volatilità e volubilità del principale protagonista sulla scena globale, cioè l’America di Trump. Ogni giorno siamo costretti a ballare la tarantella che il padrone della Casa bianca capricciosamente impone alla sua nazione e al mondo. E con lui gli oligarchi che seguono proprie linee, del tutto indifferenti alle ricadute che possono avere sulla società e sull’economia, americana e mondiale.
Mai, prima d’ora, ci si era trovati di fronte a una situazione che ha già fatto esaurire tutte le scorte dell’indignazione. Un mondo senza parole. Non avrà forse ragione James Carville?
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