
Cosa succede quando uno scrive versi? In lui, dico, non in chi li legge? Specie se si tratta di uno che svolge o svolgeva un altro mestiere, non essendo poeta poeta, non essendo poeta a tempo pieno. E cosa distingue i detti versi dalla prosa? Un tempo c’erano le rime, oggi per lo più scomparse dai radar. Oggi, la massimo, sulla scia dei simbolisti francesi, si recuperano le béances, ossia gli spazi vuoti della pagina, righe lontane dal bordo della pagina, a valorizzare la presenza di parole rarefatte appunto.
Franco Avicolli fa un’altra professione, o meglio altre professioni, e di questo lo rimprovero perché a mio parere si ingolfa in altre attività, sacrificando il daimon che gli pulsa dentro. Ma i titoli conseguiti, in un curriculum esibito quale trofeo, lo incalzano nella recita del suo sé esteriore e nella individuazione delle effettive competenze. Una laurea russista, infatti, le continue conferenze, le frenetiche collaborazioni con varie testate, tra cui ytali. In più, un prestigio istituzionale, la direzione di Istituti italiani di cultura, vedi Cordoba, o contributi significativi tra Cuba e Messico, specialista in sociologia e narrativa ispano-americana, appassionato su temi relativi a Venezia e al suo destino, la gestione a lungo e in modo efficace di Micromega, la chambre noire a San Maurizio dell’ottico Roberto Carlon, pastura di libri e di mostre, che di recente ha festeggiato i suoi ottant’anni. Ha pubblicato tra gli altri un divertente volumetto sulla storia del pomodoro, ricco di informazioni sorprendenti. Riappare anche nel libricino di poesie appena uscito da Supernova, Con poche parole, che porta “il sole in un’altra adunanza” (41).
Di solito, quando interviene oralmente, nei pubblici dibattiti, tende ad allungare i tempi. Imposta la voce su toni bassi, aggraziati e amicali, quasi maliosi, a strappare consenso. Se mi capita di dirigere il traffico degli oratori di turno, gli faccio il segno della forbice, supplicandolo di tagliare, e lui ci resta male. Perché Franco, nonostante cariche e titoli e tanta vita alle spalle, è fragile e sensibile. Il fatto è che il suo pensiero te lo espone a voce alta, durante il suo lento farsi, e lui cerca il focus grazie a collegamenti tra concetti anche distanti. Tutto un groviglio che può appassionare o può infastidire. Ad esempio, un suo mantra recente, ripetuto di frequente, l’incrocio tra biologia e cultura. Mi considero suo amico e gli dono pertanto la franchezza invitandolo a queste per lui ingiuste accelerazioni e potature.
Quando viceversa scrive versi, è lui che taglia il discorso, nell’etimo del termine. Poche pagine, non solo parole, testi snelli e magri. E la mia funzione tutoriale certo sgradevole, viene così meno. Ho lo scorso anno presentato in Ateneo Veneto un suo precedente volumetto di poesie, Quando la vita, sul pittore Eulisse, centrato su una madeleine ossessiva che lo incalza, le lavandare della sua favolosa infanzia a Isernia, nel Molisano, dove tiene una seconda casa, con verde attorno da cui la moglie Antonella ricava marmellate che dona generosamente attentando alla glicemia dei beneficati. I panni purificati al fiume sotto il cielo in una luce divina, qualcosa tra la Romagna del Pascoli di Myricae e il Carlo Levi lucano. Indifferente alla geografia che relega i due bacini fluviali, il Carpino e il Sordo, poi confluenti nel Volturno, a corsi d’acqua di modesta portata, Franco nobilita questo scenario nella ricezione antica del suo corpo infantile a energia battesimale e amniotica. Milieu che si ripresenta puntuale pure nella nuova operina, dopo poche pagine, mentre nel finale si sussurrano battute dialettali fraterne, il cui tempo è inciso “nel sedile di pietra che è come un grembo”(57), metafora che provoca indubbie vertigini di senso. Ma la stessa Antonella si merita due omaggi coniugali, con il suo sensuale “sudore profumato di giorni mai lontani”, lei esaltata quale “donna che ha figliato” (24). E nella successiva occorrenza, acquista le movenze di buona samaritana che volteggia nella sua “notte scanzonata” (50), tanto da strappare al marito innamorato ancora, dopo tanti anni, frasi di amore che paiono e non vogliono essere di circostanza.
Con poche parole raccoglie flash lirici, fraseggi episodici, ossimori di luce e di notte, epifanie legate al fluire delle stagioni che scandiscono anche con disegni astuti lo snodo del testo, riempiendone le assenze. Ma non è il poeta stanco delle parole, sono piuttosto queste ultime, sfinite da un riuso monotono, a ribellarsi, a entrare quasi in sciopero. Al massimo, gli si concedono diradate e imbronciate. Da qui, nel profilo schizzato su Gaetano Viti, il suo dondolare “come un’amaca nel mistero del detto e ridetto della parola, nel rinnovarsi dei toni che l’accompagnano” (39) costituisce un autentico manifesto espressivo e sapienzale.
Purtroppo, ogni tanto anche il poeta ha bisogno di dormire. La fiamma allora si spegne, mentre la parola non vola alta, procede a tastoni come al buio, bloccandosi presto al suolo dove ricade per rinchiudersi entro aforismi stereotipi, sentenze posticce, sveltine lontane dal tripudio poetico. Prevale allora la smania didattica, la razionale esternazione, perché la si condivida, di un pur sacrosanto sgomento politico. Tutto rischia di apparire scontato e prevedibile, il muro del pianto a Gerico, le stragi del settembre nero, l’eccidio di Hamas. Il paesaggio si decora con la guerra inseguendo di proposito immagini medusee a rendere l’orrore della Storia. Ma, si sa, etica ed estasi viaggiano separati. E Avicolli non è Giovenale né Lucrezio.
Altre volte, per fortuna, l’ideologo e lo storico lasciano il suo avolo e il poeta ne approfitta. Subito, il recitativo si impenna bruscamente in aria, usando categorie del melodramma. Il chiacchiericcio retorico retrocede sull’istante, non volendo più suadere atque movere. Si svuota il dibattito, sparisce il pubblico in sala, oggetto del desiderio, l’altro da possedere alla causa. La voce non pare più quella di Franco Avicolli. Ma chi è che parla a questo punto? Di nuovo, la domanda che ponevo all’inizio su chi fa versi. Fare i versi nella nostra lingua significa imitare qualcuno, uscendo dal gergo quotidiano. Del resto Kafka, nei suoi Diari, spiega che mentre scrive non è più lui. Rispondere che sarebbe l’inconscio ad agire non aiuta a capire. No, nella soglia cosciente è un diverso Io che declina la parola, sciolta l’ingessatura del suo ego. Elogio del silenzio, insomma, smettere di attendere un interlocutore, di aspettare un segnale esterno. Qui, Franco ci sgancia una stordente definizione di poesia, trionfo dell’ambiguità semantica, secondo il critico americano William Empson nel suo saggio del 1930, per lui in cambio qualcosa che “viaggia nel dialogo del forse e del giorno” (63).
No, è come se Franco in un certo senso indossasse sul volto la maschera neutra di Jacques Lecoq, il celebre mimo francese che ha insegnato il movimento fisico a intere generazioni di attori tra il Piccolo di Milano e il teatro universitario di Padova, alla fine degli anni Quaranta e ai primi anni Cinquanta. E tra i discepoli, figura anche Dario Fo. Neutra, questa maschera, in quanto serviva a spersonalizzare l’interprete, liberando il corpo dalle blindature identitarie dell’io. Non solo, perché il metodo in questione era maturato in terra francese, alla corte dei Copiaus, i famosi allievi di Jacques Copeau, che aveva praticato nei suoi corsi in Borgogna, dopo aver chiuso nel 1924 la scena del Vieux Colombier, la sospensione di “sire le mot” spingendo i suoi piccoli attori a interpretare il mondo animale e vegetale, avventura recitativa da noi applicata alla Accademia D’Amico da un diplomato quale Orazio Costa.
Nei versi migliori di Franco, resta un suono solitario, uno sguardo incantato, risucchiato dalle cose che diventano objets magiques. Al ricordo del dolore non rimane che stemperarsi nel contatto fisico con il mondo. E si susseguono magari relitti, spazzature, vuoti senza nome, come in qualche padiglione di Biennali recenti, in cui lo stesso Avicolli si sente straniero (altro spunto iterato nei suoi interventi pubblici).
Nei versi più personali, il pensiero si sfalda, si sbriciola e i concetti da parte loro si sfarinano. Fin dall’apertura del testo, la connessione tra Tempo e Oceano, protagonisti in fondo di una concordia discors di memoria barocca, irrompe con le sue aporie. Nell’Oceano si riversano poi le acque della primavera. Intorno, si scatena una serie sinonimica di sonorizzazioni, di sinestesie, come la filastrocca tardo-futurista di Palazzeschi dedicata alla fontana capricciosa. Si sfiora comunque il nonsense, quando si ipotizza che il secondo allaga il primo. Un gioco molto serio, la poesia. E lui che non ha tempo davanti, può dedicarsi solo a quel che gli piace, un ideale convegno, perché no?, delle cose che preferisce. Privilegio, questo, della vecchiaia. La vita è quella che non sa, pur avendo alle spalle tutto quel che è successo
Qua e là, si affermano asindeti, entro uno stile volutamente nominale, e si spalma una qualche bruscaggine nel montaggio tagliato. Tra le stagioni che si rincorrono, tra i mesi che ritornano, svetta Aprile, sfilato via dal Thomas Stearns Eliot di The Waste Land del 1922 Il suo “cruellest month, breeding/ Lilacs out of the dead land, mixing/Memory with desire”, si mostra adesso smemorato. E da Eliot risale al suo ascendente Jules Laforgue non appena viene lanciata in alto “smangiata, indifferente, è monca” (13) una luna difettosa. Ma dentro di lui esplode l’animale che chiede di esistere. Può proclamare con esultanza il “diritto alla felicità” che “canta nel passero irrequieto, spera senza ragione e nella mia gola cerca la voce” (18). Ma può essere anche uno trasalimento subìto davanti alla semplice varietà dei verdi. A volte, la lingua si increspa, inciampa nella virtualità dello spagnolo, sua opzione seconda, tanto che per Avicolli un sigaro Habana dischiude un paradiso. Di conseguenza, un’altra pronuncia si rapporta al passero chiamato “gorrion” (17). Oppure Farah si trasforma in “farra”, termine prelevato a Cervantes.
Ora, questi versi mandano una sottile angoscia. Forse, come capita, sono scritti a rintuzzarla, in una strategia sedativa. Da qui, un’altra questione, ancor più dirimente: è necessario scrivere versi? A cosa, a chi servono? Lascio la risposta al lettore. L’ansia nondimeno in Con poche parole svapora però, non appena si annuncia Natale per cui il tempo della fine sembra non riguardare più l’autore. Anche perché nonostante l’anagrafe, là sotto, nel ventre, continuano a muoversi i segni del vigore. E anche perché un figlio, l’agile, (lemma rubato al dizionario del circo) fa capolino prima di sparire dietro l’angolo. Ma la paura si avverte sempre se mestamente arriva a confessare “Sono prigioniero della mia brevità” (26).
Non mancano oscillazioni legate al meteo, tanto che non esita a conversare con i giorni della merla. Un chiacchierone, di fatto, il nostro poeta. Novello San Francesco in versione agnostica, dialoga con i fringuelli quasi a ricavarne aruspici, e più oltre si interroga sulla solitudine del gabbiano. Qui, la tensione tra immagine e concetto resta alta sino al congedo del frammento. Conviene citarlo tutto in modo integro per gustarlo davvero, nel tragitto palpitante tra il libero volo e il nulla che incombe anche sull’uccello: “Osserva, il gabbiano, la ragione sinuosa del volo, fermo, impettito, è un profilo acuto sull’orizzonte. È solo nell’oro rossiccio del bacino che annuncia la sera. Solo è il sole e scende senza sgomento nel niente saturo del tramonto. Il cui oro rossiccio lo esalta (29). Ma nel cielo i passeri rischiano a loro volta la fine.
La trance immedesimativa non risparmia nemmeno il salmone. Ed è di nuovo Eliot che gli insegna l’ipotesi di nascere altro e altrove: I should have been a pair of ragged claws/Scuttling across the floors of silent seas”, in The Lovesong of J. Alfred Prufrock composto tra il 1910 e il 1911. Non basta, perché si centrifuga e di volta in volta si fa papavero, fiordaliso, aglio orsino, giallo tarassaco, una microflora che lo apparenta ai deliri floreali della grande Dickinson.
Crescendo le dimensioni del soggetto esaminato, scorrono vari ritratti appena abbozzati, per lo più creature sulla soglia o già scomparse. Degli epitaffi dunque, una sorta di kaddish ovvero rituale del lutto, preghiera di accompagnamento e di assimilazione nella memoria intima. Tra queste ombre, rispunta il compagno (nella doppia accezione) Eulisse, santificato in quanto, tramite cavalli “disorientati nella finitezza delle cose umane” (65), si erge a “ispido artista quando assembla pezzi e pensieri dispersi nel crogiolo focoso della testa” (37). E con lui Gaetano, e poi Carlo prossimo al viaggio arcano, per uno come lui passato indenne al napalm nelle terra del Mekong. E soprattutto l’amico Jacopo trasfuso nella corteccia di un albero, simile alla Isabella del dannunziano Sogno di un mattino di primavera del 1897, quindi nell’aquila, nella mano amica e nei “molti nomi di quello che è una vita “(51).
Nella sua inquieta mobilità di interessi, Avicolli non manca di parentesi astronomiche. Infatti, lo vediamo scrutare l’Orsa Maggiore dalla cui altezza vertiginosa ricava ulteriori dubbi. Nulla di nuovo sotto il sole: da Leopardi a Pascoli a Pirandello, spesso si guardano le stelle per distrarsi dalla sofferenza, per schermarsi da essa. La tragedia, in effetti, da lontano diviene commedia. Questione di misure. E nel frattempo si sgretola la sicurezza di un pensiero che si preferisce debole: “Mi attacco all’ineffabile ondeggiare dell’incerto. Dopo tanto camminare, mi assale la stanchezza non tanto di andare, ma delle troppe certezze sempre lì a pontificare” (69).
Se ha in uggia le sicumere precedenti, in compenso eccolo disposto ad accontentarsi, forse esausto dopo tante escursioni nelle specie animali e vegetali. Anche perché gli si prospettano indizi di Eden già nella pienezza del quotidiano: accanto la moglie complice nella parola ritrovata, un gatto da accarezzare, e tutto questo fa mondo. La poesia si risolve allora nella sua modestia minimalista, in senso letterale, un trattato della gentilezza, tramato da sorrisi di testa, in un’utopia privata e collettiva. A un passo dal dolciastro più fastidioso, da un buonismo evangelico smanceroso, il tutto si riscatta in una stoica accettazione dell’altro. Ad esempio, si può chiedere a uno che passa come sta la sua famiglia, credendo a un simile interrogativo, in barba alla banalità dell’approccio. Utile anche la proposta di berci assieme. Tra parentesi, sono stato testimone di Avicolli umile e sobrio traghettatore di amici comuni, giunti all’ultimo stadio di vita. E intanto “Nell’affanno dell’ignoto e delle sue domande preferisco il concerto del cuore che sconclusiona vicino al pericolo incombente”. Accennavo poco fa alla bruscaggine del suo montaggio dei versi. Qui, si può cogliere la brutalità del lessico, che si sbarazza di eufemismi e di maniere educate, come quando accenna alle “ragioni troppo contortamente umane, cacate da qualche stitica solitudine” (69). Perché il sogno si vuole visionario e recalcitra davanti al manicheismo richiesto dalla mobilitazione e dall’impegno politico pur inevitabile. Altrimenti, non resta che sprofondare in un divano, in mano l’abbonamento tv e l’azione ridotta a premere sul telecomando. Quello, per Franco, l’inferno.
Franco Avicolli, Con poche parole, Supernova 2025, prefazione di Enzo Santese, disegni di Marco Nereo Rutelli.
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