
Era un illustre sconfitto ma di talento, Leo Beenhakker, celebre tecnico olandese, scomparso lo scorso 10 aprile all’età di ottantadue anni. Sconfitto sì, perché quella notte di tregenda qualunque tifoso madridista se la ricorderà per sempre, con il Milan di Sacchi impegnato a offrire un saggio della propria classe al cospetto di un Real letteralmente annichilito. Era il 19 aprile 1989, dalle tribune, a inizio partita, erano piovute le note dell’inno del Liverpool per rendere omaggio alle novantaquattro vittime della tragedia di Sheffield e si disputava la semifinale di ritorno della Coppa Campioni. All’andata, al Bernabéu, era finita 1 a 1, grazie al gol Hugo Sánchez e a un capolavoro balistico di Van Basten, capace di sbagliare gol molto più facili e poi di infilare la porta di Buyo con un colpo di testa acrobatico da far stropicciare gli occhi a chiunque. Si temeva, dunque, un ritorno assai più combattuto; invece, bastarono meno di minuti per rendersi conto che la gara sarebbe stata a senso unico. Aprì le danze Ancelotti, attuale tecnico delle merengues, e le chiuse Donadoni; in mezzo, tre gol degli olandesi (nell’ordine: Rijkaard, Gullit e Van Basten) per rendere il trionfo milanista leggendario e la disfatta del Madrid epocale.
Non bastarono tre scudetti consecutivi all’olandese battuto per far dimenticare quella notte, così come non bastarono al presidente Mendoza (artefice di uno squadrone innervato dalla cosiddetta “Quinta del Buitre”, la corte dell’avvoltoio, nella quale, fra i prodotti del vivaio, nati e cresciuti nella capitale spagnola, giganteggiava Emilio Butrageño) per scrollarsi di dosso quell’onta. Troppo grave, troppo pesante, troppo inaccettabile per un club da sempre abituato a dare le carte. E così, Beenhakker, pur ricordato con tutti gli onori dal Madrid, resterà sempre un incompiuto. Peccato, perché al netto di quella disfatta, parliamo comunque di un grande allenatore e di un ottimo talent scout: basti pensare che fu lui, nei primi anni Duemila, nelle vesti di direttore tecnico dei lancieri, a far arrivare all’Ajax Zlatan Ibrahimović.
Autentico giramondo, ha allenato dappertutto; lo stile, tuttavia, era inconfondibile: tipicamente olandese, figlio della stessa nidiata di Michels e dell’Arancia meccanica di Cruijff, sempre all’attacco e votato allo spettacolo, la bellezza prima di tutto, persino prima del risultato, una colpa intollerabile dalle parti della Casa Blanca, dove bisogna sì giocare bene ma anche vincere, altrimenti si è comunque fuori. Beenhakker pagò il suo credo con l’addio allo squadrone che pure aveva condotto a ottenere grandi risultati e dovette ricostruirsi una reputazione prima nell’amato Ajax e poi alla guida della Nazionale olandese, con cui, a Italia ’90, sarà eliminato agli Ottavi dalla Germania. Nel ’91 fu richiamato a Madrid: niente di eccezionale stavolta, ma va dato atto a Mendoza di averne riconosciuto il valore al netto della ferita ancora sanguinante. Da quel momento in poi, come detto, è stato ovunque e ovunque ne hanno apprezzato umanità e competenza.
Ora riposa. Ha perso l’ultima battaglia e se n’è andato, uscendo però a testa alta dal campo della vita. Ecco, se c’è un aspetto encomiabile di questo Garibaldi del pallone, è che ha vinto e perso senza mai tirarsi indietro, forgiando generazioni di calciatori e non lasciandosi mai contagiare, né tanto meno travolgere, dalle mode e dagli umori popolari. Non è stato scostante ma ha sempre mantenuto un certo garbo.
Addio Leo, probabilmente avresti meritato di più.
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