
Tiziano Broggiato, Federico Italiano e Rosaria Lo Russo sono i tre vincitori dei Premi Ceppo Selezione Poesia del 69° Premio Internazionale Ceppo, presieduto e diretto da Paolo Fabrizio Iacuzzi. I tre vincitori sono anche finalisti al Premio Ceppo: l’11 maggio 2025, infatti, saranno votati a Pistoia dalla Giuria dei Giovani Lettori (www.premioceppo.it).
Tiziano Broggiato, Sorvoli (Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2023)
Il poeta è colui che vola sopra la terra
e la guarda dall’alto e al tempo stesso
colui che ne vede ogni suo dettaglio.
Questa citazione da Czeslaw Milosz ci dà in limine ragione del titolo del libro, Sorvoli, e più in generale della postura poetica ed esistenziale di Tiziano Broggiato, che si muove tra Terra e Luna, buio e luce, vita e morte, in un “sorvolo di voraci metafore”. Momento privilegiato è il crepuscolo, la transizione sospesa tra il giorno e la notte o tra la notte e il giorno, a cui appartengono molti dei testi qui presenti: “la notte, provata, si accomiata”, “la luce echeggiante / dei lampioni, che a quest’ora / riprendono coscienza”, “questa debole luce d’alba”, “il mugghio / dell’imbrunire”, e così via, fino alla indicazione diretta dell’ora “Sono le nove meno dieci di sera”, “Sono le sei del mattino”, “nel vivido crepuscolo”, figure, tutte, della sospensione, dell’attesa: “è la condizione statica di un tempo, il nostro, sospeso tra straniamenti e promesse”. Si veda in particolare l’incipit della quarta sezione del libro, Il sonno di Lindbergh, l’unica ad avere un titolo, non a caso nel nome del primo sorvolatore oceanico:
Su quest’ora né giusta né sbagliata
in cui nella capsula del tempo
le ombre diventano cenere,
su quest’ora contesa nella quale
un quartetto d’archi sta provando
sinfonie che sanno di eternità,
ho meditato a lungo, caparbiamente,
prima di alzarmi in volo per raggiungere,
non udito, l’irrequieta riva oltreoceano.
Lindbergh, il poeta, si definisce “un Lazzaro sospeso” tra la morte e la vita, “in attesa di una chiamata da distanze / divenute incolmabili”. La condizione crepuscolare è vissuta tra veglia e sonno, tra realtà e sogno, quando affiorano le presenze fantasmatiche del sogno. Come recita il risvolto di copertina, delle tre sezioni in cui “si struttura idealmente” il libro, “la prima si potrebbe intitolare I fantasmi di ognuno”, mentre nella terza ritorna “il momento in cui la piena dei fantasmi…rischia di confondere anche la coscienza”.
Finirà che a luce spenta
scenderò anch’io sotto la linea
di galleggiamento, fin dove i miei spettri
non potranno essere intercettati.
(I tuoi, più scettici,
nemmeno si sono affacciati). (I fantasmi di ognuno)
Spettri sempre più consistenti vagolano tra piega e
piega tentando di ricomporre il velo notturno
rimasto impigliato nelle remote gore del risveglio. (Sovrapposizioni)
Sono loro, i cartografi celesti
gli abili mistificatori,
le ombre furtive
che si aggirano indenni
per i gironi del sonno (Loro)
Dove segnalo in grassetto i dantismi (il primo anche poundiano, “a lume spento”) che innalzano un dettato che in genere procede con medietà classica, come altrove le immagini montaliane (“facendo girare vorticosamente su sé stesso / l’ago del barometro”, la “luce avara”) o leopardiane (magari virate in senso anti-idillico: “il canto strozzato di un passante insonne”, oppure la luna “incostante…generosa….vecchia…fragile… il tono brunito della luna…l’occhio sghembo della luna”). Ma molte sono le presenze fantasmatiche (“Pallido, esangue e, attorno / la città agghindata; un tizio / che furtivamente si ritrae / dietro una tendina; spettri benigni venuti con me / a reggere il timone dello Spirito), fino al fantasma dell’io “metà uomo e metà spettro” e a quello per eccellenza shakespeariano, del padre (“L’ombra che fu mio padre…Ora, rigenerate, emergono dalle profondità / le persone della mia vita. Su tutte la figura / di mio padre”).
È chiaro che siamo in un luogo liminale, in cui il sonno e il sogno rinviano al presagio della propria morte (una “morte d’acqua”) o alla visione del mondo dei morti.
Si staglia sulla parete il profilo prominente
della paventata ora serale…
E chi bussa ora alla porta, in modo preciso,
quasi convenuto?
Qualcuno dal passato o la tenebra gnostica
che non vuole saperne di indietreggiare? (L’uomo confuso)
Il fiume viaggia verso il proprio annullamento,
verso il semicieco mare che lo attende
tra i battenti erosi dell’imbrunire. (L’annullamento)
Non ci sarà più nulla, poi.
Assolutamente nulla.
E nulla ora amo disperatamente
come quel nulla. (Lindbergh)
Mentre la luna si sta accomiatando
…
Voci simili a un antico sonoro
che chiamano giù,
nelle bisbiglianti acque del sonno.
Affonda la barca dalla vela gialla
che si stava accostando all’isola.
Le anime visibili là,
fuori dai cancelli, si
aggirano indenni
come chi ha la certezza
di non avere nessun luogo
in cui tornare: la casa
del passato non esiste più
…
altre navi erranti si stanno
inconsapevolmente avvicinando
all’orlo del giudizio. (Foscoliana)
A creare questa terra di mezzo tra l’essere e il non essere contribuiscono gli elementi naturali, il buio e, in particolare, la pioggia che “sta cadendo dal nulla”, “una pioggia mansueta, / come un cane fedele”, “una pioggia spensierata”.
Una pioggia lenta, codarda, guastafeste.
Cielo e acqua si fondono diventando
un unico, ininterrotto spettro grigio.
Le cose andarono così:
c’era una forza di vento
e la pioggia che sfogava
il suo ciclico rancore
lungo Bouchova silnichi.
Eppure avvertivo una melodia,
una sorta di musica di sopravvivenza,
soffocata e distante,
quasi non udibile.
Ne rimasi ammaliato
nonostante la veemenza
con cui il dio dell’acqua
si stava avventando sui gradini della chiesa
in cui le mie domande
erano rimaste inascoltate.
Ne distinsi in un baleno…
il suo non sguardo:
stava lì come un cieco,
con gli occhi chiari e fissi, spalancati. (Caeca natura)
Qui la Natura leopardiana, cieca quanto all’umano, sembra perdere la sua connotazione epico-tragica; il suo volto sublime, “tra il bello e il terribile”, viene abbassato a quello di un cieco dallo sguardo attonito, come fin dal testo incipitario le stelle hanno “palpebre stanche”, “l’albero morto non dà riparo”, la notte è “provata” e in seguito “Gli aceri in giardino / battono i denti intirizziti”. È “una natura arresa e sgomenta”, in cui “Nemmeno le stelle che si vedono / qui, sono vive”. E d’altra parte la dimensione umana, quella cittadina e il tempo presente non offrono certo un quadro migliore: “Il suo [di Roma] nome per me / non ha più alcun significato”, “dentro i grandi atri della città / l’abdicante indole umana…”, “Passa un tram giallo…Il suo sguardo serico, in controluce / è l’unico vivido dell’affollato / equipaggio di volti frastornati”, Unici conforti alla solitudine, l’amicizia e la poesia (A Jaroslaw Mikolajewski, Inson e Tromer):
La città dorme.
Solo, veglia il padre delle parole
affinché la notte che sta crollando
trascini via con sé la truce cesta
Funeraria.
Tra poco la città, ignava, si sveglierà
con le solite abitudini,
pensando alla primavera.
Con riferimenti significativi alla tradizione più alta del nostro “pensiero poetante” (Dante, Leopardi, Montale), con l’ossessiva ricorsività di un campo metaforico, simbolico e allegorico ben definito (presente anche in alcuni dei suoi titoli precedenti, da Parca lux del 2001 ad Anticipo della notte del 2006, a Preparazione della pioggia del 2015 a Novilunio del 2018), Tiziano Broggiato continua qui in modo convincente una coerente e quasi cinquantennale ricerca poetica.
Federico Italiano, La grande nevicata (Donzelli, Roma, 2023)
Federico Italiano rievoca nel libro La grande nevicata qui le forme strofiche della tradizione, terzine e quartine soprattutto, ma non mancano sestine ed ottave, naturalmente liberate da schemi rimici e dalla regolarità della versificazione antica, con una lingua che nella sua sobrietà e precisione sembra essere in primis lo strumento di una rievocazione memoriale di frammenti esistenziali, in particolare dell’infanzia.
A questa ci riporta La grande nevicata del 1985, testo eponimo della raccolta, evento epocale che agglutina la memoria di oggetti ormai desueti, quasi da aggiornato solaio (“Bellezza riposata dei solai / dove il rifiuto secolare dorme”) o salotto gozzaniano: “i moon-boot antracite…il lampadario della sala…un bob nuovo fiammante…la sciarpetta / di lana grezza…la zuppa inglese…le tapparelle col telaio a sporgere”, gli walkie-talkie che “erano ancora lì / nella scatola di scarpe da tennis / tra gli ordinati oblii della cantina”. E dunque i giochi infantili, ma anche i primi traumi, “il primo morto di cui abbia ricordi”, “Quando cadde dall’albero mio padre”, la barbabietola lessata da mangiare “nel refettorio azzurro delle suore”. L’istantanea discesa sul bob dell’infanzia:
ai confini del cortile, dentro il bianco
inesauribile di quel gennaio, un sibilo,
quattro secondi, un secolo –
fine dell’era glaciale, inizio del fango.
Quell’età è trascorsa in un attimo, è finito un secolo, è finita un’era, è iniziato il fango e non si può, come lo yeti cacciato nei giochi d’un tempo, sparire dal mondo, “oltre la linea della neve” (verso che dà il titolo alla seconda sezione della raccolta), non si può fermare il tempo, nemmeno in Passacaglia in verde minore, dove il poeta scrive:
C’è un incrocio in città
chi lo attraversa emana una bellezza insolita
Ti passa accanto in bicicletta mentre
aspetti al semaforo e ti
sorride
…
C’è un incrocio in città
dove a lungo rimango e guardo chi
comincia la salita
vorrei fermare il tempo – vorrei fermare chi passa
in bicicletta con caviglie lievi
macinando addii.
Non resta allora che fermare, almeno sulla pagina, quelle “occasioni” che possono sospendere il tempo della vita adulta, ridargli la pienezza del gioco che doni senso al presente, sempre magari nel segno della neve:
Sia dove vuoi, ma fa’
che sia ora, in questa notte di neve,
che non avrà mattino né splendore
e morirà
alla porta, la luce accesa nell’anticamera, un
cappotto, le scarpe, l’eco dei passi
sulle scale e poi il buio che farà
ancora.
Questo in Complementi di luogo, dell’omonima terza sezione del libro; oppure in La soglia del dolore (dalla prima sezione, Tecniche di caccia), dove l’osteopata
…ti parla piano
della settimana bianca con la famiglia,
di una caduta dallo snowboard, e la sua mano
scende verso il tuo ventre, famelica – tu
intanto respira, inspira, espira –
in cerca dello psoas, il muscolo della fuga.
O, ancora, ne Il meteorologo (penultima sezione del libro), trasparente maschera del poeta, del suo ruolo ai margini del mondo, ma essenziale, perché è
come se il mondo
decidesse di andare in folle
nell’esatto momento
in cui io smetto di osservarlo.
Ancora in uno spazio bianco, di neve e di ghiacci, sulla costa del mare di Barents:
Dopo la Perestrojka, di lavoro
non ce n’era, così sono venuto
a misurare il tempo alla fine del mondo.
…
È come se ogni cosa stesse
aspettandomi per cadere a pezzi, per
spegnersi; l’aggiusto,
ma ogni nuova crepa è l’indizio
di un cedimento più grande, nascosto
più sotto, una scissione
nel permafrost, nella memoria.
Il compito del meteorologo-poeta è dunque quello di osservare il mondo per evitare che “vada in folle”: osservare significa esercitare l’attenzione e l’ascolto nei confronti delle cose, quindi prendersene cura e, per chi usa la parola, nominarle. Ma il nome è la cosa solo se ad essa corrisponde con esattezza, e tale corrispondenza si realizza attraverso un’analisi descrittiva. Descrivere è necessariamente interpretare e dare un senso alle cose, dare ad esse un’energia nuova, che ce le fa percepire con maggiore intensità, come già notava nello Zibaldone Leopardi. Tanto più quando le parole e le cose sono tratte dal permafrost della memoria, personale e collettiva, sottoposto a crepe, a cedimenti sempre più grandi. Aggiustare le cose che cadono a pezzi, si spengono, è questo il senso del fare poetico, dall’allegoria della sperduta stazione meteorologica siberiana alle “stazioni” esistenziali toccate nei viaggi della sezione conclusiva del libro, Terminal. Qui ci muoviamo con l’autore dalla Mitteleuropa al Mediterraneo, da Tangeri a Gerusalemme ad Anversa, da un monastero tibetano all’Irlanda, a Erevan, anche se su Lo scopo del viaggio, nella scheda compilata alla reception dell’albergo, questo viaggiatore cerimonioso di caproniana memoria non aveva scritto nulla; anche se il viaggio in questo libro si chiude con un congedo malinconicamente autunnale e con una visione apocalittica. In Aratura autunnale si ritrova un oggetto simbolico pascoliano, aggiornato ai tempi:
Una ghiandaia incrocia
i solchi aperti dall’aratro mentre
il trattore fa inversione di marcia
in fondo al campo –
ogni anno l’illusione
che torni indietro, ma va solo a capo.
Pascoliana è anche l’ornitologia inquietante che già aveva aperto la raccolta e qui la chiude: il corvo e il gheppio dei primi due testi, ritornano moltiplicati: dodici corvi, uno sparviero, una ghiandaia che “incrocia / i solchi aperti dall’aratro”, con una simbologia di morte comune al corvo dell’inizio che
Quando tutto sarà a brandelli, riarso
rovinato – mi dice – io sarò lì a cercare
le ossa che ancora luccicano
un poco di grasso. Entra pure in casa
con le borse ricolme della spesa,
io ti aspetto qui fuori.
E veramente tutto è a brandelli, riarso, nel sogno-visione conclusivo, dove si avanza in un paesaggio incenerito, in cui l’apocalisse di un incendio segna il “compimento”, la “sentenza” (cenere alla cenere) della fine, ma anche la rivelazione ultima del bianco, colore-emblema del libro:
Dentro a quel bianco – in nulla
riconducibile ad alcunché di bianco,
che tutto tiene eccetto
sé stesso, che esiste solo alla fine –
avanzavamo e la cenere era suono e legge
compimento e sentenza,
oltre l’orizzonte di fosfati,
prima di ogni risveglio, prima di ogni durezza.
Su ogni declivio, su ogni piega e balza
intorno a noi
la stessa cenere
opalina e accecante. (Blues della cenere)
Rosaria Lo Russo, Tande, Vydia editore (Montecassiano, MC, 2023)
Rosaria Lo Russo continua in Tande la sua quasi quarantennale sperimentazione linguistica, che sposa l’oltranza della parola alla radicalità dell’autoanalisi. Fin dal titolo sono evidenti due delle matrici a cui attinge il suo lessico personale (e familiare): “Tande” è sia rammemorazione del parlato infantile (per “mutande”), sia, anagrammaticamente, rinvio a Dante, come se nell’espressione dei primi anni di vita ci fosse il segno destinale della poesia. Con plurilinguismo appunto dantesco, qui si mescolano “il pappo e il dindi” (ovvero, per Lo Russo, “bricichetta” per “bicicletta”, “pipì”, “popò”, “chicca”…) e residui alti della tradizione, dantismi in particolare, ma non solo, spesso in riduzione ironica: “fatal quiete”, “oculi mèi di bragia”, “rigurgiti dal miro gurge che mi rugge in gola”, “M&M’s.Guido i’vorrei”, “i capei neri sparsi all’aura pixel ronzinante degli horror coreani”, “il foco sordo che m’affina”… Per non dire dei lessemi tratti dal latino (“ecce”, “Viamatris”) dagli idioletti regionali, toscano soprattutto (“parletico a vòto”, “l’òmonéro”, fino alla trascrizione dell’oralità nella prosa Quando Marisa la ciclotìmia, cioè “la ciclotimica”), ma anche calabrese (“pricuochi” per “albicocche”, i “cuzzupi”, dolci pasquali). E infine le parole di nuovo conio, magari in sequenze generate dall’allitterazione: “Mammapalazzo”, “Me…mummia del mammolitico”, “ti appesto appetendoti”, “bramebabbo”, “mammottica”…
Questo furor linguistico, che frulla insieme antico e contemporaneo, personale e collettivo, locale e nazionale, conscio e inconscio, esprime con potenza allucinatoria memorie, relazioni, conflitti, insomma un percorso esistenziale che va dalla madre nel cui segno si apre Tande, la prima delle due sezioni del libro, alla Madre: Viamatris è il titolo della seconda sezione, che comprende Odigitria (la Madonna bizantina, “colei che conduce”, in quanto rappresentata con la mano destra rivolta al Bambino, indicando la via della salvezza), Achiropita (ovvero l’immagine di Maria fatta miracolosamente senza l’intervento di mano umana), Dormitio Virginis, La Madonna del Soccorso). Fino ad approdare alla tentazione (respinta) della fede, il “miele” che si dimostra “fiele”, della resurrezione (Anàstasi), e a chiudere poi con l’ultimo testo della raccolta, che circolarmente torna all’inizio:
Mamma
mormora la bambina
Quand’ero piccolina
in cambio di un inchino
mi davi mezza lira
Se la schiacci fra i denti
sapore di sale sapore di sangue sapore di mare (Pasqua 2023)
Dove la metrica leggera della canzonetta, il riuso di lacerti della canzone popolare (ampiamente mixati in un testo precedente, CORO DEGLI ALLEATI), la filastrocca della zia, sembrano dire che l’unica festa di resurrezione possibile, pur nell’ombra inquietante del sangue, è l’infanzia.
La prima sezione si articola formalmente in tre parti: nella prima, con l’eccezione del testo incipitario, viene usato il verso lungo, che ritorna nella seconda solo nel testo che divide le due prose che la costituiscono; la terza adotta la misura del verso breve, con ampie spaziature tra l’uno e l’altro. La diversità delle scelte formali corrisponde alla differenza tematica?
La prima parte si apre in chiave edipica, legando in modo letteralmente viscerale il fare poesia alla figura materna:
Porto a spasso il tuo modo di camminare Io
odio mia madre
Mia madre odia me
Un’ecatombe colombiana
La poesia è il vomito
per cui non mi sorregge la fronte
perciò odio la mia poesia
Io ti stimo, dice uno
Io mi uccido, fa l’altro.
E così nei testi successivi si “sviluppa ancora l’involucro asfissiante del sudario madre”, ma entra in gioco anche la figura paterna, “il mio lui”, il dio di cui non si può nominare il nome, ma solo il predicato, “è” (come dicono i testi sacri, “io sono colui che è”), il “bramebabbo” cui la figlia è “prona nel mio sudario incesto”. Assistiamo ad una sorta di seduta autoanalitica per lampi e trapassi improvvisi, dall’infanzia alla prima giovinezza, al vissuto politico e affettivo, in cui lacanianamente il soggetto è parlato dalla lingua-pulsione della poesia.
La seconda parte, quella articolata in due prose inframmezzate da una “quasi prosa”, continua l’evocazione autobiografica e la sperimentazione linguistica, ma con altre modalità, che vanno dall’uso della parlata dialettale al riuso dei testi di canzoni degli anni ‘50 e ‘60, per raccontare dell’amicizia nell’età adulta e infantile. Tra i due racconti si insinua, con la misura del verso lungo, quello che sarà uno dei temi portanti della terza parte:
…Vae victis, / parlotto, parcere subiectis, creeping to the cross. Aspetto che torni Dio: tutto invoglierebbe a questa bella passività fidente, vile, liquorosa
ridente, mesta e rassegnata, docile, devoluta. Ma già si odono dabbasso i
rombi e le sgommate delle auto di lusso guidate da bellimbusti beceri
a spasso a i’piazzale e l’aura dolce è disfatta, la dolce speme svanita.
Dove, nel plurilinguismo lussureggiante, da modernismo poundiano, l’attesa di Dio, evocata a San Miniato al Monte, svanisce nella rumorosa quotidianità imposta da piazzale Michelangelo.
Ed ecco farsi strada, dopo la seconda prosa, il verso breve o brevissimo, che domina nella seconda sezione del libro, Viamatris, preannunciata metricamente e tematicamente dall’ultimo testo della prima, che si porta dietro le ultime ecolalie delle canzoni rivisitate ossessivamente nella seconda prosa, per raccontare un traumatico episodio infantile, il vomito di un coagulo di sangue e una labirintite:
Tutto il mondo compresso dentro un frullatore
compresa io a pezzettini
frullavo
ali di passero oò
oò
…
Vomitai ciecamente il mondo come volontà e rappresentazione
…
Dio mi aveva preso a calci e pugni in faccia
…
I primi due versi sopra citati bene esprimono l’urgenza istintiva e irrefrenabile di questa poesia-vomito, che ci getta in faccia con violenza espressionista e crudeltà (nel senso artaudiano) i “pezzettini” frullati compressi nel mondo interiore dell’autrice, il suo wille zu leben (la volontà di vita di schopenhaueriana memoria) e le “rappresentazioni” che ne dà, fino a subire la “violenza del sacro” (Girard), di Dio che prende a calci e pugni la vittima sacrificale. Altro che “Il vostro miele”! Ossessivamente ripetuto in Viamatris, questo miele che “cola sulle dita come una preghiera”, “sulle ginocchia sbucciate / dalle cadute in bricichetta”, che “ingoio / ingrata ingorda”, tuttavia “sanguina sulle mie ferite”, ha un “retrogusto quaresimale”, è, infine “cenere alla cenere”. Questo miele, secreto da “le vostre spine”, “chiede in preghiera”, tuttavia “invischia”, “Extra Ecclesia Nulla Salus / bofonchia”. Questo miele, che “Non ha additivi / il secreto purissimo / il lievito madre / la panacea”, tuttavia è un “dolce cappio” in cui “infilare il collo / …/ E dopo / mangiarsi le mani”, diventa “fiele”, “Torba tonda / rotola / nera / bionda”. È, insomma, una promessa di salvezza non mantenuta, una “fantasima” che va ricacciata in fondo alla gola. E dunque, “Tenetevelo / il vostro miele”.
In definitiva, questa ricerca del sacro attraverso un percorso nell’iconografia bizantina e mariana sembra approdare a un rifiuto della facile consolazione promessa dalla fede, all’accettazione stoica del vuoto:
Albergare
dove si giunge a un vuoto e
transitare
la pancia piena a
mani vuote
Albergare
a mani giunte
dove si nasce al mondo e
transitare
a mani vuote
Albergare
brevemente Senza
rimpianto
rimpatriare
Consentire all’espianto
io non voglio tornare
Nelle pagine di Viamatris, il dilagare degli spazi bianchi, moltiplicati dalla brevità dei versi e dalla spaziatura raddoppiata tra essi, realizza nel corpo stesso della poesia una dimensione laicamente ascetica che libera l’io lirico dal delirio “parleticante” della prima sezione, affascinante comunque per la sua potenza inventiva ed espressiva.
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