[TEL AVIV]
Caro direttore,
Si dice – si è perfino alimentato il mito – che gli israeliani siano guerrieri senza paura e che anche chi non è al fronte obbedisca alle forze armate disciplinatamente, con fiducia.
Pure fosse fondata. una tale convinzione si e sgretolata il 7 ottobre 2023, quando Idf e servizi segreti, agli ordini del governo Netanyahu, hanno fallito miseramente. Gli israeliani sono stati colti di sorpresa, e non è la prima volta: basti ricordare la guerra del Kippur, quando Egitto e Siria attaccarono Israele in un momento molto significativo per gli osservanti, quello del perdono e della responsabilità.
Diversamente dalle precedenti questa guerra, insolitamente lunga, porta con sé morti, feriti, ostaggi e famiglie distrutte. Senza contare che Israele non è in grado di reggere un conflitto così logorante. Si è capito che puntare su pochi soldati e molti strumenti e mezzi avanzati e sofisticati (spesso complessi da usare) è stato un errore. È evidente che servono più uomini per gestire la “ubriacatura da vittoria” e coprire tutti i fronti.
Si è dichiarato pubblicamente che mancano diecimila soldati, e i riservisti vengono sfruttati senza tregua, con turni di servizio che arrivano a quattrocento giorni su 550 di guerra. Intanto, paradossalmente, il governo sta cercando di far passare una legge che conferma l’esenzione dal servizio per chi studia la Torà. I rabbini più conservatori (e sono tanti) ritengono che bastino le preghiere per ottenere la vittoria. Gli studenti religiosi esenti sono oggi cinquantamila: un loro reclutamento adeguato contribuirebbe a risolvere il problema dei riservisti.
Va considerato anche l’impatto dell’arruolamento prolungato. Molti riservisti sono stati licenziati da aziende che senza adeguate maestranze non riescono a rispettare i tempi di produzione e pagano penali, soprattutto nel settore edilizio. Sono stati espulsi gli arabi di Gaza che lavoravano in Israele, creando problemi nelle costruzioni e nell’agricoltura. Diversi studenti-soldati hanno già perso un anno accademico, con costi elevati in un paese dove l’istruzione è molto cara.
Ma il punto cruciale è la crisi psicologica. Tra i feriti, oggi vanno contemplati anche coloro che soffrono di disturbi post-traumatici. Le esperienze di guerra lasciano segni profondi: insonnia, depressione, deliri. Molti non riescono a tornare alla vita normale. È aumentato il numero di soldati che hanno perso arti in guerra: sono seguiti con cura, ma mancano infermieri, psicologi e psichiatri, e le cure richiedono mesi di attesa.
A questo si aggiungono i costi economici: molte piccole imprese hanno chiuso, e tanti sono in procedure di fallimento. C’è poi il problema dei profughi israeliani interni, gli sfollati dalla Galilea e dalle zone intorno a Gaza. Sistemati in alberghi e kibbutz lontani dal fronte, ora lo Stato vorrebbe farli tornare, ma la maggioranza rifiuta perché la minaccia non è venuta meno. Dopo oltre un anno di lontananza, molti hanno trovato nuove sistemazioni e si stima che il trenta per cento non tornerà mai più.
Un altro aspetto critico è l’impatto della guerra sui bambini. Molti hanno vissuto per mesi con il padre al fronte, tra sirene e esplosioni. Alcuni non riescono più a staccarsi dalle madri, che a loro volta affrontano situazioni complesse.
Questa guerra cambierà Israele, i suoi miti e le sue convinzioni. Il paese non è più quello del 7 ottobre 2023. La paura cresce, alimentata anche dall’ipotesi di un conflitto diretto con l’Iran e di attacchi degli Houthi dallo Yemen, che mettono in allarme oltre un milione di persone.
Essere ottimisti è difficile. E poi ci sono le contraddizioni generate da Trump e dalle sue uscite imprevedibili. In una situazione, non si può che vivere alla giornata, senza poter pianificare il futuro.
Immagine di copertina: certelli sequestrati dalla polizia israeliana prima di una manifestazione di protesta contro la guerra e per il cessate il fuoco a Tel Aviv: “Un massacro non giustifica l’altro” “No all’apartheid” “No all’occupazione e all’assedio” “Fermate la guerra” “Bibi torna a casa”
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