
Sulla banchina della stazione ferroviaria di Wilmington, nel Delaware, che è intitolata a Joseph R. Biden, i lavoratori pendolari aspettano il primo treno per Filadelfia. È un espresso, arriva in orario, ma ci vorrà comunque circa un’ora per arrivarci, attraversando città dall’aspetto piacevole, zone industriali depresse e altri luoghi che sembrano quasi in rovina, per lo più edifici abbandonati, chiusi con assi di legno o fatiscenti. All’università scendono tutti i giovani passeggeri bianchi. All’ospedale, tutti i passeggeri neri.
La mia destinazione è un po’ più avanti, in centro città. Filadelfia, patria della libertà e città dell’amore fraterno, una città che non avevo mai visitato, è anche la sede del Consolato italiano che ha giurisdizione sullo stato in cui vivo.
C’è persino un ritratto di Joe Biden nella stazione ferroviaria, di cui però non mi sono neppure reso conto finché non ci sono tornato, rientrando dal centro a fine mattinata. Come la città, come la zona della stazione e la stazione stessa, la foto è modesta e defilata e mostra un giovane senatore Biden. Provo una certa commozione in tutto ciò, un viaggio per richiedere un visto estero mentre s’intravede questo scorcio di un’America passata e decadente, dove non si sono mai neppure preoccupati di aggiornare la targa della stazione ferroviaria per ricordare che il loro amato figlio era diventato presidente.
Un vero peccato, perché intorno al terzo anno della sua presidenza si diceva spesso che Biden fosse quantomeno un presidente del fare in coerenza con quanto promesso. E ha fatto molte cose buone. Ma il quarto anno della sua presidenza ha avuto lo stesso orribile sapore di una discreta serie TV finita malissimo e deragliata nell’ultima stagione. È per questo finale che finisce per essere ricordato – e lui –. Joe Biden porta ora sulle spalle un fardello terribile per le decisioni che ha preso come presidente e come candidato, ma non è affatto chiaro se se ne renda conto. Ciò che è chiaro è che, proprio come la stazione ferroviaria che porta il suo nome, ormai ha poca importanza ciò che pensa o sa.
La conseguenza dell’agire politico d’altra parte, è una parola e un concetto che l’America sta imparando a conoscere intimamente in questi giorni, in tutti i suoi molteplici aspetti. Chi di noi ha abbastanza anni da ricordare l’epoca di Reagan o persino la presidenza di George W. Bush forse ricorda la sensazione di un improvviso e decisivo cambiamento culturale che ebbe luogo in tutto il paese. Entrambe le presidenze hanno portato con sé forti sentimenti popolari che si sono espressi non solo politicamente, ma anche nell’industria dell’intrattenimento e nella moda (si pensi a Rambo e Izod) e nei comportamenti, come nel consumismo nativista degli anni di Bush (SUV e grandi case). Lo stesso valeva certamente, in una certa misura, anche per la prima presidenza Trump. Allo stesso modo, politicamente ed economicamente le politiche di tutti e tre i presidenti hanno avuto effetti drastici e duraturi (negativi) sugli americani.
Quindi, se da un lato ci sono precedenti rispetto alla situazione attuale, dall’altro ciò che si sta facendo – non solo il modo in cui si sta facendo – è talmente estremo e senza precedenti da essere per sua natura qualcosa di nuovo e diverso, ma anche imponente e minaccioso. Nessuno si mette in mostra in questo momento, perché tutti sono troppo sconvolti, troppo disorientati e sconcertati per sentirsi abbastanza sicuri di sé da potersi permettere di esagerare. L’umore nazionale fa sembrare pittoreschi i vecchi adesivi “W. The President”. D’altra parte, George W. Bush ha costruito una storia che ha condotto la nazione a una guerra disastrosa e a un crollo economico. Donald Trump sta chiaramente facendo del suo meglio per superarlo su entrambi i fronti, e sembra esserci riuscito.
Ma dove ci troviamo a vivere ora? Certe cose che accadono in questo Paese in nostro nome sono (o meglio, fino a poco tempo fa erano) impensabili: innocenti deportati e sbattuti in carceri per membri di gang straniere, turisti e titolari di visti legali fermati e messi agli arresti, ingressi negati a musicisti e a scienziati, rastrellamenti di studenti stranieri. I deportati avrebbero dovuto essere i “peggiori tra i peggiori”. Membri di bande che prendono il controllo di intere città, immigrati invasori che mangiano gli animali domestici, ricordate? Dove sono finiti tutti questi orriblie attori orribili? Invece, da codardi qual sono, il governo degli Stati Uniti ora scompare e arresta innocenti e i vulnerabili, distruggendo vite e famiglie, e fino a oggi, senza altro risultato o scopo chiaro se non una crudeltà gratuita che induce molti che vorrebbero venire a pensarci due volte prima di visitare gli Stati Uniti d’America.
Dove ci troviamo a vivere ora? Perché abbiamo consentito che milioni di persone in tutto il mondo morissero di fame e malattie? Perché intere porzioni – e urgentemente vitali – del sistema sanitario nazionale vengono eliminate? Perché, nella nazione più ricca del mondo, dobbiamo tagliare i programmi di acquisto di cibo locale per scuole e famiglie bisognose? Per risparmiare un miliardo di dollari? Perché smantellare la National Oceanic and Atmospheric Administration e la NASA? Come puà essere che pagare le persone per rimanere a casa in “congedo amministrativo” sia un uso efficiente delle risorse?
Ciò che si sta facendo nei confronti del governo degli Stati Uniti non ha molto senso se non lo si collega con l’idea che l’America fosse “grande” solo alla fine degli anni Novanta del XIX secolo, quando i dazi erano l’unica fonte di entrate e non esisteva l’imposta sul reddito delle persone fisiche. A quei tempi, il governo non faceva molto altro che occuparsi della difesa, quindi non aveva bisogno di molti soldi. L’imposta progressiva sul reddito è una conseguenza diretta dell’idea che un governo nazionale debba aiutare i suoi cittadini e creare servizi. Sembrerebbe ragionevole suggerire che proprio questa idea, a lungo detestata dalla classe dei miliardari, sia quella che sta davvero per essere eliminata. Eliminate l’imposta sul reddito, l’IRS, la previdenza sociale, Medicare; tutto. Se si definiscono “sprechi” tutti i servizi umani e scientifici, c’è molto da tagliare, e non importa in che modo.
In altre parole, l’Amministrazione proporrà presto un ingente bilancio per la difesa e molti fondi per l’United States Immigration and Customs Enforcement (ICE) e la gestione dei confini. E questo è tutto. Per tutti gli altri membri del governo federale, “you’re fired!”, “sei licenziato!”.
È un po’ superficiale ricorrere a espressioni come “rimorso dell’acquirente” in una situazione come questa, ma viene da chiedersi se i milioni di americani che hanno votato per questo presidente pensino davvero che ciò che sta accadendo al nostro Paese in questo momento lo stia rendendo “grande”, per non parlare del fatto che lo stia “di nuovo”. È anche facile dire, e spesso ripetuto, che il presidente sta semplicemente facendo ciò che aveva promesso durante la campagna elettorale: “promesse mantenute”, come amano dire i propagandisti. Tuttavia, ancora una volta, se da un lato questo è innegabilmente vero, dall’altro i dettagli e la portata delle azioni vanno ben oltre le loro dichiarazioni elettorali. Ad esempio, “tagliare duemila miliardi di dollari di spesa pubblica in due anni”, che era il mandato dichiarato originale del DOGE, il dipartimento per l’efficienza del governo di Elon Musk, a mala pena descrive ciò che è realmente accaduto o ciò che il DOGE sta effettivamente facendo. Inutile dire che ciò che in origine era stato spacciato per una sorta di comitato consultivo di esperti in materia di efficienza (ricordate Vivek Ramaswamy?) ha superato di gran lunga lo scopo iniziale.
Nell’odio assoluto per chiunque o qualsiasi cosa dipenda in qualsiasi modo dal governo degli Stati Uniti, l’attuale pensiero politico dominante ovviamente un posto speciale di disprezzo spetta all’Europa, ora dipinta allo stesso tempo come la scroccona per eccellenza (la NATO) e l’artista della truffa per eccellenza (l’UE). L’idea che l’UE sia stata creata per “derubare” gli Stati Uniti è così retrograda, ignorante e offensiva che è difficile persino capire come si possa affermare. Questa, tuttavia, è la visione ufficiale del Presidente degli Stati Uniti e di tutto il suo governo. Il loro arrogante disprezzo traspare ancora più acutamente dalle parole del Vicepresidente Vance o del Segretario di Stato Rubio.
La scelta dell’espressione “Giorno della Liberazione” – Liberation Day – per annunciare il nuovo regime tariffario (posto in essere per alcuni giorni) è di per sé un ulteriore attacco all’Europa, specie al Paese che mi ha adottato, dove la gente ricorda ancora cosa significhi “liberazione” dal vero fascismo. Come il resto degli insulti provenienti dalla leadership statunitense, è meschino e puerile, però al tempo stesso è serio e, come tutto ciò che viene fatto e detto nelle sedi del potere americano, ha conseguenze sono reali e crescenti.
Nel frattempo, a Filadelfia, mi ci sono voluti solo pochi minuti per portare a termine la mia commissione, ma la decisione di fare domanda per vivere in un altro Paese è altrettanto seria e avrà conseguenze concrete (in questo caso positive, si spera). Sono tornato al treno, tra i senzatetto che dormivano per strada e i simboli di una nazione che non riconosco più, pensando a come i miei antenati siano venuti in questo Paese dall’Europa orientale poco più di un secolo fa per costruirsi una vita migliore lontano dal pericolo e dalla tirannia, e alla strana sensazione di un pendolo che oscilla all’indietro mentre progetto di tornare indietro e tornare in Europa.
Il mio visto è stato approvato il 3 aprile, il giorno dopo l’annuncio tariffario dal nome ridicolo. Il giorno della mia liberazione personale. Chissà cosa diventerà questo Paese: le conseguenze sono scontate, ma imprevedibili allo stesso tempo, e le cose possono andare in tutte le direzioni. Tutto è in continuo cambiamento, incerto, carico di tensione. Sono sicuro solo di una cosa: non voglio restare per scoprirlo. E nemmeno lo farò.
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